Le élite, la postdemocrazia e come uscire dal pensiero unico internazionale (tutti a Piacenza)

Corrado Sforza-Fogliani

Il 28 e il 29 gennaio tutti a Piacenza con il Foglio al Festival della cultura della Libertà

L’aforisma è tranchant: non manca la libertà, mancano gli uomini liberi. La servitù volontaria dilaga. Il manuale della servitù volontaria l’ha scritto La Boétie nel Cinquecento. Da allora ad oggi, il fenomeno si è esteso a dismisura, complice soprattutto lo sviluppo soffocante dello stato cinquecentesco, nato – dunque – proprio ai tempi di Ètienne (e di Du Bourg). Al diffuso accomodantismo degli italiani ha reagito in prima persona (e con non poche, inaccettabili sfasature) Gobetti. Croce, nel 1951, ha spiegato ai (trionfanti) chierichetti, che strumentalmente lo accusavano di conservatorismo, come la libertà si garantisca e si salvi “talora anche con provvedimenti conservatori, come tal’altra con provvedimenti arditi e persino audaci di progresso”. Ma perché tanta gente è indaffarata a piegare la schiena? La servitù non necessitata nasce – essenzialmente – dal narcisismo (l’apparire) e dall’opportunismo (l’arrivare). C’è poi anche la servitù volontaria degli sfaticati e quella dei corrotti. Ma, come ci ha insegnato Hayek, “chi detiene tutti i mezzi stabilisce tutti i fini”. E allora, alla servitù volontaria si assomma la servitù necessitata (e in certuni scusabile, certo – per tutti – meno esecrabile).



Il settore pubblico ha oggi tanto dilatato la propria influenza da ipotecare il futuro di molte famiglie, della gran parte dei giovani (molti di loro, anche per questo fuggono all’estero, nei Paesi meritocratici, magari perfino nel dileggio – come è capitato in Italia – di chi è disturbato nella volontà di mantenere lo status quo). Il settore pubblico si espande anche distruggendo, con il suo iperfiscalismo, l’imprenditoria privata, ridotta in gran parte anch’essa a ricercare i sussidi pubblici piuttosto che la libertà di intraprendere, spesse volte spinta addirittura dalle sue rappresentanze, asservite alla politica e agli enti suoi derivati perché ricattate dalla stessa politica e, altrettanto spesso, perché i burocrati di quelle rappresentanze cercano anzitutto di difendere se stessi piuttosto che i propri rappresentati e perché essi stessi cercano di ottenere prebende (o indennità varie) dalla rete parapubblica, sì che anche le cariche in associazioni di categoria sono volentieri considerate lo sgabello per ottenere qualche beneficio diretto.

 

Giova nel contempo al servilismo (sia volontario che necessitato), il pensiero unico internazionale, frutto della globalizzazione accompagnata – come nel settore bancario – da volontà di controllo oligopolistico dei mercati del credito locali, che richiede – per eliminare la vera concorrenza – l’eliminazione delle realtà territoriali. In questa situazione, vieppiù ogni giorno constatiamo che lo stato moderno (caratterizzato dalla plenitudo potestatis e dal superamento del pluralismo degli ordinamenti giuridici, durato fino al suo avvento) non ce la fa più, non regge più, a causa dei tanti compiti di cui s’è gravato come fine al clientelismo e al potere della politica: sì che non c’è più, non risponde più, per i compiti da sempre a esso assegnati (sicurezza, giustizia, e così via), fino a essere interpretato – non del tutto difformemente dal vero – come un soggetto che si fa vivo solo per chiedere imposte e tasse.

 

La storia del fiscalismo mondiale mostra del resto che i moti innovatori sono sempre scoppiati a causa dell’iperfiscalità e della mala burocrazia (che si autoalimenta nel migliore dei casi per autogiustificarsi, così complicando la vita ai cittadini, e in molti casi perché, da sempre, espansione del pubblico significa automaticamente espansione della corruzione, per i tratti stessi che caratterizzano i meccanismi pubblici), anche se poi questi moti vengono agiograficamente presentati come moti di eguaglianza, di fraternità, e così via. I nostri tempi dimostrano che è finita la democrazia illuminista, che viviamo un periodo che può essere definito di postdemocrazia: dominano in tutto il mondo le élite burocratiche e, con esse, il pensiero unico internazionale, gli esecutivi prevalgono ovunque (e comandano) sui parlamenti, perfino nella più grande democrazia mondiale – quella statunitense – la vita pubblica è condizionata dalle dinastie dei Clinton, dei Bush, dei Kennedy. Le élite se ne sono accorte e cercano di soffocare gli innovatori ricorrendo all’ultima possibilità che rimane loro, quella di dileggiare l’avversario, di soffocarlo così.

 

Queste élite hanno a che fare, però, con un’opinione pubblica che non si forma più su superati giornali cartacei condizionati da quelle stesse burocrazie, ma sui social network con relativi giornali online, essendo internet un grande strumento di libertà individuale, di circolazione delle idee. Si devono a questi nuovi mezzi, certi fenomeni “rivoluzionari”, e finora inediti, come quello di Trump, per il quale non è necessario chiedersi cosa farà: farà tutto il contrario di quello che gli hanno fatto dire gli uomini del pensiero unico internazionale e gli strumenti pubblici di informazione. Per dare un futuro alla speranza di ricreare un mondo affrancato da servitù tanto necessitate che soprattutto (e peggio, dal punto di vista umano, morale) volontarie, bisogna dare un futuro all’idea delle comunità convenzionali, regolate da contratti di diritto privato, come tante già ce ne sono negli Stati Uniti, mentre la politica italiana – anche delle autonomie locali – lascia cadere la possibilità di fare un passo indietro approfittando di forme di autogoverno dei cittadini per le quali una recente legislazione, pure, ha dato il via libera. Anche per ragionare di questo ci ritroveremo a Piacenza (Palazzo Galli della Banca di Piacenza) sabato 28 e domenica 29, per la prima edizione del “Festival della cultura della libertà”. 

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