Unico Uniqlo

Giulia Pompili
Mille e seicento negozi in sedici diversi mercati. Se la Brexit non si mette di mezzo, e se l’Abenomics non costringerà le grandi aziende a delocalizzare, la strategia di Uniqlo è quella di arrivare al 2020 con 50 miliardi di dollari di vendite, dieci miliardi di dollari di profitti. Storia della quarta catena d’abbigliamento al mondo e del suo fondatore, Tadashi Yanai

Lui è l’uomo più ricco del Giappone, tra i primi cinquanta del mondo, con un patrimonio calcolato intorno ai quindici miliardi di dollari. Eppure Tadashi Yanai, 67 anni, fondatore e ceo del colosso Fast Retailing che possiede il marchio Uniqlo, nei giorni feriali indossa uno Swatch da duecentocinquanta dollari. Tipico dei giapponesi: il denaro non va ostentato, non si adatta alla tradizione confuciana della ricchezza interiore. Yanai, però, il fascino dei soldi lo subisce eccome. Lo dimostra la sua abitazione nel cuore di Tokyo, sulla quale circolano parecchie leggende. Nel 2000 Yanai acquistò 8.500 metri quadri di terreno a Oyamacho, nel quartiere di Shibuya. Ci costruì sopra una casa abbastanza grande da contenere la moglie, i due figli e la sua enorme passione per il golf – si parla di un paio di campi privati – e oggi l’intera area è valutata 74 milioni di dollari. (Ma Yanai possiede anche due resort golfistici alle Hawaii, per le vacanze). Del resto il fondatore di Uniqlo è in buona compagnia, perché fa parte dei milionari che vengono dalla regione dell’Asia Pacifico, il cui numero è cresciuto nel 2015 del dieci per cento.
Se non avete mai sentito parlare della marca di abbigliamento Uniqlo, probabilmente non siete mai stati in Giappone. C’è un negozio Uniqlo in ogni strada, in ogni angolo, fermi a qualunque semaforo, vi basterà volgere lo sguardo a destra o sinistra, e di sicuro riconoscerete l’inconfondibile scritta rossa. Ci sono più di ottocento negozi in tutto il territorio giapponese, che nel mese di maggio del 2016 hanno fatto un +7,6 per cento di vendite. Ma Uniqlo è anche all’estero: dieci negozi in Inghilterra, altrettanti in Francia, tre a Berlino e due in Belgio (no, in Italia non è mai arrivato). Quarantaquattro negozi in America, e 449 in Cina. E poi Hong Kong, Taiwan, Singapore, Malesia, Corea, Indonesia. Un numero complessivo di mille e seicento negozi in sedici diversi mercati. Se la Brexit non si mette di mezzo, e se l’Abenomics non costringerà le grandi aziende a delocalizzare, la strategia di Uniqlo è quella di arrivare al 2020 con 50 miliardi di dollari di vendite, dieci miliardi di dollari di profitti. Del resto Uniqlo – quarta catena d’abbigliamento al mondo – è dappertutto, ed è, su stessa ammissione del suo fondatore, il vero rivale del gruppo spagnolo Inditex (quello che possiede marchi come Zara) e della svedese H&M. Con delle differenze, però. Trent’anni fa Tadashi Yanai ha trasformato una piccola bottega in un colosso internazionale, senza mai perdere il suo carattere esplicitamente giapponese con continui – a volte inconsapevoli – rimandi alla tradizione. Per il mondo dell’imprenditoria è un idolo, il modello di una generazione di businessmen che hanno saputo fondare degli imperi dalle macerie del Giappone del Dopoguerra. E tanto più che il business di Uniqlo è molto diverso dal chiodo in finta pelle giallo di Zara e dalle magliette strappate di H&M. Uniqlo è l’essenza stessa dello stile asiatico, fatto di eleganza e moderazione (che spesso fa rima con omologazione) e di capi estremamente basic. E’ un low cost, ma neanche troppo: una maglietta da uomo costa in media quindici euro, almeno un terzo in più rispetto a Zara, il doppio rispetto a Primemark (la catena inglese di capi d’abbigliamento a prezzi stracciati). In Giappone Uniqlo è talmente diffuso che indossare i capi di abbigliamento della catena, tra i più giovani, è considerato un po’ da sfigati. Esiste addirittura un termine, unibare, che vuol dire tecnicamente beccare qualcuno indossare la roba di Uniqlo.


E c’è un motivo se i ragazzini che indossano certe giacche vengono bullizzati. Una volta Yanai ha detto che la ricerca di Uniqlo non è la moda, la tendenza e il dress code da Lady Gaga, ma la tecnologia. E infatti sin dall’inizio tutta l’attenzione si è concentrata sulla ricerca dei materiali – sempre più leggeri e comodi, perché le estati in Giappone possono essere molto calde e umide. Nel 2004 l’azienda ha firmato la Dichiarazione di Qualità globale, introducendo il cachemire e i prodotti Heattech, caldi ma traspiranti. Gli scaffali dei negozi sono pieni di camicie, magliette, felpe in pochi modelli, ma in moltissimi colori. Naturalmente con qualche adattamento per i negozi all’estero: nel 2014 l’Uniqlo di New York ha iniziato una collaborazione con il MoMa, e il risultato è stato una collezione di t-shirt ispirate all’arte contemporanea di Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat, Keith Haring, Jackson Pollock. Da giugno è disponibile anche la collezione Batik, ispirata alla tradizionale decorazione dei tessuti indonesiana, e in aprile era stata lanciata quella ispirata al saris, il vestito tradizionale in Bangladesh. Parte dei ricavati di queste collezioni andrà ad aiutare le donne che lavorano negli stabilimenti del sud est asiatico. Il messaggio della moda occidentale è distinguersi, il cuore del business di Uniqlo, invece, è quello dei vestiti semplici e funzionali, e si inserisce perfettamente nella nuova moda nata in Giappone del minimalismo – il best seller di Marie Kondo ne è un esempio – per la quale se una cosa non è necessaria, allora va eliminata.


Tadashi Yanai è nato il 7 febbraio del 1949 a Ube, una città di 180 mila abitanti nella prefettura di Yamaguchi, nel sud del Giappone, la stessa città dove nacque anche l’ex primo ministro giapponese Naoto Kan. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, ha raccontato lo stesso Yanai a David Pilling sul Financial Times in un’intervista del 2013, il Giappone era molto povero, ed era ancora un paese occupato. I cittadini di Ube vivevano grazie alla miniera di carbone. I genitori del piccolo Tadashi avevano un piccolo negozio di abbigliamento dove il padre si era specializzato in abiti maschili preconfezionati: erano gli antecessori della “divisa da salaryman”, il completo scuro che ancora oggi è il simbolo del Giappone produttivo e dell’organizzazione collettiva delle aziende. Il negozio era al primo piano e Tadashi, figlio unico, viveva con i genitori al piano superiore. Poi la miniera di carbone chiuse: “Durante la mia infanzia ho imparato che tutte le aziende hanno una data di scadenza. Tutto ha una fine”, ha raccontato Yanai al Financial Times. Dopo aver frequentato il liceo pubblico di Ube, Yanai si iscrive alla facoltà di Economia e Scienze Politiche della prestigiosissima università Waseda di Tokyo. Ma come è possibile che un figlio del carbone di Ube avesse accesso a una università così esclusiva? Nella biografia del giovane Tadashi è difficile trovare una risposta a questa domanda, ma è possibile che c’entri qualcosa lo zio, Masao Yanai, attivista per la liberazione dei buraku. Breve parentesi: nel sistema delle caste che vigeva in Giappone prima della Restaurazione Meiji, gli ultimi della scala sociale erano gli eta, o burakumin – coloro che per tradizione avevano un lavoro che comportava il contatto con i morti, con la macellazione degli animali. Le discriminazioni nei confronti dei discendenti dei fuori-casta proseguirono anche quando il sistema delle caste fu abolito. Le grandi aziende, al momento delle assunzioni, pare consultassero le liste dei discendenti delle caste. Con l’arrivo degli americani, però, le cose cambiarono. Il contatto con lo zio, deve aver sensibilizzato – se non influenzato – il giovane Tadashi nella costruzione della sua azienda. All’università il futuro fondatore di Uniqlo non è una cima: ha raccontato più volte in varie interviste di aver speso parecchio tempo giocando a pachinko, una specie di gioco d’azzardo tipico giapponese che è a metà tra un rumorosissimo flipper e una sloth machine. Ma l’epoca universitaria gli serve a immergersi nella cultura americana – a quell’epoca Tokyo era una specie di colonia – e a viaggiare in Inghilterra. Nel 1971 Yanai riesce a laurearsi alla Waseda. Viene assunto per un anno e mezzo da Jusco, i grandi magazzini giapponesi, ma poi decide di tornare dal padre, a Ube. Lavora per molto tempo all’azienda di famiglia che all’epoca si chiamava Ogori Shoji. Nel maggio del 1985, più di dieci anni dopo, Tadashi apre un altro negozio, questa volta a Hiroshima, e lo chiama Unique Clothing Warehouse. Cambia anche un po’ il business: Tadashi continua a vendere abbigliamento, ma decide di allontanarsi dalla tradizione di famiglia e inizia a vendere capi casual, t-shirt, maglioni, e quella che poi diventerà la leggendaria felpa di pile da venti dollari. E’ lì, a Hiroshima, che Yanai capisce “di aver scoperto una miniera d’oro”. Perché gli affari vanno bene, e passati altri sei anni la Ogori Shoji cambia nome in Fast Retailing. Nel frattempo, nel 1988, apre il primo Uniqlo (abbreviazione di Unique Clothing) nella capitale, a Tokyo. Mr. Uniqlo non manca mai di ripetere che lui lo sapeva, fin da bambino, che non era portato per fare il salaryman, per la cravatta e il lavoro d’ufficio: finalmente aveva trovato un trampolino per saltare verso il successo.


Oltre che per aver trasformato una piccola bottega in un colosso mondiale, Tadashi Yanai è famoso (all’estero) anche per la sua fama di leader “illuminato”. Quando nel 2010 vinse il Premio di venditore internazionale dell’anno, il New York Magazine gli dedicò un lungo reportage all’Uniqlo di Soho, che già dalla mattina alle 9,30 – mezz’ora prima dell’apertura – era pieno di clienti in fila in attesa di entrare. “L’altra settimana un turista italiano è spuntato nell’Uniqlo e ha comprato talmente tanti maglioni di cashmere a 89.50 dollari ognuno, in tanti colori, che riusciva a malapena a tenerli”, scriveva Bryant Urstadt sul NYMag. “Anche il direttore del negozio è rimasto sorpreso, pur essendo ormai abituato all’appassionato shopping da Uniqlo. C’è un banchiere locale che qui compra calzini, biancheria intima, e t-shirt a caso, e lo fa ogni mese. Ovviamente ha capito che acquistarli nuovi da Uniqlo è più conveniente che fare il bucato”. Ma come è possibile che un negozio di vestiti così anonimi sia diventato un must? Tadashi Yanai è il Warren Buffett giapponese, ha spiegato a Urstadt Shin Odake, capo della Fast Retailing americana, “E’ sempre in televisione”. In effetti in Giappone i media danno ampio spazio alla concezione dell’economia e del business di Yanai, ed è considerato in occidente un “visionario”: “Le aziende hanno il dovere di vivere in armonia con la società, ma per essere accettate devono contribuire alla società. La maggior parte delle aziende non sono riuscite a mantenere questo equilibrio. Ognuno di noi è, per prima cosa, un membro della società e poi un membro dell’azienda. Pensare soltanto all’azienda porta al fallimento”. Questo è uno dei concetti fondamentali espressi nella biografia del 2003 di Yanai, “One Win, Nine Losses” (una vinta, dieci perse), che già dal titolo spiega quale sia la filosofia del business di Uniqlo. Yanai dice di aver imparato tanto dal primo fallimento della Fast Retailing, quando nel 2001 cercò l’internazionalizzazione lanciando i negozi in Gran Bretagna. La Uniqlo si ritirò dal mercato inglese nel 2003, per poi tornarci nel 2007. Per Yanai fu un errore sbarcare all’estero all’inizio dei Duemila, senza una vera strategia e soprattutto con un negozio del tutto snaturato: Uniqlo è per il cliente, e le sue esigenze sono al centro delle preoccupazioni dei dipendenti, così come nella tradizione giapponese del kaizen, il concetto di continuo miglioramento che tanto affascina i teorici della filosofia aziendale. “Fu un errore lasciare la gestione dei primi negozi inglesi ai locali. Non dobbiamo mai dimenticare che siamo un’azienda giapponese”, dice spesso Yanai raccontando del primo periodo inglese, sottolineando quanto la sconfitta sia in realtà un momento per imparare la lezione (e di nuovo, i riferimenti alle arti marziali giapponesi e allo spirito confuciano sono evidenti). Non è difficile immaginare perché in occidente un personaggio simile abbia riscosso parecchio successo.


In Giappone, generalmente e per cultura, i ricchi indossano gli Swatch per non sembrare poi così ricchi, perché essere milionari vuol dire essere spesso guardati con sospetto e la ricchezza viene vissuta quindi come una colpa. Tadashi Yanai finì su tutti i giornali nel 2011 perché, dopo l’emergenza del terremoto e dello tsunami che colpirono il Giappone, donò 8,85 milioni di euro per le vittime. Quasi nove milioni di euro. Una cifra che non è da filantropo, ma da milionario innamorato del proprio paese.

 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.