Le scimmie che diventano bipedi e scoprono l’uso di un osso come arma all’inizio del film “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick (1968)

Schiena dritta, sguardo alto

Roberto Volpi
Così l’uomo si è separato dagli scimpanzé. Ed è andato molto più lontano di quanto dica il Dna. Gli scimpanzé sono rimasti suppergiù quelli che erano, mentre noi siamo cambiati moltissimo e abbiamo sviluppato linguaggio e coscienza. L’evoluzione dell’uomo può essere letta come l’evoluzione della sua stazione eretta.

Qualche milione di anni fa ci siamo separati dagli scimpanzé. Venivamo da un progenitore comune. Gli scimpanzé sono indiscutibilmente i nostri parenti più prossimi, come dimostra in primo luogo il fatto che abbiamo pressappoco lo stesso Dna, uguale al 98-99 per cento tra le due specie: la loro e la nostra. Ma, ecco subito le due questioni che non possono essere sottovalutate di questa separazione: a) loro, gli scimpanzé, sono suppergiù rimasti quelli che erano, mentre noi siamo cambiati moltissimo, tanto da avere ormai assai poco in comune, per non dire niente del tutto, coi primi ominidi; b) noi abbiamo sviluppato il linguaggio, il pensiero astratto, la coscienza – loro niente di tutto questo. In altre parole: i nostri parenti più prossimi sono in verità lontani da noi anni luce.

 

Quando si mette l’accento sul ruolo del Dna, per esaltarlo, non si può non partire da qui, per fare una qualsiasi riflessione, da questa certezza: che se tra noi e gli scimpanzé le distanze sono enormi mentre il Dna è pressoché eguale, la conclusione non può che essere una: il Dna conta meno, molto meno di quanto ci viene assicurato. Intanto, il Dna non è mai un “prima”, è sempre un “dopo” nella speciazione, nella nascita di nuove specie: non le precede, determinandole con la sua azione, bensì le segue, modificandosi in conseguenza del loro separarsi e allontanarsi. Il Dna di due specie vicine comincia a diversificarsi quando le due specie sono già due, già distinte l’una dall’altra. Così, il Dna tra noi e gli altri primati che non scesero dagli alberi, che non abbracciarono, fosse pure obtorto collo, a seguito di cambiamenti climatici e ambientali di grande respiro (la progressiva restrizione della foresta pluviale e l’avanzare della savana), la vita terricola, si è diversificato solo dopo quella biforcazione decisiva tra quanti restarono dov’erano sempre stati e quanti ruppero con il passato. La “distanza molecolare” dell’1-2 per cento che ci separa temporalmente da questi primati è nient’altro che la distanza che ha cominciato a prodursi da quando il tempo dal momento della nostra separazione ha preso a scorrere.

 

Valori così piccoli per differenze così enormi tra noi e i nostri parenti più prossimi? Appare assai azzardato, per non dire impossibile, proprio alla luce di questa smisurata sproporzione, il tentativo di buona parte di biologi e sociobiologi, genetisti e paleoantropologi di spiegare le differenze non genetiche come diretta conseguenza delle differenze tra i Dna delle rispettive specie. L’uomo consiste innanzitutto della sua stazione eretta, ma non risulta che ci sia il gene della stazione eretta. Eppure senza stazione eretta non c’è discorso possibile su e attorno all’uomo, perché è la stazione eretta, prima e più d’ogni caratteristica fisico-somatica e qualità sociale e intellettuale, e pure modalità di esistenza, individuale e di gruppo, che connota l’uomo. Perché è la stazione eretta che fa l’uomo, nel senso preciso che lo crea per quello che è, provvede a strutturarlo così com’è strutturato.

 

L’evoluzione dell’uomo dai primi ominidi fino a sapiens può essere letta, prima e più di tutto, come l’evoluzione della sua stazione eretta. E’ il progressivo approssimarsi alla perfetta perpendicolarità rispetto al suolo della postura di homo sapiens, la linea verticale (pur se dolcemente arcuata, sinuosa quasi, nel tratto della colonna vertebrale) che unisce testa e piedi, inizio e fine dell’anatomia umana, lungo la quale la postura va progressivamente a disporsi, e a disporre così facendo ogni altra parte e organo del corpo in armonia e in proporzione con essa, a informarci in prima battuta del grado di vicinanza dei nostri predecessori a noi uomini d’oggi. A ogni avvicinamento in termini di stazione eretta si accompagna un avvicinamento in altre direzioni fondamentali, come quello della capacità volumetrica della scatola cranica e della complessità del cervello. E soprattutto un avvicinamento della capacità di articolare il linguaggio.

 

Il linguaggio è senz’altro la facoltà che più ci diversifica dai primati – un Rubicone, com’è stato metaforicamente immaginato, che nessuna scimmia potrà mai attraversare. Nasciamo con strutture mentali, soggiacenti alla grammatica universale, che ci consentono, attraverso l’apprendimento, di acquisire in tempi straordinariamente brevi rispetto alla complessità del compito la grammatica centrale, ovvero la grammatica specifica della comunità linguistica alla quale apparteniamo e che impieghiamo nelle nostre attività e relazioni con gli altri con quelle frasi correnti, quelle concrete forme e modalità d’espressione che rappresentano la nostra individuale grammatica trasformazionale.

 

Il linguaggio è in modo pieno una facoltà solo di sapiens perché solo sapiens è un bipede perfettamente eretto e non c’è linguaggio al di fuori di queste qualità dei viventi: essere bipede, avere una postura bene eretta. Il linguaggio, come i gesti dei primati, è un sistema di segni e i segni rappresentano dei concetti. Ma i concetti non necessariamente portano al linguaggio, si possono possedere i concetti eppure non arrivare mai al linguaggio di parole. Gli scimpanzé hanno dei concetti, lo si capisce benissimo dall’osservazione del loro comportamento, ma non hanno sviluppato un linguaggio di parole per trasmetterli, sono rimasti a segni prelinguistici, hanno acquisito alcune coppie concetto-segno, nel senso che adoperano segni del corpo che corrispondono inequivocabilmente a concetti, ma non hanno sviluppato capacità linguistiche, non hanno dunque trasformato quei segni in segni linguistici. In altre parole: le coppie concetto-segno non bastano per portare al linguaggio, per farsi parole.

 

Sappiamo molto poco dei primi ominidi, gli australopitechi, vissuti tra i cinque e i due-tre milioni di anni fa. Ma la loro stazione era già una stazione bipede, pur se non proprio eretta, e solo per una parte del loro tempo, e ciò deve aver dato alle loro lunghe braccia e alle loro mani molta più possibilità e libertà di muoversi e gesticolare a piacimento. Il repertorio di segni e relativi concetti già con i primi ominidi, grazie alla stazione che stava evolvendo in stazione eretta, comincia dunque subito a diversificarsi, ampliarsi e aprire così nuovi orizzonti e prospettive che si svilupperanno pienamente col genere homo. I primi ominidi avevano un linguaggio di gesti simile, pur se più ampio ed efficace, a quello dei primati. Come questi ultimi, accompagnavano i gesti con vocalizzazioni gutturali che rendevano quei gesti più chiari e interpretativi delle situazioni che li generavano, mentre i gesti contribuivano a loro volta a dare maggiore capacità suggestiva alle vocalizzazioni. Mano a mano quelle vocalizzazioni hanno sostituito i gesti, fino a quando non li hanno soppiantati.

 

Non è più il suono che accompagna il gesto come una sorta di scudiero senza una vera e propria autonomia, ma tutto il contrario: il gesto non è altro che ausilio del suono, allorquando il suono da gutturale comincia a sostanziarsi della qualità, della forza e della musica delle parole. Perché questa inversione di ruoli potesse avvenire dovevano verificarsi quelle modificazioni e trasformazioni dell’apparato fonatorio che consentivano un affinamento e una diversificazione dei suoni, e quindi un ventaglio ben più ampio di vocalizzazioni possibili. Modificazioni e trasformazioni che potevano avvenire solo come conseguenza di una stazione eretta – anzi, di una stazione sempre più eretta, fino a quella di sapiens.

 

L’apparato fonatorio investe anche la disposizione delle ossa del cranio e della colonna vertebrale cervicale oltre, naturalmente, alla disposizione del tratto vocale sopra-laringeo e della laringe. E’ insomma collegato, e quindi ne dipende, a tutti questi elementi. In ragione di questa complessità anatomica che presiede alla formazione dell’apparato fonatorio moderno e, attraverso di essa, al linguaggio, non è ancora oggi ben chiaro quali tra i predecessori di sapiens possedessero un linguaggio non di gesti e di pure vocalizzazioni accompagnatrici di quegli stessi gesti.   I Cro-Magnon, i sapiens colonizzatori dell’Europa sin da 35-40 mila anni fa, alti come noi se non di più, avevano una stazione perfettamente eretta, un cono degli eventi che si apriva davanti ai loro sguardi estremamente più rispondente alle loro necessità di lettura e interpretazione dell’ambiente, e dunque più informazioni, in quantità e qualità e reciproche connessioni, da cogliere, elaborare e delle quali servirsi individualmente e come gruppi e comunità.

 

Questo è il punto centrale della questione: sapiens, grazie alla stazione perfettamente eretta, coglie più informazione che va a interagire col cervello, ampliandone a dismisura sia la capacità di immagazzinare e richiamare le immagini che quella di categorizzarle. Il cervello tutto dell’uomo diventa estremamente più ricco, articolato e complesso sotto questa spinta potente. La plasticità del cervello, con aree che si attivano e si modificano di continuo, anche in età adulte, in risposta agli stimoli esterni, questa plasticità, con tutti i suoi effetti di crescita continua della complessità anatomico-funzionale del cervello e di affinamento della sua efficienza, finisce per dipendere, nell’uomo, almeno per quel di più decisivo che gli consente di sopravanzare la plasticità del cervello dei primati, da nient’altro che dalla sua incomparabilmente superiore capacità di cogliere, riconoscere, categorizzare e infine, grazie al formidabile tramite del linguaggio, di mettere in comune e socializzare le informazioni accrescendone la capacità interpretativa in misura esponenziale.

 

Ma questa capacità, a sua volta, non è immaginabile al di fuori del quadro più generale descritto. Ci fosse ugualmente, al di fuori della stazione eretta e di tutto quel che ne consegue, la possibilità di giungere al linguaggio di parole non riusciremmo mai a capire perché non lo abbiano fatto i primati, di arrivare all’apparato fonatorio e a un tale linguaggio. E invece non solo non ci sono arrivati prima di noi, pur esistendo da molto più tempo di noi, ma non ci sono arrivati dopo di noi, né ci si sono minimamente avvicinati, ed è del tutto evidente che non ci arriveranno mai. Non è un qualche fantomatico gene (o costellazione di geni) della “discesa dagli alberi”, dunque, che ha innestato il – e predisposto al – processo che abbiamo descritto. Non si può pretendere di spiegare quel che viene prima – la speciazione che porta a homo – con quel che viene dopo – il Dna solo leggermente diverso da quello degli scimpanzé degli stessi sapiens moderni.

 

Non è colpa degli uomini, per esprimerci in termini paradossali, se hanno con fatica e gradualità cominciato a comportarsi da uomini, se hanno cioè marcato grazie alla stazione eretta una diversità che ha spianato la strada a una molteplicità di altre diversità che, considerate nel loro insieme, e altresì nella loro indiscutibile unitarietà, contribuiscono a fare quella che chiamano umanità e che sentiamo come tale. Tra queste diversità c’è pure il modo frontale di fare l’amore – possibile solo tra bipedi perfettamente eretti o quasi, gli unici con gli organi sessuali davanti e non dietro – che ha strappato il sesso alla pura spinta biologica e l’ha trasformato in una fonte emotiva e sentimentale, e dunque anche culturale, che non ha l’eguale.
Ma, ciò detto, potrebbe apparire abbastanza verosimile ipotizzare che quei nostri parenti più stretti che sono gli scimpanzé, per sapere anch’essi portare lo sguardo lontano, sul filo dell’orizzonte, sia pure dovendosi appoggiare sulle nocche degli arti anteriori, ergersi con la schiena, tirare su il muso, colgano a loro volta se non tutto gran parte dell’ambiente che ci circonda, componenti e particolari, visioni d’assieme e aspetti più specifici.

 

E invece non è affatto così che stanno le cose. I primati non hanno pressoché mai lo sguardo dritto davanti a sé, glielo impedisce la diversa postura, mai eretta, e la vita arboricola o semi-arboricola che conducono, dunque non possono che avere orizzonti visivi estremamente più limitati dei nostri e peraltro, data la loro stanzialità rispetto a homo, che invece da oltre un milione di anni non fa che spostarsi, sempre pressoché gli stessi. In particolare, non si può vedere il cielo, non in modo naturale e continuo, senza doversi sottoporre ad alcun contorcimento, se non si è bipedi in modo completo e perfetto. La riprova è sin troppo facile. Il cielo ci sfugge a ogni pur minima inclinazione in basso dello sguardo. Pochissimi gradi e lo perdiamo, esce dal nostro orizzonte visivo. Il cielo è con il suolo terrestre la delimitazione della scena sulla quale trascorriamo il tempo della nostra vita, ma occorre vederlo, e vederlo sempre per sentire l’altrove che ci sovrasta e ci interroga, che ci fa riflettere e meditare.

 

Il cielo è e nasconde l’incomprensibile, l’esistenza del cielo è l’esistenza di tutte le spiegazioni che non ci sono date ma che pure non smettiamo di cercare sul nostro essere al mondo, la nostra vita, la nostra finitezza e il senso di tutto questo. Il cielo non ci darà mai una risposta esaustiva, è vero, ma nondimeno non smette di suggerirci domande sempre più struggenti e un modo tutto particolare per rivolgerci all’incomprensibile: l’invocazione, la preghiera che si compie con lo sguardo rivolto al cielo come a volerlo avvicinare, ricongiungere alla terra e a tutta la nostra esperienza terrena nel mentre resta indefinitamente lontano e separato da noi. E’ l’“uomo religioso” che fa la sua comparsa, affina la sua sensibilità, cerca di capire e si rimette, con la fiducia ch’è capace di darsi, di trovare in sé, all’insondabilità del cielo, a ciò che nasconde, rivela, promette: in una parola, alla divinità, al sacro.

 

E’ stato sempre religioso, homo? Il punto centrale di una questione così acuminata è che per acquisire un sentimento religioso, per aprire l’animo alla religiosità, al sentire religioso, trascendente, è indispensabile avere un vero contatto col cielo e questo contatto, che comincia “vedendo” il cielo, è solo dell’uomo, ed è completo solo in sapiens perché solo sapiens ha una stazione pienamente eretta che lo pone come in simbiosi col cielo. La costruzione dell’anima muove da qui, dal sorgere e dal maturare, nel tempo, del sentimento religioso dell’uomo, che prende molte forme, anche assai distanti l’una dall’altra, ma che hanno in comune l’idea, e meglio ancora la scoperta, che l’uomo non sta tutto nella sua materialità, nella sua esistenza materiale, l’idea che c’è un’altra dimensione, spirituale, religiosa, che fa parte della natura umana e la completa, la realizza, la sublima. Un’idea che non è del Dna umano, non si annida in quell’1-2 per cento di differenza col Dna degli scimpanzé. Un’idea, una scoperta che sta e consiste in qualcosa che non c’è genetica che sarà mai capace di spiegare.

Di più su questi argomenti: