Una fase della guerra alla droga e al narcotraffico nell’America centrale: un enorme quantitativo di cocaina colombiana bruciato in Messico dopo il sequestro

Droga senza nemici

Eugenio Cau
Così in America latina Obama sta smantellando la grande “war on drugs” promossa da Reagan nei primi anni Ottanta

In America latina tutti si ricordano di Nancy Reagan. Dal Messico, paese di frontiera, agli stati che condividono la catena montuosa delle Ande, tutti la ricordano in televisione, di fianco al marito Ronald, mentre questi annunciava la seconda grande ondata della guerra alla droga. Se la ricordano composta e decisa dire: “Just say no”, slogan perfetto che poi si sarebbe adattato alla violenza e al sesso prematrimoniale, se la ricordano perché da allora la guerra alla droga iniziò per davvero. Era il 1982. La guerra alla droga era già stata dichiarata dieci anni prima da Richard Nixon. Pochi anni dopo, nel 1977, Jimmy Carter fu eletto presidente con un programma che prevedeva la depenalizzazione del consumo e della distribuzione di marijuana per uso personale. Ma all’inizio degli anni Ottanta la cocaina colombiana invadeva le strade d’America, c’era allarmismo e isteria, le prime morti celebri, da John Belushi alla stellina del basket Len Bias, e Reagan decise che era ora di “ammainare la bandiera della resa” e “alzare la bandiera di guerra”.

 

La guerra alla droga è diventata un fenomeno epocale, di enorme portata militare, culturale ed economica, che ha cambiato i paesi latinoamericani e stravolto le relazioni tra le due Americhe. In nome della guerra alla droga sono stati cambiati governi, scatenate rivolte interne, inviati eserciti, militarizzate città, distribuiti e poi ritirati armi e mezzi. Le caratteristiche principali della guerra erano due: un approccio militare, con strategie mutuate dalle operazioni d’intelligence della Guerra fredda e spesso parallele a esse, che si svolgevano sotto copertura nei paesi latini dove il traffico era più forte, e un proibizionismo assoluto, inderogabile: il problema della droga si risolve non consumandola. “Just say no”, appunto. Nella guerra alla droga sono morte centinaia di migliaia di persone, decine di migliaia nella Colombia degli anni Ottanta e Novanta, probabilmente centomila nel Messico degli ultimi dieci anni, mano a mano che si spostava la rotta dei traffici. L’America ha speso una montagna di denaro sul fronte interno e su quello esterno, mille miliardi di dollari secondo uno studio del 2010.

 

Per quasi quarant’anni la guerra alla droga ha deciso i destini di un continente, ma oggi è rimasto poco dell’enorme mobilitazione voluta da Reagan. L’Amministrazione di Barack Obama, con un cambio di paradigma e nell’ambito di un più generale disengagement dal suo ruolo di guardiano dell’ordine mondiale, ha lentamente iniziato a rinnegare il grande apparato ideologico e militare messo in piedi dai suoi successori. A livello semantico, anzitutto. Nel maggio del 2009, all’inizio del primo mandato obamiano, lo zar antidroga del governo, il direttore dell’Office of National Drug Control Policy Gil Kerlikowske, annunciò che l’Amministrazione non avrebbe più usato la dizione di “guerra alla droga”. E’ “controproducente”, disse. Da allora alcuni dei pilastri della guerra alla droga per come l’avevano pensata Nixon e Reagan hanno iniziato a sgretolarsi. Il proibizionismo anzitutto, che è ancora legge federale ma è stato disconosciuto da alcuni stati americani con una serie di referendum soprattutto sotto la presidenza Obama.

 

Sotto lo sguardo non contrariato dell’Amministrazione, inoltre, molto è cambiato anche nei paesi dell’America latina. Fino a pochi anni fa venire meno ai dettami della guerra alla droga era ancora un tabù per i paesi alleati di Washington. Nel 2006 l’Amministrazione di George W. Bush costrinse l’allora presidente messicano Vicente Fox a porre il veto su un provvedimento di depenalizzazione parziale delle droghe leggere da lui stesso sostenuto. Oggi, al contrario, il principio del proibizionismo sta saltando. Il mese scorso il massimo tribunale messicano, la Corte suprema di giustizia, ha depenalizzato in alcuni casi limitati l’uso di marijuana per scopi ricreativi, e il presidente messicano Enrique Peña Nieto, pur dicendosi personalmente contrario alla norma, ha auspicato l’inizio di un “ampio dibattito” sul proibizionismo. In Colombia, la Corte costituzionale aveva già depenalizzato il possesso di una “dose minima” di marijuana nel 2012, e questa settimana il governo ha autorizzato la produzione e il consumo di marijuana a fini medici, e contemporaneamente si è aperto al Congresso un dibattito dai toni piuttosto duri sulla sua “legalizzazione definitiva”.

 

La Colombia è da sempre uno dei più stretti alleati degli Stati Uniti nel continente, forse il più fedele in assoluto, ma nonostante questo il presidente Juan Manuel Santos, con una mossa che molti in America hanno visto con dispetto, a maggio di quest’anno ha deciso di porre fine all’ampio programma statunitense di irrorazione aerea con diserbante delle coltivazioni illecite, tendenzialmente piante di coca. Il programma andava avanti da 15 anni, era gestito da contractor americani e operava su un’area di territorio colombiano grande quanto il New Jersey (130 mila ettari), ha scritto l’Economist. Gli americani usavano il glifosfato, una sostanza che il governo colombiano ha definito cancerogena e che l’Organizzazione mondiale della Sanità ha definito “probabilmente cancerogena”. La compagnia che produce il glifosfato, l’americana Monsanto, nega che il suo prodotto sia dannoso, ma questo, insieme alle testimonianze dei gravi problemi di salute riscontrati negli abitanti dei luoghi interessati, è bastato al governo di Bogotá per porre fine alle irrorazioni, che secondo il governo statunitense avevano giocato un ruolo essenziale nella riduzione di un terzo delle coltivazioni di pianta di coca dal suo picco alla fine degli anni Novanta.

 

Horacio Serpa Uribe è stato ministro dell’Interno della Colombia a metà degli anni Novanta, in uno dei periodi più duri della guerra alla droga. In precedenza era stato co-presidente dell’Assemblea costituente che ha scritto l’attuale carta fondamentale del paese, poi ambasciatore e più volte candidato a presidente della Repubblica. E’ uno degli uomini politici più importanti della Colombia, forte di una carriera decennale. Oggi è senatore del Partido Liberal, formazione di tendenza socialdemocratica che fa parte della coalizione di governo del presidente Santos. “Negli scorsi anni la lotta della Colombia contro le mafie della droga è stata durissima”, dice Serpa in una conversazione telefonica con il Foglio. “I membri del cartello di Cali (una delle due organizzazioni di narcotrafficanti storiche in Colombia, ndr) sono stati arrestati, alcuni sono morti nella guerra, altri sono stati estradati negli Stati Uniti. Pablo Escobar e i suoi seguaci sono stati sterminati. Ma nonostante questo la Colombia continua a produrre coca e altre sostanze illecite. In Colombia si continua a raffinare la pasta di coca, e il paese è oggi patria di nuovi mafiosi che continuano a esportare cocaina. All’epoca della guerra alla droga si distrussero le coltivazioni e i laboratori illegali, furono arrestati infiniti criminali, ma ci sono stati degli effetti collaterali. Sono morti migliaia di innocenti, e le istituzioni sono state corrotte dall’interno. Moltissimi anni di guerra non hanno posto fine in Colombia né alla produzione né al raffinamento né all’esportazione della droga. Gli Stati Uniti e la Colombia mantengono una relazione eccellente”, continua il senatore Serpa, “ma i governi di entrambi i paesi ormai hanno capito che una guerra alla droga che prevede solo repressione, sequestro, distruzione dei laboratori e la considerazione dei consumatori come delinquenti in un certo senso ha fallito”.

 

Il caso colombiano è particolarmente importante perché il tema della guerra alla droga e al narcotraffico si interseca con quello di uno dei più lunghi conflitti attivi del mondo, lo scontro armato con le Farc, Forze armate rivoluzionarie della Colombia, milizie comuniste la cui insurrezione è iniziata oltre cinquant’anni fa e da allora ha provocato almeno 220 mila vittime. Il governo colombiano, dopo due anni di negoziati durissimi tenutisi all’Avana, a settembre ha raggiunto un accordo di massima per siglare la pace con la guerriglia “entro sei mesi”. La principale fonte di finanziamento delle Farc è il traffico della droga, e per porvi fine la pace è necessaria. Durante i negoziati è stato dedicato moltissimo tempo alla questione, e una delle condizioni degli accordi prevede la fine dell’irrorazione con diserbanti e l’avvio di un programma di sostituzione delle coltivazioni illegali. Le Farc sono state inserite su spinta degli Stati Uniti nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, e questo rischia di creare un ostacolo. Ma in tempi di deal con i nemici storici, anche sulle Farc Washington sembra chiudere un occhio. “Gli Stati Uniti hanno deciso di appoggiare il processo di pace in Colombia e hanno un delegato speciale presente come osservatore durante i negoziati”, dice Horacio Serpa, secondo cui ormai è evidente che “è cambiato l’approccio” di Washington.

 

“Sulla guerra alla droga il presidente Obama ha scelto una politica più flessibile, e si è mostrato disponibile a rivedere le strategie di un tempo, e in questo c’è una differenza enorme con i suoi predecessori”, dice al Foglio Álvaro Balcázar, economista, direttore dell’Unidad Especial para la Consolidación Territorial del governo e tra i delegati colombiani al tavolo negoziale dell’Avana. “La politica antidroga adottata finora non è stata un insuccesso, ma ha avuto dei costi troppo alti in termini finanziari, umani e istituzionali. Su questo non c’è contraddizione tra i paesi dell’America latina e gli Stati Uniti. Entrambi riconoscono che le politiche devono essere migliorate. Il presidente Santos ha chiesto in più di un’occasione una revisione delle politiche continentali sulla droga per ottenere risultati migliori riducendo i costi, e su questo ha l’appoggio della Casa Bianca”. “Ma gli Stati Uniti stanno mantenendo un atteggiamento attendista, sono in osservazione, aspettano di vedere se le nuove soluzioni adottate dai governi locali funzionano”, continua Balcázar – mostrando come anche in America latina, e non solo nei conflitti mediorientali, il “we don’t have a strategy yet” sembra guidare l’agire dell’Amministrazione. “Nemmeno le cattive notizie arrivate dalla Colombia hanno provocato reazioni negative da parte di Washington, nemmeno quando si è scoperto che è aumentata l’estensione delle coltivazioni illecite”.

 

Balcázar si riferisce al fatto che dopo molti anni alla testa della produzione mondiale di foglie di coca (nel 2000 produceva il 74 per cento di tutta la coca del mondo), la Colombia era finalmente riuscita a ridurre drasticamente le coltivazioni illegali, fino ad arrivare, nel 2011, a produrre il 42 per cento della coca del mondo, secondo dati Onu. La Colombia non era più il massimo produttore mondiale di coca, primato passato al Perù. Lo zar antidroga americano Gil Kerlikowske parlò di un risultato “storico”. Ma appena due anni dopo i dati hanno subìto un inversione, e tra il 2013 e il 2014 la produzione, dice un report americano, è tornata a crescere al ritmo notevole del 44 per cento annuo, in parte perché le Farc stanno cercando di trarre profitto dalle politiche di sostituzione delle coltivazioni illegali promesse dal governo. Secondo l’Economist, il report è stato fatto filtrare ai media da funzionari americani con l’intento di mettere in guardia il governo di Santos. Ma nonostante questo anche un altro analista, il professor Jaime Zuluaga Nieto, economista e scienziato politico dell’Universidad nacional de Colombia di Bogotá, è convinto che sul tema della guerra alla droga “l’apertura del presidente Obama ha provocato un cambio di atteggiamento che ha avuto conseguenze in tutta la regione. Questo è dimostrato dalla relativa autonomia di alcuni governi nei confronti degli Stati Uniti, che ha portato alle politiche di parziale legalizzazione della marijuana”.

 

[**Video_box_2**]Così i governi latinoamericani stanno archiviando la guerra alla droga concepita da Nixon e Reagan. “Gli Stati Uniti stanno affrontando una pressione crescente per ripensare la loro politica antidroga soprattutto da parte di alcuni alleati regionali, come la Colombia, il Guatemala e il Messico, che si stanno muovendo verso politiche più libere”, dice Adriana Hinestrosa Arias, che è consigliera della Commissione di pace del Senato colombiano e segretaria della Commissione di pace della Camera. Gli alleati latini dicono che stanno semplicemente aggiornando i princìpi del conflitto ai nuovi tempi, ma lo smantellamento della guerra alla droga ha anche ragioni economiche. “Una delle ragioni per cui la Colombia ha deciso di interrompere le irrorazioni con glifosfato, per esempio, è che il costo economico per il paese era molto alto”, continua Hinestrosa, “e gli Stati Uniti hanno smesso di erogare gli aiuti di un tempo. La Colombia inoltre nel 2016 dovrà affrontare le conseguenze economiche della pace con le Farc con un buco di bilancio enorme, e alcune risorse destinate alla guerra alla droga sono state ricollocate, perché non è possibile ottenere la pace senza denaro”.

 

Tra finanziamenti mancanti e pressioni esterne, l’America si sta ritirando anche dalla guerra alla droga. Gli analisti sono piuttosto concordi nel dire che un cambiamento era necessario, ma l’Amministrazione ha deciso di subappaltare questo cambiamento ai governi latinoamericani. Questo attendismo e assenza di leadership potrebbero finire presto. Al Congresso americano, ricorda il professor Balcázar, il Partito repubblicano è piuttosto attivo sul tema della guerra alla droga e i suoi esponenti temono, per esempio, che il nuovo aumento delle coltivazioni illecite possa avere effetti nocivi in patria. “C’è il pericolo serio che inizi un nuovo ciclo di violenza organizzata da parte del narcotraffico, dobbiamo evitare che succeda di nuovo”, dice Balcázar. Il problema, aggiunge, è che mentre la guerra alla droga viene smantellata “non abbiamo ancora strutturato a sufficienza una strategia che la sostituisca”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.