Il grande falso della trattativa

Massimo Bordin

Cosa nostra, lo stato e la politica. La trama del “processo del secolo” è diventata una formidabile comica. Come e perché i nuovi professionisti dell’antimafia hanno tenuto in ostaggio un paese

In una delle ultime udienze del processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia, l’avvocato Giuseppe Di Peri, difensore di Marcello Dell’Utri, ha fatto garbatamente notare alla Corte d’assise come siano ormai passati più di quattro anni dal rinvio a giudizio e ancora l’istruttoria dibattimentale non solo non si sia conclusa ma venga continuamente alimentata da sempre nuove richieste di acquisizione di nuovi atti da parte della pubblica accusa. L’avvocato Di Peri ha perfettamente ragione nel segnalare la questione come una anomalia ma proprio il suo rilievo mostra come non si possa considerare il processo di Palermo alla stregua di un normale processo, con le sue deformazioni dovute alle modifiche procedurali sempre più favorevoli all’accusa. Il processo “trattativa” è un evento metagiuridico e se è possibile fissare la data d’inizio della sua già lunga fase dibattimentale, è assolutamente incerta quella relativa all’inizio delle indagini che l’hanno preceduta. In fondo siamo di fronte a una elaborazione, più che processuale, narrativa di un tema reale, il rapporto fra mafia e politica.

   

"Il giorno della civetta" poneva la questione delle connessioni politiche della mafia e anche quella della sua sostanziale impunità

L’elaborazione del problema sotto forma narrativa ha in origine motivi nobili. Si pensi a Leonardo Sciascia e al suo “Il giorno della civetta”. Il libro pone la questione delle connessioni politiche della mafia, ormai non solo più a livello locale, e anche quella della sua sostanziale impunità giudiziaria. Negli anni Sessanta, quando Einaudi pubblicò il libro, i processi ai mafiosi si concludevano con raffiche di assoluzioni “per insufficienza di prove”, come recitava la formula dell’epoca. La reazione dello stato si sostanziava ogni tanto nella misura del confino che, oltre a essere odiosa per la sua arbitrarietà poliziesca ed evocativa del regime fascista, si rivelava per di più controproducente visto che l’unico risultato prodotto era l’allargamento delle attività mafiose a zone d’Italia in cui, prima dell’arrivo dei confinati, non ve n’era traccia. Da allora, all’iniziativa giudiziaria cominciarono ad affiancarsi, o per meglio dire ad avere un ruolo di supplenza, la denuncia giornalistica e letteraria e, sul terreno più propriamente istituzionale, la commissione parlamentare antimafia. Con il maxi processo, scaturito dal pentimento di Buscetta nel 1984, la questione della improduttività giudiziaria verso le azioni criminali dei mafiosi viene meno. Resta intatto invece il problema dei rapporti fra mafia e politica che i verbali di Buscetta non affrontano se non marginalmente. Sono gli anni in cui la questione viene affrontata con molte campagne giornalistiche ma lo strumento che si rivela decisivo per plasmare l’opinione pubblica è uno “sceneggiato tv”, come si diceva nel secolo scorso – oggi si chiamano “serial” – prodotto dalla Rai: “La piovra”. L’immagine dei rapporti fra apparati dello stato e mafia si fissa per milioni di italiani nelle disavventure, e poi nella morte violenta, di un onesto commissario cui si vuol impedire di indagare. Dieci miniserie si susseguono per gli ultimi sedici anni del secolo scorso e arrivano a esaurirsi nel primo del nuovo millennio. Vengono formate più generazioni. In mezzo passano Tangentopoli e le stragi di Capaci e via D’Amelio e il processo Andreotti.

  

Con il maxi processo, la questione della improduttività giudiziaria verso le azioni criminali dei mafiosi viene meno

“La piovra” resiste come chiave d’interpretazione di quegli avvenimenti, ma non basta più. L’incedere dei fatti supera la fantasia dei pur sperimentati sceneggiatori. Alcuni magistrati palermitani si accorgono allora di disporre del miglior materiale per poter azzardare ancora di più nelle trame e nei protagonisti possibili. In fondo la prima sceneggiatura della trattativa diretta stato-mafia sta in una lunga lettera anonima spedita alla procura di Palermo dopo la strage di Capaci e prima dell’uccisione di Borsellino. La procura su quell’anonimo aprì un fascicolo che venne affidato proprio a Paolo Borsellino che non ebbe nemmeno il tempo di occuparsene. Il fascicolo restò vuoto ma una scena descritta dall’anonimo fonda l’inizio di un possibile plot ancora migliore de “La piovra”. E’ un incontro, nella penombra di una sagrestia, fra un politico, Calogero Mannino, e il capo dei capi, Totò Riina. Oltre i personaggi, c’è un discorso, quello del capomafia che elenca una serie di richieste. Un luogo, l’incontro, il discorso. E’ un pentito, qualche mese dopo, a riproporre quella trama, ma la rimaneggia nei tre punti chiave. Viene cambiata la location, dalla buia sagrestia della chiesa di San Giuseppe Jato si passa al luminoso salotto della casa palermitana di Ignazio Salvo. Fin qui, poco male. Aumentano i personaggi. Oltre al padrone di casa ci sono Salvo Lima, al posto di Mannino, e Giulio Andreotti. La trama comincia a gonfiarsi troppo ma ancora reggerebbe se il pentito Di Maggio non decidesse di cambiare il terzo elemento, il discorso, in un gesto. Quando arriva, Riina li bacia tutti tre, Andreotti compreso. Così diventa un b-movie ma i magistrati neo-sceneggiatori si lasciano convincere. La tentazione del resto è forte. Siamo a quello che “La piovra” in fondo fa capire allo spettatore, siamo alla massima espressione della teoria, allora assai propagandata da Leoluca Orlando, del cosiddetto “terzo livello”. La tesi era lineare, fin troppo: alcuni politici non sono collusi con la mafia ma ne fanno direttamente parte, sia pure in un ruolo particolare. Quel bacio deve voler dire questo. Uno schema del genere ovviamente non prevede trattative. 

   

Nei tg il palazzo di giustizia inquadrato tutte le sere è quello di Milano. A Palermo capiscono che il loro “processo del secolo”, che doveva ricostruire “la vera storia d’Italia” (titolo del volume che rendeva disponibile in libreria la loro richiesta di rinvio a giudizio), è ormai marginale

Una trattativa è possibile fra realtà diverse. Andreotti, abbracciato e baciato da Riina, è praticamente dei loro, ha una sua autonomia di comando, può perfino ordinare omicidi e infatti viene accusato anche di essere stato il mandante del delitto Pecorelli. Il lancio del nuovo “serial”, con la sceneggiatura non più di Rulli e Petraglia ma dei pm palermitani con la collaborazione decisiva, in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, di un pentito, era stato preparato con molta cura. Era stato fatto tornare dagli Usa Buscetta per preparare il terreno all’avviso di garanzia con una audizione davanti alla commissione parlamentare Antimafia presieduta da Luciano Violante che, con una serie di domande ben mirate, era riuscito a ottenere dal vecchio pentito una descrizione della misteriosa entità, capace di dare ordini perfino a Cosa nostra, perfettamente sovrapponibile al controverso e ormai anziano statista democristiano. Anche il sostegno mediatico ed editoriale non era mancato. La sceneggiatura modificata dal pentito Balduccio Di Maggio sembrava avere successo ma era solo una impressione superficiale. In realtà il “processo del secolo” reggerà il palcoscenico per anni ma non sarà mai la questione principale. Intorno succedeva ben altro.

  

Dopo la cattura di Riina la mafia aveva scatenato un’estate di attentati che per la prima volta avvenivano fuori dalla Sicilia e avevano valenza sempre più schiettamente terroristica, con vittime casuali colpendo i luoghi d’arte. Nemmeno quegli attentati però conquistano la scena per più di qualche giorno, tante sono le novità del 1993. Il sistema politico si sfascia, i partiti di maggioranza spariscono, la sinistra si appresta a vincere le elezioni e Berlusconi comincia a profilarsi come unico antagonista. Anche sul fronte propriamente giudiziario le indagini su Andreotti restano un po’ sullo sfondo. Nei tg il palazzo di giustizia inquadrato tutte le sere è quello di Milano, non quello di Palermo. E così sarà negli anni successivi, dopo la vittoria di Berlusconi e l’inizio dell’offensiva giudiziaria contro il Cavaliere. A Palermo capiscono per tempo che il loro “processo del secolo”, che doveva ricostruire la “vera storia d’Italia“ – come avevano titolato il volume che rendeva acquistabile in libreria la loro richiesta di rinvio a giudizio – è ormai marginale. Sulla sorte giudiziaria di Andreotti l’interesse è relativo, ristretto agli addetti ai lavori come un capitolo della eterna questione dei rapporti fra giustizia e politica. Per di più è netta la percezione che la faccenda del bacio, la modifica fondamentale dello screen play originario, quello dell’anonimo, non funzioni. A Palermo si pentono di essersi fidati di Balduccio Di Maggio, che peraltro si rivela un pentito infido quando, riguadagnata la libertà, decide di chiamare a raccolta i suoi fedelissimi per riconquistare la leadership della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, mentre i Brusca sono in carcere. La paranza dei pentiti commette anche degli omicidi e, una volta scoperta tutta la vicenda, Di Maggio viene riarrestato e ora sconta un ergastolo. Nel corso degli anni il processo si avvia alla inevitabile conclusione. Andreotti viene assolto dall’accusa principale, le sue colpe risalgono se mai troppo indietro nel tempo e sono prescritte per la giustizia e metabolizzate dall’opinione pubblica. Del “terzo livello” non si parlerà più.

   

Nel periodo fra l’inizio del processo Andreotti, nell’autunno 1995, e la sua conclusione in Cassazione nel 2004, maturano la mutazione del sistema politico, con la cosiddetta Seconda Repubblica, e la necessità di cambiare la trama che aveva prodotto il “processo del secolo”. Quando Andreotti entra per la prima volta nell’aula bunker dell’Ucciardone, è già un personaggio del passato. La storia raccontata nel suo processo ha indubbiamente un suo fascino retrospettivo ma non basta a far recuperare al palazzo di giustizia palermitano quella egemonia culturale persa con Tangentopoli. La sceneggiatura va riscritta tenendo conto della nuova realtà che è interamente occupata da una nuova figura chiave, quella di Silvio Berlusconi. Anche qui, però, Palermo rischia di arrivare in ritardo. Il primo avviso di garanzia per il Cavaliere, utile se non decisivo per la caduta del suo primo governo, arriva dalla procura di Milano via Corriere della Sera e i primi processi dove gli affari di Berlusconi sono sotto accusa si svolgono a Roma. E’ il famoso conflitto di interessi, le tre reti televisive, l’arma diabolica che la sinistra imputa al Cavaliere. Cose fuori dalla portata della procura palermitana. Per fortuna c’è Dell’Utri. L’uomo che ha costruito la struttura di Forza Italia è un palermitano che ha portato alla corte di Arcore un mafioso come stalliere. Si riparte da lì, dal 1993 e dagli attentati mafiosi sul continente mentre si preparano le liste elettorali. E se ci fosse una relazione?

  

Anche in questo caso i pm palermitani trovano la concorrenza di altre procure, quella di Firenze e quella di Caltanissetta, che hanno coltivato lo stesso dubbio, agganciando le figure di Berlusconi e Dell’Utri agli attentati del 1992-’93. Partono due indagini dove i due sono rubricati sotto pseudonimo, sono “Autore 1 e Autore 2” per l’indagine fiorentina e “Alfa e Beta” per quella nissena. Indagini che non approdano a nulla rispetto all’assunto accusatorio, non saranno mai un processo ma torneranno utili come suggestione in altri processi effettivamente svolti. Per esempio il pm Luca Tescaroli, allora a Caltanissetta, nella sua requisitoria al processo sulla strage di Capaci parlerà di un’azione di Cosa nostra volta, attraverso gli attentati, a “creare le premesse per la formazione di nuovi aggregati politici in un intreccio di rapporti fra rappresentanti dello stato e vertici di Cosa nostra”. E’ più o meno quanto sostengono a Palermo con le loro indagini intitolate “Sistemi criminali” i pm Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia. La matrice politica delle stragi viene fatta risalire ad un lavorio pre-elettorale che nel marasma politico del 1993 cerca di costruire al sud una sorta di “lega autonomista”, qualcosa che si muove in ambienti particolarmente poco raccomandabili come circoli massonici vicini ancora a Licio Gelli, personaggi sospettati di appartenenza alla ‘ndrangheta e perfino la vecchia rete meridionale di “Avanguardia nazionale” ancora legata all’inossidabile Stefano Delle Chiaie. Qualcosa del genere viene tentata anche in Sicilia con una lista “Sicilia libera” ispirata niente meno che da Leoluca Bagarella, ovviamente dietro le quinte. In pubblico l’aggregato risulta composto da discussi ex assessori e consiglieri comunali più o meno vicini ad ambienti mafiosi.

   

Le indagini denominate “Sistemi criminali”. La matrice politica delle stragi viene fatta risalire a un lavorio pre-elettorale che nel marasma politico del 1993 cerca di costruire al sud una sorta di “lega autonomista”.
E c’è una lista “Sicilia libera” ispirata niente meno che a Leoluca Bagarella

I due diversi tentativi, oggetto dell’inchiesta “Sistemi criminali 1” che sarà archiviata, cercano anche un raccordo attraverso un convegno comune che si tiene a Lamezia ma il progetto si ferma quando viene ufficializzata la nascita di Forza Italia. Questo almeno risulta dalle parole di numerosi pentiti che vengono sentiti nella seconda metà degli anni 90 e sollecitati sul tema del rapporto fra Cosa nostra e la politica negli anni cruciali dal 1992 al ’94. Quello che interessa gli inquirenti è il momento dell’abbandono del progetto “autonomista” e la scelta di appoggiare Berlusconi. Per questo nella seconda tranche dell’inchiesta ci si avvicina all’ipotesi di una utilizzazione consapevole da parte di Berlusconi degli attentati mafiosi a fini politici, forse di averli, attraverso intermediari, concordati se non addirittura commissionati. In fondo è l’ipotesi di lavoro delle procure di Firenze, dove si registra l’assoluta mancanza di prove in merito, e di Caltanissetta, dove la conclusione è più problematica e si lasciano aperte indagini su possibili “mandanti esterni a Cosa nostra”. A Palermo Ingroia e Scarpinato con la loro indagine hanno costruito un mosaico più complicato e ambizioso. I loro “Sistemi criminali” finiscono per essere la nuova stesura della “Vera storia d’Italia” che non aveva convinto i giudici del processo Andreotti. Si tratta della descrizione di una crisi di regime nella quale intervengono in chiave politica le diverse consorterie occulte e criminali che hanno segnato la storia nera del nostro paese, naturalmente guidate dalla mafia siciliana e a beneficio del nuovo protagonista della scena politica. Affascinante, ma non c’è nessuna prova e i pm sono i primi a convenirne chiedendo loro stessi l’archiviazione. Non se ne poteva cavar fuori un serial giudiziario in grado di reggere e, anche ammesso si fosse trovato un giudice disposto ad avallarlo, sarebbe sembrato un remake di “La piovra” che nel frattempo aveva chiuso i battenti anche per mancanza di pubblico.

   

   

  

A questo punto i pm palermitani hanno l’idea che gli consente di riguadagnare il terreno e il tempo perduto. D’accordo, non ci sono prove di reati specifici – questo il ragionamento – ma il fatto che la mafia abbia interloquito con la politica lo possiamo dare per acquisito, anche facendo la tara alle tante cose, effettivamente non riscontrabili, che ci hanno raccontato i pentiti. Se la mafia parla con la politica lo fa solo per chiedere concessioni e stipulare accordi sicuramente illegali. Se gli interlocutori sono membri di un partito di governo è come se i mafiosi parlassero con lo stato. Su Berlusconi non ci sono prove, su Dell’Utri si può invece provare a imbastire il famoso concorso esterno, ma il cuore dell’inchiesta sta nella “trattativa”. Da Liborio Romano, che promosse i camorristi poliziotti appena arrivò Garibaldi, fino ai nostri giorni la trattativa stato-mafia è una costante universalmente ritenuta plausibile un po’ da tutti. E’ il classico tema evergreen e per di più consente di tornare al copione dell’anonimo del ’92, ricorreggendo le sciagurate modifiche apportate dal pentito Di Maggio. Si recupera Mannino fra i personaggi ma lo si lascia sullo sfondo, serve all’inizio della trama, praticamente ne è l’innesco. Anche Riina è dietro le quinte, pur incombendo. Lo schema è triangolare: lo stato, la politica, la mafia. La location viene ancora spostata dalla casa palermitana di Ignazio Salvo a quella romana, vicino a piazza di Spagna, di Vito Ciancimino. Lo stato è rappresentato dai carabinieri del Ros che vanno a trovare il politico mafioso mentre è agli arresti domiciliari, per ottenere notizie utili a catturare Riina ancora latitante. I carabinieri del Ros, autori di una inchiesta su mafia e appalti, su quel dossier erano entrati in rotta di collisione con la procura palermitana prima dell’arrivo di Giancarlo Caselli. Il copione attribuisce all’allora colonnello Mori intenzioni più oblique. Mannino, terrorizzato dalla citazione dell’anonimo, manda il Ros da Ciancimino per sondare le intenzioni della mafia nei suoi confronti e, nel caso i suoi timori fossero fondati, ammorbidirle. La trama a questo punto avrebbe un primo intoppo perché è innegabile che il Ros, più che alle preoccupazioni di Mannino, pensa a catturare Riina e ci riesce, ma sono gli stessi carabinieri a salvare la sceneggiatura, ammettendo lealmente che nella cattura di Riina gli abboccamenti con Ciancimino sono stati di una utilità molto relativa.

   

Su Berlusconi non ci sono prove, su Dell’Utri si può provare a imbastire il concorso esterno, ma il cuore dell’inchiesta sta nella “trattativa”. Da Liborio Romano, che all’arrivo di Garibaldi promosse i camorristi poliziotti, fino a oggi, la trattativa stato-mafia è una costante ritenuta plausibile un po’ da tutti

A questo punto di una indagine ancora in abbozzo, c’è il colpo d’ala della sceneggiatura. Gli elementi dell’anonimo erano tre: il luogo, i personaggi e il discorso di Riina, quell’elemento che il pentito Di Maggio aveva trasformato nel bacio ad Andreotti. Si torna all’originale ma lo si materializza. Se i carabinieri dovevano ammorbidire la mafia avranno pur chiesto cosa potevano dare in cambio. Il discorso di Riina a Mannino, nella versione originale, era un elenco di richieste. Nella nuova versione non c’è un contatto diretto, dunque dovrà esserci qualcosa di scritto. A questo punto entrerà in scena un personaggio chiave, Massimo Ciancimino, il figlio scapestrato e scialacquone di don Vito che se lo teneva al fianco anche per evitare che combinasse guai. “Massimino Rolex”, come lo chiamavano gli amici della Palermo bene, si offre di collaborare e dopo varie peripezie produce un pezzo di carta con una serie di richieste. Il terzo e fondamentale elemento del copione è pronto. “Il papello”, spagnolismo con cui viene battezzato il pezzo di carta, è l’elemento fondante dell’inchiesta non tanto dal punto di vista probatorio quanto da quello simbolico, ancora più importante. Coniugare la insinuante parola chiave, “trattativa”, con la materialità del pezzo di carta offre un elemento di suggestione decisivo per la credibilità della trama e il fatto che sia una fotocopia non indebolisce l’impatto anzi aggiunge il possibile sviluppo della ricerca dell’originale. Funziona, basta pensare al memoriale di Aldo Moro. Ci sono comunque ancora dei problemi nel plot. L’idea di centrare tutto sulla trattativa piuttosto che sul logoro “terzo livello” va benissimo ma occorrono altri elementi suggestivi. Il primo era già stato trovato nella mancata perquisizione della casa dove si nascondeva Riina e aveva prodotto il primo processo della serie fondata sulla trattativa. Forse l’originale del papello era nascosto nel covo del latitante? Il dubbio viene inevitabilmente instillato nello spettatore, a prescindere dalle ripetute assoluzioni che il processo produce. Piuttosto la cattura di Riina, l’estensore delle richieste, rischia di porre fine al filone principale della trama. Resta però Provenzano, che sarà latitante ancora per più di dieci anni. La trattativa non può che averla continuata lui.

   

Prima di far entrare Provenzano nella storia si può intanto sviluppare un’altra serie, tutta sceneggiata all’interno del palazzo dove fu processato Galileo Galilei, location invidiabile. La commissione antimafia entra nella trama sviluppando il tema delle richieste mafiose, la maggior parte delle quali riguardava la condizione dei mafiosi detenuti. Gli onorevoli indagatori vogliono sapere se ci sono stati dei cedimenti da parte del governo. Cercano dei responsabili di provvedimenti eseguiti male o addirittura revocati. Chiedono conto al ministro di Giustizia dell’epoca, Claudio Martelli, che potrebbe rispondergli di essere stato quello che aveva portato Falcone al ministero per rafforzare le leggi antimafia e dunque a lui non possono imputare proprio nulla ma non fidandosi dei suoi interlocutori sceglie la via praticata già dai tempi dell’Inquisizione e indica un altro, l’allora direttore del Dap Niccolò Amato, che a sua volta certifica il proprio comportamento ineccepibile e indica come responsabile di alcune revoche del regime carcerario speciale (punto numero 2 del papello, secondo solo alla impossibile revisione del maxi processo) il ministro subentrato al posto di Martelli che, racconta Amato, prima lo destituisce dal Dap, sostituendolo con un magistrato indicato dal presidente della Repubblica Scalfaro, e poi firma le revoche dei 41 bis. Si tratta del professore Giovanni Conso, che alle domande degli indagatori risponde: “Sì, le revoche le ho firmate io perché ero io che dovevo decidere. I mafiosi di un certo livello erano solo tre, uno stava per uscire dal carcere e per gli altri due non c’erano elementi sufficienti. Di questa trattativa non so nulla”. In fondo è l’eroe positivo di tutta la storia, ma la trama esige la sua messa sotto accusa. Chiuso il capitolo commissione antimafia, si è nel frattempo lavorato alla continuità della sceneggiatura con una nuova serie basata su Provenzano e il seguito della trattativa. La protratta latitanza del vecchio capomafia si presta a essere letta come uno dei prezzi pagati e dunque si può dar vita a un’altra serie di tipo processuale. L’imputazione è vagamente surreale, per una latitanza durata 40 anni: “mancata cattura”. L’imputato è il solito, Mario Mori.

  

  

Sarebbe stata una serie ripetitiva se non fosse stata arricchita da un sotto tema quasi esilarante che potremmo chiamare “la maledizione del pentito”. Massimo Ciancimino ne combina di tutti i colori. Cerca di far entrare a tutti i costi i servizi segreti nelle scene che lo riguardano ma dimentica e confonde i nomi del personaggio che dovrebbe rappresentarli e che nella sceneggiatura resta come un cartone animato che a volte si chiama Sergio e a volte Franco. Ormai la trama è però consolidata, il pubblico si è affezionato, l’autore principale, il dottore Antonio Ingroia, si prepara ad abbandonare la sua creatura che ha curato in ogni passaggio, elaborandola in dieci libri, sei prefazioni e innumerevoli interventi sulla carta stampata e in audiovideo. A questo punto della storia si può già convenire che la trama della trattativa ha raggiunto il suo scopo. Grazie anche a un ottimo ufficio stampa, la procura di Palermo ha riacquistato l’antica importanza e l’inchiesta senza fine ha fatto dimenticare il passo falso compiuto con Andreotti e “La vera storia d’Italia”, costituendo “l’intrigo fondamentale”, come Piero Zullino definì il caso del bandito Giuliano, del nostro tempo. Il coinvolgimento addirittura del Quirinale, l’ultimo spregiudicato colpo di genio mediatico del dottore Ingroia, è stato il lancio della serie finale basata sul dibattimento che ha avuto come picco l’ingresso della Corte nel palazzo sul colle più alto. Per il resto, però, l’ultima serie, malgrado l’inserimento di nuovi personaggi come “Nino il nano” e “Faccia di mostro”, ha deluso. L’unica novità è stata l’introduzione di un nuovo genere cinematografico, le riprese dei dialoghi dei capi mafia ristretti al 41 bis. Il carcere fatto per isolarli è stato trasformato in un set cinematografico da dove lanciare anatemi e messaggi e anche proporre il proprio punto di vista sulla situazione politica del paese. Intorno al processo principale intanto sono piovute assoluzioni in tutti i processi, diciamo così, derivati. L’abile ufficio stampa aveva iniziato a reagire definendo ambigui i dispositivi di assoluzione e rinviando alle motivazioni. Una volta pubblicate non poteva però che convenire sul loro carattere devastante per la trama della trattativa. E’ già successo quattro volte, nei quattro processi direttamente collegati all’inchiesta. Le uniche condanne, in altri processi, le hanno avute Massimo Ciancimino e il maresciallo Saverio Masi, capo scorta del pm Antonino Di Matteo che lo aveva sentito in aula come testimone di accusa. Gravato da questi pesantissimi danni collaterali, ora il processo si avvia alla fine, esausto. L’ultimo episodio annunciato riguarderà Giuseppe Graviano, ergastolano ex capo mafia del quartiere palermitano di Brancaccio. Facile prevedere che si parlerà di Berlusconi, che è il vero punto di approdo della sceneggiatura o, se preferite, il vero bersaglio dell’indagine fin dall’incerto inizio su cui si interrogava l’avvocato Di Peri.

   

Il coinvolgimento del Quirinale è l’ultimo spregiudicato colpo mediatico del pm Ingroia. Per il resto, l’ultima serie, malgrado l’inserimento di nuovi personaggi come “Nino il nano” e “Faccia di mostro”, ha deluso. Dal ’94 però, avverte il magistrato, “ci sono molte trattative incompiute”

Con le nuove notizie arrivate dalla procura di Reggio Calabria, mentre questo articolo era già composto, la previsione esce confermata. Torna il capitolo calabrese che, esattamente un anno fa era stato proposto con un successo largamente inferiore alle aspettative. L’idea degli sceneggiatori non era male. Occorreva spostare in avanti le date dell’offensiva stragista del 1993, arrivare almeno all’inizio del 1994 per meglio rimarcare il rapporto fra l’offensiva mafiosa e la soluzione politica indotta dalle elezioni di quell’anno. In merito c’era solo il racconto del pentito Spatuzza sulle assicurazioni da parte del suo capo Graviano. “Ormai abbiamo il paese in mano. Berlusconi vincerà e ci aiuterà. Occorre solo un altro colpetto”. Il colpetto doveva essere un devastante attentato prima di una partita di calcio davanti allo stadio Olimpico di Roma. Una Lancia Thema imbottita di tritolo rinforzato di chiodi e tondini di ferro da far esplodere contro un plotone di carabinieri. Solo che il telecomando non funzionò e dell’attentato nessuno si accorse, né ci avrebbe mai pensato se il pentito non l’avesse raccontato. Fu creduto, certo, ma qualcosa di più cruento era pur necessario a rafforzare la trama. L’omicidio di due carabinieri in Calabria nel periodo elettorale, seguito dal ferimento di altri due avrebbe potuto essere utile alla bisogna, se non che le indagini avevano portato in altre direzioni. Così nell’ultima stagione del processo erano entrati in scena di fronte alla Corte d’assise i pentiti calabresi. Prima Consolato Villani, già sentito dai pm di Caltanissetta e ritenuto poco attendibile, poi Nino Lo Giudice, detto “Nino il nano”. Entrambi parlano di un altro movente di quei delitti rispetto a quello locale. Si sarebbe trattato di una prosecuzione delle stragi del ’93 volute dalla mafia per ricattare lo stato. Di suo, il pentito brevilineo aggiunge il ruolo di un misterioso personaggio, il poliziotto Giovanni Ajello detto “faccia di mostro” per una fucilata che gli ha sfigurato una guancia ed è ritenuto un uomo dei famosi servizi deviati. Le testimonianze dei due pentiti furono disastrose, dando ragione ai magistrati di Caltanissetta e Catania che le avevano ritenute inattendibili al contrario di quelli di Palermo e della Dna che ora le ripropongono con la spinta della procura di Reggio Calabria. Ci sarebbe materia per una mini serie solo sui magistrati, ma il cuore della trama sta comunque nella caccia al Cavaliere.

   

Il dottore Ingroia lo aveva già chiaramente scritto nel suo libro intitolato “Io so”: “La nostra ipotesi è che Berlusconi, nel suo ruolo di presidente del Consiglio, accetta la proposta che gli fa Dell’Utri per chiudere la trattativa, accetta cioè le richieste del boss Bernardo Provenzano e sigla un patto di non belligeranza con Cosa nostra. E’ la terza parte della trattativa, iniziata nel 1992 con il generale Mori, poi avallata nel ’93 dai massimi esponenti istituzionali come Scalfaro, Mancino e Conso e nel ’94 e infine consacrata con la decisione di Berlusconi che acconsente a offrire la sua copertura politica”. Lui sa. Come sa anche che “ci sono molte trattative incompiute da allora”. Un sacco di lavoro per nuovi sceneggiatori.