Foto: Ansa

terzietà uguale onestà

Viva la separazione delle carriere

Claudio Cerasa

Il referendum sulla giustizia? Un assist contro la cultura del sospetto. Toc toc Pd

Terzietà uguale onestà. La Corte costituzionale, come sapete, ha dato il via libera a cinque dei sei referendum abrogativi sulla giustizia proposti dalla Lega e dal Partito radicale e presentati da otto regioni governate dal centrodestra. Tra i quesiti approvati meritoriamente dalla Corte, ce n’è uno sul quale nei prossimi mesi si andrà a misurare la capacità dei partiti di combattere in difesa dello stato di diritto, in difesa del garantismo e in difesa della separazione dei poteri. E quel quesito coincide con un tema che dovrebbe stare a cuore a chiunque voglia dare piena attuazione a quello che è oggi uno degli articoli della Costituzione meno rispettati della nostra Carta: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”.

Il quesito dinanzi al quale una forza politica come il Partito democratico difficilmente potrà voltarsi dall’altra parte è quello che riguarda la separazione delle carriere tra magistrati e giudici (“ogni magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale”). Se il giudice deve essere terzo, come hanno giustamente sostenuto alcuni anni fa diversi esponenti del Pd sottoscrivendo un appello promosso da LibertàEguale, la sua carriera non può essere unica rispetto ai magistrati del pubblico ministero, che costituiscono una parte. Per il Pd, dire di sì a uno o più quesiti sulla giustizia può rappresentare un costo politico oggettivo, misurabile nei rapporti con il M5s, ma per il Pd dire di no a un quesito come questo significherebbe mostrare indifferenza rispetto a temi cruciali come l’equilibrio delle istituzioni, la separazione delle carriere e la progressiva trasformazione dell’Italia in una repubblica giudiziaria sempre meno fondata sulla centralità del lavoro e sempre più fondata sulla centralità delle procure. Chi accusa non porta verità. Porta ipotesi. Chi porta ipotesi non può essere confuso con chi giudica. E chi giudica, e non porta ipotesi, ha il diritto di avere riconosciuto un potere veritativo della sua funzione diverso rispetto a quello di chi giudica.

Diceva Giovanni Falcone che la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo. Trent’anni dopo l’inizio di Tangentopoli, trent’anni dopo la scelta della politica di assecondare la dittatura del sospetto mettendo il potere legislativo nelle mani del potere giudiziario, girarsi dall’altra parte solo per non turbare gli equilibri di un’alleanza non significherebbe solo regalare alla Lega una battaglia di buon senso. Ma significherebbe continuare a essere complici di un sistema che ogni giorno fa di tutto per sgranocchiare il nostro stato di diritto. Significherebbe preferire il caos. Mossi dall’illusione magari di poterlo ancora governare, il caos, a proprio vantaggio. Terzietà uguale onestà. Caro Enrico Letta, che si fa?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.