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Il motore del mondo

Michele Masneri

Si guiderà da sola, naturalmente. Potrà essere elettrica o a energia solare. Ingegneri, filosofi e avvocati, startup dell’intelligenza artificiale: tutti al lavoro in Silicon Valley sulla macchina che ci cambierà la vita. Già, ma come? Siamo entrati nei loro laboratori. Reportage

San Francisco e la Silicon Valley, che grande paradosso, anche automobilistico. I trasporti qui convincerebbero a votare Trump anche il più incallito democratico; nella città che sforna e propina innovazione al resto del mondo (patria di Uber, Lyft, Facebook, Google, Twitter) la metropolitana (Bart, Bay Area rapid transit) pare uscita da “I guerrieri della notte”, puzzolente, antica, con due sole tratte, pare la linea B romana, ma più lenta; mentre le due arterie che collegano la città a Silicon Valley, le autostrade 280 e 101, sono intasate costantemente negli orari di punta, col loro prezioso carico di ingegneri e nerd fermi nelle loro Tesla peggio che Fantozzi sulla Bianchina. In questo scenario, tutti confidano nell’auto senza conducente, naturalmente il business del futuro, ma soprattutto, nell’attesa, studiano forme di convivenza e sopravvivenza umane per il presente. Così sulle strade sfrecciano talvolta le Volvo grigio argento senza pilota di Uber (anche se un pilota a mani incrociate è tenuto a stare comunque seduto al volante), e in Silicon Valley si aggirano i bianchi veicoli concorrenti di Waymo (la divisione di Google, la più avanzata al momento). Ma più spesso i poveri umani cercano il parcheggio che non si trova.

 

Da una parte, dunque, ricerca futuribile e scatenata. Non solo gli ingegneri sono al lavoro, ma anche i filosofi e gli avvocati. E’ chiaro che l’auto senza pilota cambierà molti modelli di vita. Chi sarà responsabile penalmente e civilmente degli incidenti? Un altro settore che verrà “disrupted” è quello infatti delle assicurazioni. “Si parla molto di etica” dice al Foglio Marco Pavone, professore di astronautica a Stanford ed esperto di robotica oltre che membro del Cars - Center for Automotive Research dell’università californiana, che studia l’auto del futuro. “E sento parlare spesso di robot che assumono decisioni, ma è un problema mal posto” dice il professore. “Le macchine al momento non sono infatti assolutamente in grado di prendere decisioni autonome, dunque è del tutto prematuro parlare di un’etica legata all’auto robotizzata”. “Una macchina tipicamente è disegnata per compiere un’operazione, all’interno di condizioni date. Per esempio l’autopilota di un aereo c’è da anni, e nessuno si interroga su cosa dovrebbe fare l’aereo nel caso in cui qualcuno attraversa la pista. Cioè su cosiddette scelte etiche e dilemmi. Nessuno si è mai posto questi problemi per l’aereo. Perché farlo con l’auto?”.

 

“I veri problemi etici” continua Pavone “sono piuttosto altri”. Proprio nel settore dell’automobile a guida autonoma, ma già oggi con il car sharing e le forme di trasporto condiviso. “Molte meno persone utilizzeranno in futuro i servizi pubblici. Già ora per esempio a Philadelphia stanno eliminando delle linee di trasporto perché Uber ha sostituito gli autobus. Anche a San Francisco Uber costituisce ormai il venti per cento del traffico. Ma le aziende di trasporto pubblico, che già sono spesso in crisi, così facendo non si sa a cosa andranno incontro. E i meno abbienti non si sa come si sposteranno”, dice il professore. Il tema, insomma, è che “per migliorare la mobilità di una certa categoria di persone si sta mettendo in crisi la mobilità di molte altre. Questo è il vero problema etico. E’ un problema che coinvolge milioni di persone ed è assurdo che la politica non si interroghi, mentre la discussione viene lasciata alle sole case produttrici”.

 

“Molte meno persone utilizzeranno i servizi pubblici. A San Francisco Uber costituisce ormai il 20 per cento del traffico”.

Stefano Domenicali, ceo di Lamborghini, annuncia una collaborazione con Stanford: dalla California a Sant’Agata Bolognese

Una particolarità del Cars, spiega Pavone, è che “siamo l’unico dipartimento che studia l’automotive da tutti i punti di vista, quello tecnologico, ma anche quello filosofico e quello legale”. Quando si arriva al Centro, un grande loft o capannone nell’immenso parco dell’Università di Stanford, pare di entrare nel laboratorio del meccanico di 007, quello che allestiva gli speciali veicoli per James Bond, e un po’ anche in “Ritorno al futuro”. Qui infatti tra le auto che vengono preparate, testate, smontate, c’è in bella vista una DeLorean utilizzata per testare la guida con l’autopilota, più altre vetture. Poi una Ford elettrica, un’auto solare segretissima, un prototipo con degli strani radar che servono a evitare i pedoni. Tutto avviene in collaborazione con le case automobilistiche, e il dipartimento ospita anche gli Open Garage Talks, dibattiti con protagonisti del settore. A maggio è stato il turno del ceo di Lamborghini. L’amministratore delegato del gruppo di Sant’Agata Bolognese, Stefano Domenicali, ha tenuto una conferenza affollatissima a cui era presente anche l’ambasciatore d’Italia a Washington Armando Varricchio.

 

Domenicali è anche l’ex direttore sportivo dell’ultima Ferrari che ha vinto il mondiale di Formula 1, e tra il pubblico di Stanford c’era anche un fuoriuscito da Maranello, Corrado Lanzone, che da pochi mesi ha lasciato l’Emilia per diventare responsabile della manifattura di Zoox, una delle startup più interessanti per l’auto autonoma (valutata un miliardo, ha già conquistato e rubato manager alle varie Google e Tesla). Domenicali ha annunciato qui poi una collaborazione tra Lamborghini e Stanford, con un tirocinio di un anno per portare uno studente dell’università californiana a Sant’Agata bolognese. Si tratta di Lucio Mondavi, ultima generazione della dinastia di vignaioli di Napa Valley, laureato e masterizzato a Stanford in ingegneria meccanica.

 

“Comincerò per sei mesi con un programma di ricerca sulle sospensioni” dice Mondavi al Foglio, mentre il ceo di Lamborghini ha ribadito come insieme agli altri marchi emiliani si punta a mettere insieme le università di Bologna, Modena, Parma, Reggio Emilia e Ferrara rafforzare la “Motor Valley” con l’obiettivo di creare una integrazione tra università, aziende, ricerca pubblica e privata, che è poi il segreto di Silicon Valley.

 

Mentre si studia il futuro, si appara il presente. Che l’auto autonoma non è cosa che arriverà dopodomani, ormai lo si è capito tutti. Apple ha un po’ raffreddato i suoi progetti per un iPhone su quattro ruote, e ha fatto sapere di puntare soprattutto sul software; si è capito tutti che far partire una manifattura da zero è impresa titanica (anche per i titani di Cupertino). E costruire macchine è da sempre un’attività che brucia molti soldi.

 

Ci si allea, dunque. Fca è appena entrata nella partnership con Intel, la stessa Google e l’israeliana Mobileye (fondamentale azienda che fa i radar) per lavorare insieme su un nuovo prototipo. E si fanno profezie: l’auto che si guida da sola arriverà nel 2020. Anzi no, nel 2025. Si guiderà in città, o forse solo in autostrada. C’è chi punta a migliorare l’esistente: così il livello più alto di automazione di una macchina in produzione lo raggiungerà per prima la Audi col suo modello di punta A8, che entrerà in commercio nel 2018. Livello 3, cioè una guida autonoma completa fino a 50 km orari (in determinate condizioni stradali), battendo dunque il sistema attualmente più evoluto in commercio, l’Autopilot della Tesla.

 

E c’è chi studia soluzioni futuristiche alternative, sapendo che il primo che azzeccherà la mossa giusta sbanca. George Hotz, leggendario hacker di Silicon Valley, si è buttato pure lui sul business dell’auto senza conducente. Hotz, ventisette anni, è l’informatico già celebre perché dieci anni fa era riuscito a sbloccare l’iPhone eludendo i sistemi di controllo della Apple (lo stesso aveva fatto poi con la Playstation). Era stato denunciato dalla Sony ma poi assunto da Facebook. Scomparso per un po’, è ricomparso come fondatore di Comma, una startup che si occupa di intelligenza artificiale applicata alla guida autonoma. Comma, che ha dodici dipendenti e finanziatori come Andreessen Horowitz, uno dei fondi più prestigiosi della regione, è una delle aziende più originali per quanto riguarda la ricerca sull’auto autonoma: invece che riprogettare l’auto da capo, studia e vende un software e una specie di robottino applicabile alle macchine, che si chiama Panda e soprattutto registra il comportamento di milioni di automobilisti. Tutti dati che vengono processati dai computer fino a ricreare una casistica quasi infallibile di ciò che può e non può succedere in tutti gli scenari della guida. Il ragionamento è semplice e geniale. “Costruire auto da zero è del tutto stupido. Le auto che ci sono in giro vanno benissimo, basta solo renderle driverless” ha detto l’imprenditore-inventore. Soprattutto, in virtù dello spirito dei tempi, perché non usare gli automobilisti come cavie-trasmettitrici, invece di spendere miliardi come fanno i concorrenti per mandare in giro prototipi cervellotici con radar costosissimi? Già mille guidatori hanno installato il software di Comma, consentendo dati per una percorrenza di 1 milione di miglia. “L’auto senza conducente di tutto ha bisogno tranne che di ingegneri” ha detto George Hotz. “Non ha bisogno di manifattura, né di regolamentazioni”. E’ una visione siliconvallica-estrema, però potrebbe essere comunque un punto di vista interessante. Del resto nessuno ha capito ancora la ricetta giusta.

 

La rivoluzione potrebbe partire dove meno lo si aspetta. Per esempio dai camion, più facili da rendere autonomi rispetto alle auto. Settore vitale dell’economia americana, vale 700 miliardi di dollari l’anno, impiega 1,7 milioni di persone, rappresenta un indotto fondamentale (concessionari, meccanici, ma anche autogrill, servizi vari) ed è considerato oggi la miglior opportunità di impiego per la popolazione a bassa scolarizzazione, con stipendi medi che possono arrivare anche a 100 mila dollari.

 

Il docente di Astronautica a Stanford, il ceo di Lamborghini in missione, il fuoriuscito da Maranello. E Fca che studia con Intel, Google e l’israeliana Mobileye un nuovo prototipo

Tutto questo potrebbe presto scomparire; la stessa Uber ha la sua divisione camion (si chiama Otto, è stata sviluppata da Google e comprata lo scorso agosto dalla compagnia del ride-sharing). Quello dell’autotrasporto potrebbe diventare il primo settore a essere automatizzato a causa dei percorsi ripetitivi e dell’ambiente controllato come quello autostradale, che non richiede intervento umano. “Le tratte svolte dai camionisti a lungo raggio sono un tipico esempio di come i robot potranno sostituire gli umani”, dice al Los Angeles Times Jerry Kaplan, docente a Stanford e autore di libri sul tema come “Humans Need Not Apply” e “Artificial Intelligence: What Everyone Needs to Know”. Intanto i camion senza conducente sono già in circolazione sulle autostrade californiane: Otto impiega camion di serie sempre Volvo a cui applica sensori (tra cui il lidar, il sofisticato radar sviluppato dalla startup israeliana Mobileye, comprata da Intel per 15 miliardi di dollari). Secondo il ceo di Otto, l’israeliano Lior Ron, nei prossimi anni le aziende di trasporti risparmieranno miliardi perché i camion potranno viaggiare 24 ore su 24; un addetto umano sarà a bordo come sorvegliante, anche se sembra più che altro un contentino psicologico. Si pone anche il tema di quanto pagare un autista che non guida più ma sorveglia e basta, e certamente la paga sarà inferiore dei suoi colleghi anziani che guidavano. “E’ un tema molto dibattuto nelle aziende del settore”, dice Ron.

 

Altre startup come Peloton, azienda di Mountain View, stanno studiando camion robotizzati che viaggiano in convoglio, uno dietro l’altro, con software che permettono di ottimizzare frenate, accelerazioni, e risparmi di carburante del 7 per cento. Ma è chiaro che i risparmi maggiori arriveranno dal personale. E forse non è un caso che il presidente Donald Trump abbia ricevuto con tutti gli onori alla Casa Bianca i rappresentanti dei camionisti, sedendo in cabina di un gigantesco automezzo nero per foto già virali, in quello che potrebbe venir ricordato come un funerale in grande stile di un glorioso impiego novecentesco.
Ultima a investire sui camion, ma in Cina, è stata Nvidia, storica produttrice di chip che sta vivendo una seconda giovinezza come leader nelle apparecchiature per la mobilità. Collabora con Tesla, Toyota, Mercedes-Benz, Audi. In agosto ha annunciato un investimento milionario in TuSimple, startup cinese che produce sistemi di autoguida di precisione per i mezzi pesanti.
Nvidia non è l’unico colosso ad affacciarsi per la prima volta sul settore dei trasporti. Poche settimane fa Samsung, il marchio coreano più celebre per i telefonini che non per le auto, ha annunciato la creazione di un fondo di investimento da 300 milioni di dollari in startup del settore. Già a marzo l’azienda di Seul aveva però acquistato lo storico marchio Harman (stereo e sistemi di connettività) per 8 miliardi di dollari. Adesso rilancia, anche se, fa sapere, non si butterà nella manifattura di auto, ma “soltanto” nella produzione di sistemi di guida e connessione. Costruire l’hardware insomma fa paura a tanti; e nessuno sa bene cosa riserverà il futuro di un’industria, quella della produzione di auto, che per molti versi è rimasta identica da cent’anni.
Ma questa benedetta auto senza pilota dove la si potrà trovare, ammesso che arriverà, un giorno? “Molti pensano che la andremo a comprare in concessionaria” ha detto il giovane imprenditore Austin Russell, della startup Luminar, piccola azienda che punta a migliorare i sensori del lidar, il radar per la navigazione automobilistica su cui tutte le aziende stanno lavorando. “Beh, non è proprio così”. Rimane infatti un grande problema di sicurezza.

  

“Le auto devono essere in grado di affrontare ogni tipo di eventualità. Al momento la tecnologia commette un errore ogni mille miglia percorse, ma è troppo poco, questa quota va abbassata a uno ogni cinque milioni di miglia, per essere sicura” dice l’imprenditore ventiduenne. Il fatto è che per il momento l’entusiasmo per questo business porta tutti, protagonisti e spettatori, a un po’ di superficialità.

 

“Le aziende finora si sono concentrate sull’abbattimento dei costi, invece che sull’aumento della performance; un radar oggi costa intorno agli 80 mila dollari. Però così la tecnologia Lidar ha lo stesso tasso di errore da decenni, il che la rende impraticabile”. Dunque, se si vorrà davvero un’auto in grado di correre da sola, bisognerà considerare altri ordini di grandezza, arrivando intorno ai 300-400 mila dollari.

 

E, soprattutto, la cifra mostruosa imporrà un cambiamento del modello di vendita. Solo grandi aziende di ride sharing potranno avere infatti flotte di auto equipaggiate con queste tecnologie costosissime. Come successe coi telefonini, quando i cellulari smisero di costare duecento euro e si passò all’iPhone da ottocento, si smise di comprarli al negozio e si cominciò un modello a “subscription”, noleggiando l’apparecchio dai gestori. Sarà dunque questo il modello del futuro, si smetterà di possedere fisicamente l’auto per utilizzarla a lungo o breve termine.

 

Così la vera categoria a rischio, diciamo i tassisti del futuro, è quella dei concessionari. George Bauer, fondatore della startup Fair, che permette l’acquisto di auto online, ha detto che “si è assistito a grandi cambiamenti sul piano tecnologico, ma l’acquisto e il possesso della macchina sono fermi a quarant’anni fa. Ed è un processo ritenuto sgradevole dall’87 per cento degli americani”. “Non avete capito che ora siamo di fronte a una rivoluzione” dice ancora Bauer. Tutta l’operazione di “acquisto” di un’auto sarà rivoluzionata e impacchettata.

 

“Per esempio, si metteranno insieme in un singolo pagamento tutte le componenti di costo: assicurazione, parcheggio, tasse, carburante. Oggi ogni pagamento deve essere fatto a parte, è un sistema completamente antiquato”. Bauer ha fondato la sua app, Fair, che fa tutto questo in automatico. “I concessionari dovranno rivedere completamente il loro modello, ed è possibile che siano sostituiti da qualche azienda che attualmente non fa parte del settore”. Non a caso le associazioni di categoria sono già sul piede di guerra negli Stati Uniti.

 

Dal possesso si passerà insomma sempre più all’uso, se possibile condiviso. E da Uber, la app rivoluzionaria che dal 2009 ha inaugurato l’idea dell’autista “diffuso”, sono nati vari derivati. Non solo Lyft, la piccola concorrente californiana (ma molto in crescita); anche in altri Stati americani germogliano esperienze interessanti. Ad Austin, capitale del Texas, una piccola startup locale (Ride Austin) ha inventato un nuovo modello. “Il comune aveva introdotto l’obbligo per taxi e ride sharing di dare le impronte digitali dei conducenti, per aumentare la sicurezza dei passeggeri” dice al Foglio l’amministratore delegato e fondatore di Ride Austin, Andy Triba. “Uber e Lyft non hanno voluto obbedire e hanno tentato di cambiare la legge, ma i cittadini hanno votato per mantenere i controlli” dice Triba. “Letteralmente il giorno dopo questo voto Uber e Lyft hanno preso armi e bagagli e se ne sono andate”. Così Austin, città molto in crescita, già da molti considerata la nuova Silicon Valley (e con un problema molto serio di traffico), è andata in crisi.

 

“In circa quattro settimane abbiamo messo su la società e la piattaforma” dice Triba, trentanove anni, startupper come si dice seriale, che è stato direttore strategie di Intel e consulente di Obama alla Casa Bianca. Adesso ha una sua nuova azienda ma dirige – gratis – Ride Austin. La differenza con Uber è che “i nostri autisti prendono il 100 per cento del prezzo della corsa. Non tratteniamo il 20 per cento come gli altri. I nostri costi operativi inoltre sono più bassi. Poi ridistribuiamo gli utili e i clienti possono decidere di destinare il resto a enti di beneficienza locali. Abbiamo tirato su oltre duecentomila dollari per charity del posto. Ride Austin funziona bene, l’abbiamo sperimentato. “Le corse sono state oltre due milioni nel primo anno, con cinquemila autisti”.

 

“Vede, non tutti i taxi scompariranno” dice Triba. “In futuro assisteremo a una trasformazione verso modelli ibridi, per esempio come in Russia con Yandex, la più grande compagnia di taxi nazionale, che però ha adottato una app che la trasforma in una specie di Uber. Ci sono opportunità di innovare anche per i taxi. Certo non si può rimanere incollati allo status quo”, dice l’imprenditore. “Le interazioni tra politica e tecnologia sono molto interessanti” continua Triba, “me ne sono occupato nel mio anno alla Casa Bianca”. Pensate di espandervi in altre città? “Credo ci sia spazio per il ride sharing in ogni città del mondo, ma fatto da persone del posto. Credo che come c’è una sensibilità per comprare cibo locale, investire in cultura locale, ci sia anche un interesse in un’azienda di trasporti locale”. In questo Austin è sempre stata all’avanguardia, qui del resto quarant’anni fa è nato il più grande gruppo del cibo bio e locale, Whole Foods, che oggi è stato comprato dalla Amazon di Jeff Bezos.

 

Ma se nessuno scommette più sull’auto di proprietà (che non scomparirà, ma diventerà un’altra cosa, come il vinile rispetto all’iTunes), si studiano diverse soluzioni per un uso condiviso, a seconda dei gusti, dei redditi.

 

Con i costi che avrà all’inizio, intorno ai 3-400 mila dollari, cambierà anche il modello di vendita. Dal possesso all’uso condiviso. I concessionari, tassisti del futuro: una categoria a rischio. Turo, un Airbnb delle automobili. Sul fronte affluente, la macchina on demand, che ti portano dove desideri

Sul versante poraccio c’è Turo, che si annuncia l’Airbnb delle case; è una specie di Enjoy ma di privati, scarichi la app e scegli la macchina che fa per te, trovi la posizione, sono macchine che i possessori vogliono mettere a reddito quando non le usano. Noi per andare un weekend fuori città ecco che scegliamo la Smart (anche per sentirci un po’ a casa). L’auto si aprirà con una app incorporata nel veicolo dopo una micidiale procedura. Ecco, andiamo (in Uber) dove la Smart è parcheggiata, ci accingiamo a sbloccarla, e come Enjoy e Car2Go (i servizi di car sharing rispettivamente di Eni e Daimler) si apre in remoto tramite app. Però qui il sistema è più farraginoso, bisogna scattare col proprio telefono e poi “uploadare” sei foto del veicolo (fronte, retro, due lati, una della tua patente, una di te con la patente in mano). Poi la macchina si dovrebbe sbloccare, e poi effettivamente dopo un po’ le porte si aprono; poi però per farla partire bisogna fare ulteriori foto, agli interni, al contachilometri e al livello della benzina. Caricarle, attendere nuovamente. Non l’ideale se si ha fretta. L’auto poi è lercia, con grosse macchie sui sedili, e parcheggiata su una salita dove il telefono non prende, dunque giriamo per mezz’ora dopo esserci scattati vari selfie per riuscire a trovare campo e a scaricare le maledette foto. Ormai rassegnati, mentre i vicini stanno per chiamare la polizia vedendo questo individuo aggirarsi nervosamente verso il veicolo, riusciamo finalmente a partire. Dentro c’è anche un libro di Gabriel García Márquez (ah, la poesia degli oggetti trovati nelle auto condivise; si sogna da tempo un romanzo alla Perec sugli oggetti rinvenuti nelle auto in car sharing); dopo le tragiche formalità elettroniche il servizio entusiasma, costa niente, trenta dollari al giorno (tutto compreso), anche se – come la differenza tra Airbnb e gli alberghi – bisogna stare attenti ai dettagli: se prendi multe, ci saranno ricarichi micidiali; così come se non la riconsegni col serbatoio pieno; addirittura provano a convincerti che devi lasciarla meglio di come l’hai trovata, suggerendo di passare all’autolavaggio, ma a quel punto diventa troppo complicato. Noi con la nostra Smart passiamo il Golden Gate Bridge verso nord e il tunnel intitolato a Robin Williams per andare su nella regione dei vini di Sonoma, raggiungiamo degli amici americani tutti entusiasti per questa auto per loro esotica (“ma quante persone ci stanno? La possiamo provare?”), la godiamo fino alla riconsegna, quando altre situazioni fantozziane ci mettono di fronte a una tragica verità di Silicon Valley: non tutte le app nascono perfette. Così il proprietario nel frattempo ci ha scritto (con la micidiale moltiplicazione dei messaggi tipica di Airbnb, lo stesso arriva per mail, sulla app, come Sms, intasandoti il telefono), di riportarla in altra location, perché nel frattempo si è trasferito (ma come, proprio nel weekend?); lo facciamo, siamo un po’ in ritardo, e dunque mentre siamo seduti dentro l’auto si blocca e non parte più. Il servizio clienti non funziona, il proprietario nel frattempo ha attivato un bot cioè una specie di robottino per rispondere ai messaggi (che non è male, meglio di tanti umani, si presenta e scrive “ciao, chiamami pure Valery, sono il tuo bot”), e dunque siamo chiusi nella Smart immobilizzata mentre il parcheggiatore del garage della nuova abitazione del proprietario umano ci chiede perché non ci muoviamo, e noi conversiamo col robot. Poi arriva un intervento (non si sa se umano, divino o robotico) e l’auto viene miracolosamente sbloccata. Alla fine riusciamo a parcheggiarla convinti di aver rispettato tutte le regole ma si pone il consueto problema della recensione, tu la fai a me e io a te, l’incubo delle varie sharing-cose; ecco dunque il solito dilemma, essere spietati e precisi oppure solidali , dunque americani o italiani; si opta per il volemose bene, mettiamo 5 stelle, come quando gli uberisti guidano male ma si pensa che peggiorargli il punteggio gli rovinerà la vita, avranno i mutui, le famiglie (è il problema del cattocomunismo). Invece il proprietario ci dà due stelle rovinandoci per sempre la reputazione su Turo, saremo esposti al pubblico ludibrio d’ora in poi, e non si può neanche (come in Airbnb) modificare la propria review.

 

Per evitare di diventare ostaggio di auto autobloccanti, e sul fronte affluente, a San Francisco è da poco attiva Audi on Demand. Il gruppo tedesco infatti ha stabilito da due anni questa startup e app che ti affitta le macchine della casa, con tutte delle trovate per rendere graziosa l’esperienza. “Non devi venire a prenderla da noi, la macchina, ma un concierge te la porta dove desideri”, dice al Foglio Ben Kellgren, Sales & Marketing Manager, Audi on demand. “L’auto arriva pronta, pulita, con una bottiglia d’acqua, un caricatore per l’iPhone. Tutti i modelli sono Quattro cioè a trazione integrale, perché San Francisco è un’ottima location anche per andare a sciare”, dice il manager.

 

Il car sharing di Audi annulla insomma tutte le rotture, il parcheggio (i driver arrivano sempre in coppia, come i carabinieri, uno te la consegna e uno guida l’altra macchina). Queste Audi sono anche equipaggiate per i ponti, così non devi impazzire (il Golden Gate Bridge, quello celebre, costa circa sei dollari, e lo puoi pagare online entro 48 ore dal passaggio andando sul portale Internet della Società oppure col telepass. Il Bay Bridge, quello a Est che collega con Berkeley, si paga solo in entrata e invece ti devi fermare al casello oppure avere il FastTrack, l’equivalente del nostro telepass).

 

“Con Audi on Demand eviti tutti i pagamenti perché abbiamo i telepass incorporati. Anche la benzina non conta, se la riporti mezza vuota non facciamo pagare sovrapprezzi ma solo il costo reale del carburante” dice Kellgren. San Francisco è stata scelta apposta, perché ormai città più cara del mondo, con una classe di giovani talentuosi e spendaccioni. “L’età media dei nostri clienti è sui 40 anni, giovani famiglie che hanno già una macchina e che ci utilizzano come seconda o terza auto nel tempo libero nel weekend, oppure uomini d’affari che ci usano durante la settimana” dice il manager. “I modelli più richiesti sono la classica berlina A4 e il suv Q5”.

 

Un’altra differenza poi rispetto ai volgari autonoleggi è che l’auto che scegli è “proprio quella che vedi sulla tua app, di quel colore, e non un equivalente” dice ancora Kellgren. Quello che i manager non dicono è il car sharing Audi è naturalmente un ottimo modo per mostrare al pubblico potenziale le loro macchine: è possibile noleggiare infatti nuovissimi modelli non ancora sul mercato, è un modo insomma che le case costruttrici hanno inventato per invogliarti all’acquisto. Magari un giorno ci sarà un’opzione: vuoi tenerla ancora un giorno, un mese, un anno? Preparandoci insomma per quando i concessionari non ci saranno più. E possedere un’automobile tutta intera, e pagare e gestire la sua assicurazione, la benzina, le gomme, sembrerà un’esperienza pazzamente complicata. Molto più che guidare.