Gerardo Greco, conduttore di “Agorà”. Durante la trasmissione può interrompere chiunque col suo tradizionale “Dai, su”. Vittime illustri a destra e a sinistra

Un Greco d'America

Michele Masneri
Ogni mattina a Saxa Rubra per condurre “Agorà”, ma vorrebbe essere ancora a New York. Zittendo gli ospiti, salva il talk-show. Il padre neurologo, di origini meridionali. La madre trentina, fondamentale. Natali nomentani, Floris una specie di alter ego.

E’ nota a tutti la special relationship tra Roma Nord e gli Stati Uniti: grandi spazi, estetica da cowboy, highway del ponte Flaminio, aria friccicariella di frontiera. E a Roma Nord (ma non così a nord, un po’ più giù, nel quartiere Parioli-Trieste), si aggira Gerardo Greco detto Gerry, cinquantenne conduttore di Agorà, contenitore del mattino di Rai3, arrivato al quarto anno.
Un Quiet American, conduttore tranquillo, sottotraccia, tra Graham Greene e l’Albinati della “Scuola cattolica”. Stesse borghesie: il padre noto neurologo, origini meridionali come denota il cognome, ma una mamma fondamentale, la signora Imperia, trentina, e Gerry sente molto queste origini nordiche, che, oltre al physique du rôle, alla faccia da montanaro buono e l’occhio asburgico, rinfresca con frequenti vacanze in montagna, in val di Fiemme, valle décontractée, lontana dalla Cortina romanordista.

 

Ma i natali sono nomentani, le stesse location del romanzo di Giovanni Floris, “Le esplorazioni a villa Torlonia anzi a villa Ada”, come scrive il conduttore in “Il confine di Bonetti”, ambientato proprio tra Porta Pia e il West – e Floris è una specie di alter ego di Greco, avendo frequentato insieme prima l’università alla Luiss e poi la scuola di giornalismo a Perugia, e poi ancora spartendosi la sede Rai di New York. Al liceo, invece, prima una scuola privata di preti nel quartiere Trieste, ma il giovane Greco se ne va perché non gli fanno fare un anno in America come vorrebbe, allora si trasferisce al Virgilio, augusto liceo del centro, con Giuseppe Cruciani compagno di classe. Sezione C, centro storico, ztl araldica, e Cruciani dice di non ricordarselo molto, “era non proprio espansivo, diplomatico, secchione, ma in molti erano secchioni in quella sezione. Mi ricordo di più una sua bellissima sorella, Martina”, dice il conduttore della “Zanzara”, e la leggenda non confermata dice che Gerry non ancora americano passasse i compiti a Cruciani in cambio di presentazioni femminili.

 

Greco andrà poi alla Luiss e a Perugia, poi una parentesi a Euronews e in seguito al giornale radio, e qui comincia l’avventura americana. Perché come molti romani Gerry è appassionato di America, e come molti romani per lui l’America è New York: “Il suo sogno è sempre stato di fare il corrispondente dalla Grande Mela”, dice al Foglio un amico, ci sbarca la prima volta nel 2001 e riesce a mancare per un soffio l’11 settembre con lapsus freudiano-fantozziano. Il direttore di Rete Paolo Ruffini infatti lo manda a New York in alternanza con l’altro suo pupillo, Floris, c’è una vacanza – nel senso di vacation, all’americana – di cinque mesi, e equamente spartisce il periodo tra i due giovani giornalisti, e i due mesi e mezzo di Gerry l’americano finiscono giusto una settimana prima delle Torri Gemelle, sogno-incubo di qualunque reporter.

 


Giovanni Floris (foto LaPresse)


 

Dopo due mesi e mezzo di calma piatta, tipo “a New York non succede niente”, un po’ di delusione, tipo servizi su surfisti mangiati dagli squali, Gerry con la moglie Monia Venturini, giornalista oggi al Tg2, partono per una vacanza (intesa come ferie) a Cuba, e una mattina, racconta un amico, mentre vanno a un affittamacchine per un mezzo da gita, stranamente non trovano nessuno al banco accettazione, ma anzi dei vecchietti che guardano impietriti un vecchio televisore in bianco e nero dicendo “Saddam Hussein! Saddam Hussein!”, e Gerry in un attimo capisce cosa sta succedendo, e il pensiero corre all’amico Floris che si è appena insediato a New York (ma non si perde d’animo, corre all’aeroporto dell’Avana e via Bahamas torna nella Grande Mela, con l’unico blazer blu messo in valigia per puro caso o sesto senso, e imprestato dal ras di Manhattan, Antonio Monda; col medesimo blazer farà altri due mesi e mezzo di dirette).

 

Perché Gerry è conduttore per caso, è soprattutto corrispondente di razza, ancora c’è chi si ricorda certi suoi reportage, come quello da un disastro di inquinamento marino, nel Golfo del Messico, nel 2009, dove con un cameraman che l’avrà maledetto, mentre tutti gli altri inviati si limitavano a filmare cormorani impataccati di petrolio, lui si avventurava su un idrovolante tra i flutti e la nebbia raccontando il dramma dei pescatori sul lastrico. “Io non credo nella conduzione” ha detto al programma “Reputescion”. “La faccio perché la devo fare. Io credo nel racconto della realtà. Vorrei fare l’inviato, il raccontatore di storie. Vorrei tornare a fare il corrispondente, ma la vita privata è il problema”.

 

Così gli tocca stare nel sacro GRA. “Quando ritorno non voglio pigiama”, cantava Umberto Tozzi in “Roma Nord”, e Gerry come tutti i forzati della tv del mattino oggi va a letto presto, si sveglia alle cinque e mezzo, compie il suo percorso verso la via Flaminia, ma ha la fortuna di addormentarsi ovunque, soprattutto in aereo, come quando il volo NYC-FCO fu fermato in decollo da squadre antiterrorismo – racconta un conoscente – e tutti vennero presi dal panico tranne lui che dormiva sotto la sua copertina Alitalia. In Italia starà solo per un anno, nel 2002, e poi tornerà negli Usa per altri dieci anni, fino al 2013, quando Andrea Vianello viene fatto direttore di Rai 3 e gli cede la sua trasmissione, “Agorà”, e lì Gerry l’americano prende un contenitore del mattino un po’ bofonchiante e lo trasforma in una mini-corazzata caratterizzata da una generale civiltà dei toni, scansamento abbastanza riuscito del trash, abuso immaginifico del calembour nei sottopancia (tra gli ultimi: “gioghi olimpici; “la sabbia e l’orgoglio”).

 

Ma soprattutto, nell’epoca della crisi del talk, proietta la sua personale noia sugli spettatori, trasformando gli ospiti in pubblico (che infatti nell’ultima edizione non c’è più), e inventando il concetto di ospite non parlante. La ricetta – Gerry ha l’horror vacui – è intruppare il numero maggiore possibile di persone, che spalmate sulle due ore del programma spesso non hanno diritto neanche a una battuta. Lo spazio è tutto per i collegamenti – nel nuovo studio con led e monitor modernissimi, fino a otto in contemporanea – gli ospiti a un certo punto si rassegnano e iniziano a leggere il giornale, con beneficio dello spettatore cui viene risparmiato il sermoncino mattiniero del politico di turno.

 

Il conduttore-corrispondente interrompe chiunque col suo tradizionale “dai, su”, e fa vittime illustri a destra e a sinistra, anche poco importandogli del peso istituzionale degli ospiti non parlanti (c’è chi dice che non si rende bene conto, è stato troppo in America). A Saxa Rubra ancora si ricordano della puntata con la deputata Pdl Gabriella Giammanco che, stremata, dopo quasi due ore, a tre minuti dalla fine, dopo aver provato invano a prendere la parola, se n’è andata infuriata e si è dovuto ricorrere a un mazzo di rose. Il fatto è che Gerry l’americano, pur essendo certamente opinionated, e considerato in quota centrosinistra, tendenza villa Torlonia, ha pure “un’allergia alla politica” come dice chi ci lavora, anche se ha una specie di telegiglio magico in redazione: Irene Benassi (toscana), l’addetta all’economia Elisabetta Tanini (toscana), l’esperto di social Max Brod (toscano).
Ma è pura coincidenza, l’unica sua fede è l’Auditel.

 

Così può capitare (è capitato) che gli autori inermi si siano visti in studio Salvini per giorni e giorni, tanto da far temere una deriva leghista, mentre era solo che il corpaccione del politico lombardo funzionava e bucava il video. Di sicuro Gerry non si fa problemi a interrompere, saltare, cacciare, in nome degli ascolti e del ritmo. “cronista, intrattenitore e metronomo”, ha scritto di lui Riccardo Bocca sull’Espresso, e tenendo il ritmo il programma funziona: è partito in sordina, come si dice, per recuperare fino a oltre l’11 per cento di share. Il successo passa sul corpo dell’ospite. “Alle 9,59, quando arrivano gli ascolti in anteprima sui telefonini di dirigenti e giornalisti” dice un collega, “il regista ha l’ordine di staccare su un ospite qualunque mentre Gerry guarda gli ascolti del giorno prima, e dai dati cambia la coda del programma, se vanno bene si gasa a palla, va molto veloce e allegro, se sono brutti lui si incupisce e tratta male pure qualcuno”.

 

I suoi modelli sono gli show americani, come il “This morning” della Cbs, mixato, dice una collega, “con ‘Quinta colonna’ di Del Debbio, però più ingiacchettato”. In realtà “Agorà” è un programma di prima serata ma messo al mattino, un mischione americano-romano tra il “Late Show” e “Unomattina”, con tanti collegamenti anche con giornalisti di altre testate Rai (ha cominciato con inviati di Rainews24 sul confine con Ventimiglia per la questione migranti, e in questo è stato un po’ il pioniere). Bulimico del collegamento, se potesse ne farebbe dieci, cento, mille, pur di non far parlare gli ospiti. Che interrompe, al minimo accenno di noia, con i leggendari “mh”, e “dai, su”, quando l’intervistato di turno si dilunga. Oppure piombando su qualche ospite ormai in fase Rem, dopo aver trattato una decina di argomenti diversi, e vari servizi magari politici, chiedendogli un inquietante: “e allora, cosa mi dice, mi tiene lei insieme tutto?”, mentre quello magari è un sismologo. Si annoia, forse si scorda, gioca: a Marcello Sorgi, editorialista fisso di “Agorà”, talvolta collegato da Londra, senza forse rendersi conto di essere in diretta, o forse proprio per quello, chiede: “Ma tu, Marcello, ma che ci vai a fare esattamente, a Londra?”.

 

Una specie di clash of civilization è avvenuta con Christian Raimo, scrittore e giornalista in quota Pigneto, subito dopo gli attentati terroristici di Bruxelles, dove, dopo un servizio su Torpignattara, banlieue romana, Raimo abbandonava lo studio, e il duetto, oltre a rappresentare plasticamente la relazione complicata Roma Nord-Roma Est, mostra l’approccio romano-americano di Gerry. A Raimo che gli diceva “io ci vado a mangiare tutte le sere a Torpignattara, il massimo rischio è che mi prendo la salmonella, altro che Molenbeek”, Gerry rispondeva un “Christian dai, su”. Altro scazzo con Sabina Guzzanti, che nel 2014 presentava il suo film “La trattativa”, e veniva attaccata dal deputato di Forza Italia Osvaldo Napoli. “Voi fate i talk show e giustamente vi dovete sorbire questi personaggi, io non li faccio e voglio essere graziata”, diceva Guzzanti (risposta di Gerry: “Graziamo la Guzzanti, dai su”, chiudendo il collegamento).

 

Ma l’apoteosi di mugolii e interiezioni si è avuta l’anno scorso con un’intervista alla allora candidata sindaca di Roma Virginia Raggi, sottoposta a un crogiuolo di interruzioni  mugolanti – e mentre era tutta presa a parlare della ristrutturazione dell’Atac, veniva continuamente interrotta da Gerry, “ma lei lo paga il biglietto? è mai salita senza pagare?”; e mentre quella cercava di rispondere, lui se ne usciva con un “io da ragazzino una volta son salito senza pagare”, e la futura sindaca da Borgata Ottavia perdeva alla fine il suo aplomb: “Ma che dice! abbia pazienza quello è un problema suo!”, e Gerry l’americano la incalzava: “Ma i romani perché non pagano?”, al che Raggi sbigottita si difendeva: “Questa è una domanda sterile”. “Sterile… è ’na domanda”, chiosava l’americano de Roma Nord, con un tocco più da Pasquino che non da Anderson Cooper.

 



 

Perché in fondo Gerry è americano ma romano, è un newyorchese del quartiere Trieste: la Grande mela per lui è solo ed esclusivamente Upper West Side, e, dice un amico, quando si sposta in giù, costretto, a Brooklyn, il Pigneto globale, “appena vede un taxi verde, il colore delle vetture laggiù, si sente male”. Gerry pur spingendosi nella pancia dell’America – ha fatto anche il reportage “Slang”, quattro puntate sugli italiani negli States – applica comunque categorie romanordiste, quando è in America la domenica va a prendere le pastarelle al negozio italo-ebraico Zabar, visto in mille film di Woody Allen, come se fosse la pasticceria il Cigno di viale Parioli, quella in cui Tognazzi nei “Mostri” insegnava a barare sui pasticcini al figlio poi patricida. Mentre Gerry è ottimo papà di un Bernardo, detto Berny, nato dieci anni fa a New York, dunque con passaporto americano, considerato da tutti il vero capofamiglia, sportivo mentre Gerry è pigro, fervente romanista e impermeabile al baseball, mandando in frantumi i sogni paterni.

 

La mamma, invece, Monia Venturini, giornalista, l’ha conosciuta ad Assisi durante un reportage dal terremoto del 1997. Gerry è peraltro un fervente femminista, nel senso che preferisce lavorare in squadra con donne: nel telegiglio magico ci sono Sara Mariani, Irene Benassi, Elisabetta Panini, Nathania Zevi. E le autrici condividono coi colleghi maschi una vita d’inferno; pare infatti che una volta deciso il copione del giorno dopo nello stanzone di Saxa Rubra detto “l’acquario”, per una parete vetrata che dà sul suo piccolo studiolo, in cui Gerry tiene un ritrattone di Kennedy, gli autori sono ormai abituati a sentirsi chiamare alle otto della sera, dopo i telegiornali e le news, e vedersi smontare completamente la puntata, anche con improperi e “ma chi l’ha chiamato questo rompipalle”, di qualche ministro che faticosamente era stato convocato su suo stesso suggerimento. Ma è impossibile litigarci, dicono, perché Gerry cerca di gratificare i collaboratori confidando a ciascuno, separatamente, complimenti spropositati (un classico è “sei un gigante”, anche a fronte di idee banalissime, “tu vai a casa contento, ti guarda sgranando gli occhioni verdeazzurri, le prime volte ci credi. Ti aspetti un ruolo importantissimo, ma non succede niente”, racconta un collaboratore che non si è più riavuto).

 

Altri tic americani: camicie quasi solo esclusivamente bianche, che cambia continuamente, e di cui possiede una scorta emergenziale, i tazzoni da caffè col marchio del programma, l’aria condizionata polare che rende la sinusite malattia professionale di “Agorà”; Gerry ama infatti l’aria gelida delle sue vette o delle Rocky Mountains, e in quell’agglomerato tipo container, pur gelido d’inverno, anche le maestranze di Saxa sono avvertite: solo getti d’aria gelida sulle sue chiome trentino-americane, e anche le parrucchiere romanissime di quel compound, che pure ne hanno viste di ogni, non smettono di stupirsi di questo strano americano: “A Gerà, ma che ciai, i calori?”.

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