ANSA/ALESSANDRO DI MEO 

quasi-sequestri di persona

Chi sbaglia non paga. L'odissea di chi chiede giustizia

Enrico Costa

È questa la filosofia seguita nel nostro paese a proposito di ingiuste detenzioni

Immaginate uno stadio di media capienza come il Bentegodi di Verona, gremito in ogni ordine di posti. Trentamila persone, tutte con una grande cicatrice sul corpo. Ognuno di questi spettatori è stato svegliato nel cuore della notte, prelevato e privato della libertà. I più fortunati liberati dopo pochi giorni, altri anche dopo anni. Tutti quanti, chi prima, chi dopo, assolti. Innocenti. Trentamila persone, come gli spettatori di quello stadio, dal 1992 al 2020 hanno ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione. Circa mille all’anno, per una spesa complessiva di 870 milioni di euro. Guai però a pensare che le mille persone all’anno che ottengono l’indennizzo siano i soli innocenti a essere finiti dietro alle sbarre o ai domiciliari. Sono tanti, tantissimi di più. Molti, scottati dal sistema giustizia, preferiscono rinunciare a quei quattro soldi piuttosto che tornare davanti a un giudice per domandarli. 

La gigantesca, clamorosa, ingiustizia sta nel numero di coloro che davanti al giudice ci tornano, ma vedono rigettata la loro richiesta. Il 77 per cento di chi – arrestato ingiustamente – chiede l’indennizzo e non lo ottiene perché, secondo le corti d’Appello, avrebbe “concorso con dolo o colpa grave all’errore del magistrato”. Chi è così autolesionista da prendersi gioco di un pubblico ministero per farsi mettere in galera? Nessuno sano di mente. Ma se leggiamo le ordinanze di rigetto scopriamo che le corti respingono le richieste quando l’arrestato si è avvalso della facoltà di non rispondere: così facendo, secondo loro, concorrono all’errore del magistrato. 

Quindi, Tizio, arrestato magari nel cuore della notte, dopo un paio di giorni di carcere – quando non ha neanche letto le carte – finisce davanti al giudice: è abbastanza normale che si avvalga della facoltà di non rispondere. È un suo diritto. Ebbene, se Tizio dopo anni viene assolto e chiede l’indennizzo per ingiusta detenzione, si sente rispondere che non ne ha diritto perché quel giorno era rimasto in silenzio, senza respingere le accuse, mandando così fuori strada il magistrato, che peraltro lo aveva già da giorni messo in carcere. Come se di fronte a un arrestato che si proclama innocente il giudice scatti ad ammettere il suo errore, ad annullare l’ordinanza e a dischiudere la porta della cella. 

Questa è una distorsione giurisprudenziale a cui porre rimedio. Sto insistendo perché il governo intervenga con chiarezza e dica in modo chiaro che l’esercizio di un diritto non può ritorcersi contro chi lo ha fatto valere, e non può essere letto come una “colpa grave”: ma trovo un muro eretto dall’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia (composto perlopiù da magistrati, ne parleremo diffusamente in un prossimo articolo). Per loro la norma va bene così. E non è una sorpresa. La difesa corporativa non si ferma neanche di fronte all’evidenza di un arresto ingiusto.

Il livello di civiltà giuridica di un paese si misura dal tipo di rimedi che mette in campo quando accadono gli errori giudiziari. Uno stato di diritto, di fronte a un cittadino innocente, umiliato, marchiato a vita, di fronte a un quasi-sequestro di persona, reagisce. Accerta e sanziona. Dedica energie, tempo e risorse perché non si ripeta più. Riavvolge il nastro, approfondisce, entra nel dettaglio di ogni istante che ha scandito quei momenti per fare luce su cosa non ha funzionato. Accende tanti riflettori quanti sono le vite rovinate, chiede conto ai magistrati, ricostruisce minuziosamente ogni passaggio. E, infine, trae le conclusioni. Qualcuno ha sbagliato? Dove ha sbagliato? L’errore era inevitabile? Le norme sono adeguate?

In Italia accade esattamente l’opposto. Qualche tempo fa domandai a un autorevole magistrato il suo giudizio su questi numeri drammatici. Mi aspettavo un’analisi giuridica, magari una difesa corporativa, ma la risposta, disarmante per sincerità, mi gelò: “Sono numeri fisiologici”. Fisiologici, cioè inevitabili. Quindi è inutile perdere tempo a indagarne le cause, le dinamiche, gli effetti. Si può solo prenderne atto. Questa è la posizione del nostro stato rispetto agli innocenti in carcere. Passivo, inerte, gelido. Paga un indennizzo (neanche sempre, come abbiamo visto) e si volta dall’altra parte. Comprendere le ragioni degli errori? Manco per sogno. Sanzionare i responsabili? Figuriamoci.

Nel lontano 2017 ottenni – con un emendamento – che il governo, fosse tenuto per legge, entro il 31 gennaio di ogni anno, a presentare una relazione al Parlamento in cui si dicesse quanti arresti sono stati effettuati nei 12 mesi precedenti, come siano finiti i relativi processi, quante riparazioni per ingiusta detenzione, quante azioni disciplinari nei confronti di chi ha sbagliato. La relazione del 2021, tanto per mostrare l’interesse al tema, è stata presentata solo il 19 maggio, con quasi 4 mesi di ritardo, e con il 24 per cento dei tribunali che non si è degnato di fornire i dati, che risultano così parziali.

Ricapitolando, accade questo: un arrestato-assolto presenta alla corte d’Appello domanda di riparazione per ingiusta detenzione. Se questa viene accolta, la corte emette un’ordinanza stabilendo la cifra del risarcimento, che deve essere pagata dal ministero dell’Economia. Lo stato ammette l’errore e paga, ma paga solo lo stato, perché chi ha sbagliato non viene mai chiamato in causa e continua indisturbato la sua carriera. Mai una tacca sulle valutazioni di professionalità, mai l’avvio di un’azione disciplinare. Il ministero della Giustizia negli ultimi anni è stato inerte: nel periodo 2016-2018 ha istruito 3 (tre) fascicoli disciplinari, che ha poi archiviato. Nel 2019 ne ha istruiti 0 (zero).

Allora abbiamo provato noi ad andare a caccia delle ordinanze della corti d’Appello, che riconoscono l’ingiusta detenzione. Perché sono documenti preziosissimi che chiariscono le ragioni degli errori: omonimia? Superficialità? Ritrattazione? Travisamento dei fatti? Nessuno che si scomodi per leggerle, analizzarle, eventualmente sanzionare, ma soprattutto evitare che si ripetano gli sbagli. 

Queste sono tutte detenute dal Mef, a cui mi sono rivolto. Vi chiederete, cosa c’entra il Mef? C’entra eccome, perché è il soggetto che paga gli indennizzi, quindi detiene gli atti. Ma da via XX settembre hanno fatto orecchie da mercante. Allora ho interessato la commissione Giustizia della Camera che ha chiesto al Mef copia delle ordinanze di ingiusta detenzione. E il ministero dell’Economia, che al contribuente dovrebbe rendere conto, si è avvitato in un’incomprensibile manovra dilatoria. Di fronte a una richiesta inviata ad aprile 2021 la commissione è ancora in attesa di avere le carte. Carte sui “sequestri di stato” che non vengono rese pubbliche, negate anche al Parlamento. 

Il 7 maggio il ministro Daniele Franco aveva manifestato per iscritto alla commissione Giustizia la preoccupazione per “uno sforzo organizzativo e operativo che potrebbe impegnare l’Ufficio competente per diverse settimane, in considerazione dell’elevato numero di ordinanze (circa 5.900)”, sottolineando che “ciò condurrebbe a convogliare le risorse umane impegnate nelle istruttorie e nel pagamento degli indennizzi e, più in generale, per il normale funzionamento dell’ufficio, verso un’attività straordinaria rilevante e non programmata, che potrebbe determinare ritardi nell’erogazione degli indennizzi”. In sintesi, se noi pretendiamo gli atti per studiarli ed evitare in futuro innocenti in galera, faremmo un danno – ritardando i risarcimenti – a quei poveracci che da innocenti in galera ci sono finiti.

Quando avremo queste ordinanze troveremo delle sorprese interessanti, che si aggiungono ai dati già in nostro possesso che dimostrano come gli errori si concentrino, come era immaginabile, in certi circondari e in certi distretti, noti per dare cittadinanza a inchieste ridondanti che finiscono nel nulla. 

Quello che ho cercato di descrivere è un labirinto senza fine che dimostra innanzitutto come il nostro paese abbia ancora tanta strada da fare per diventare uno stato in cui la libertà del cittadino sia sacra: perché, quando viene ingiustamente violata, nessuno muove un dito, nessuno si scandalizza, nessuno interviene. E dove, soprattutto, chi ha commesso questa ingiustizia viene promosso a più alti incarichi.

Ps: ogni anno vengono arrestate circa 50 mila persone e, secondo le norme vigenti, il 20 per cento di queste non avrebbe dovuto essere privato della libertà. Ma anche di questo parleremo in un prossimo articolo.      

 

Enrico Costa è deputato di Azione

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