Corrotti senza corruttori? Cosa non torna nel caso Alemanno

Annalisa Chirico

Più teoremi che prove. E un processo costruito sul “non poteva non sapere”. Domani l’ex sindaco può finire in carcere

L’8 luglio Gianni Alemanno potrebbe varcare la soglia del carcere, l’8 luglio sarà il giorno X per l’ex sindaco della capitale. In quella giornata la sesta sezione penale della Cassazione dirà una parola forse definitiva sulla vicenda giudiziaria che ha travolto l’ex primo cittadino, condannato in primo e secondo grado a sei anni per corruzione e finanziamento illecito.

 

In queste ore parlare con il diretto protagonista è pressoché impossibile, i suoi legali, Pietro Pomanti e Franco Coppi, gli hanno imposto massimo riserbo. Gli stessi, a febbraio del 2019, assistettero attoniti alla pronuncia della seconda sezione penale del Tribunale di Roma che infliggeva ad Alemanno sei anni di carcere andando oltre la richiesta della procura, ferma a cinque. “Sono innocente”, commentò a caldo l’ex sindaco che anche in queste ore, a chi l’ha sentito, ripete: “Non ho commesso reati, e vorrei essere giudicato per quello che ho fatto, non per quello che sono stato”.

 

Nel procedimento scaturito dall’inchiesta sul Mondo di mezzo, Alemanno fu inizialmente indagato per associazione mafiosa, insieme ai celeberrimi Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Nel 2016, a due anni dalla perquisizione nell’abitazione dell’ex sindaco, l’accusa più infamante – la mafia – cadde su richiesta di Piazzale Clodio, e per Alemanno si aprì il procedimento per corruzione sgombro da tracce di mafiosità. Così, espunta l’aggravante, per l’ex sindaco l’inchiesta sul Mondo di mezzo si è trasformata in una vicenda di corruzione in appalti sulla nettezza urbana e sulla cura del verde aggiudicati a cooperative sociali. Una vicenda, dunque, di dimensioni più ridotte, per magnitudine di flussi finanziari e interessi economici, rispetto, per esempio, ad altri scandali della storia recente, come l’inchiesta Mose a Venezia, l’Expo di Milano o lo stadio della Roma.

 

I legali pongono l’accento su alcune contraddizioni che, a loro giudizio, giustificherebbero l’annullamento o, almeno, una radicale riforma della sentenza di secondo grado. In primo luogo, il verdetto definitivo della Cassazione che ha condannato i coimputati di Alemanno, a giudizio nel processo principale con il medesimo capo di accusa dell’ex sindaco, non contempla il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 del Codice penale) ma la fattispecie meno grave di traffico di influenze illecite (art. 316-bis). Secondo i legali, questo risultato più favorevole farebbe a pugni con la condanna a sei anni nei confronti dell’ex sindaco, giudicata perciò “esemplare”, con un implicito marchio punitivo nei confronti del politico. Com’è possibile che in primo grado la procura di Roma, con un pm affatto indulgente come Luca Tescaroli, abbia chiesto cinque anni e il giudice deciso per sei? Come si spiega che il 23 ottobre 2020 la Corte d’appello abbia confermato la condanna per l’art. 319 a dispetto della pronuncia definitiva della Cassazione per un reato più mite nei confronti di tutti i coimputati di Alemanno? Chi dipanerà queste contraddizioni? A questi quesiti, e non solo a questi, proverà a rispondere il giudice supremo di legittimità. 
   

  

Se la condanna diventa un simbolo

Alemanno continua a dirsi “confidente” nell’esito giudiziario, e non si sa se la manifestazione di fiducia sia genuino convincimento o piuttosto un modo per dare conforto al figlio e alla compagna. “Io non sono un corrotto”, dice a chi gli chiede del processo, e poi, al termine dell’ennesima riunione con gli avvocati, viene spiegato un punto di per sé inoppugnabile: la corruzione è definita come un “reato a concorso necessario”, non può esserci corrotto se non c’è corruttore. Ma l’assoluzione definitiva dei coimputati, unita alla condanna per corruzione a carico di un imputato soltanto, Alemanno, fa a pugni con la giurisprudenza, e con il buon senso. Se i giudici hanno ravvisato il traffico di influenze, e non la corruzione, negli altri casi sottoposti a scrutinio giudiziario, come può sostenersi in giudizio la condanna per il reato più grave nei confronti del solo Alemanno? “Voglio rispondere di quello che ho fatto, non di quello che sono stato”, è stata finora la linea dell’imputato che, a torto o a ragione, ritiene di aver pagato il conto del circo mediatico montato attorno a Mafia capitale. Come la shakespeariana libbra di carne, Alemanno non ci sta ad essere dato in pasto alla folla che domanda un colpevole purchessia. Ed è difficile negare il rischio di diventare un “simbolo”, il simulacro di una politica arraffona e screditata, alla stregua di una statua da divellere per ripristinare il primato dell’onestà. 

 

Poche prove, molte congetture

A sentire i suoi legali, l’ex sindaco sarebbe stato condannato in applicazione del teorema, di ambrosiana memoria, per cui non poteva non sapere. Alemanno non poteva non essere a conoscenza delle malversazioni compiute da Franco Panzironi, suo stretto collaboratore, condannato in via definitiva per traffico di influenze per aver percepito oltre 600 mila euro (parte in contanti, parte attraverso versamenti alle fondazioni “Nuova Italia” e “Alcide De Gasperi” di cui era direttore operativo) da Salvatore Buzzi e dai suoi associati (condannati per lo stesso reato). Secondo i giudici, Panzironi avrebbe influenzato alcuni pubblici ufficiali per ottenere il pagamento da Ama spa e da Eur spa di debiti da tempo dovuti alle cooperative guidate da Buzzi e per far assegnare a queste cooperative la gara 18/11 indetta da Ama per la raccolta differenziata dei rifiuti a Roma. L’accusa mossa all’ex sindaco invece è di aver incassato 298 milacinquecento euro, come quota parte dei 600 mila complessivi, attraverso versamenti in nero e bonifici alle due fondazioni già menzionate. L’ex sindaco ha sempre sostenuto di non avere alcuna connessione con la fondazione intitolata all’ex leader della Dc, presieduta prima da Franco Frattini e poi da Angelino Alfano. Quanto a “Nuova Italia”, organismo di cui Alemanno era presidente e referente politico, egli ha sempre affermato di seguirne l’attività ma non la gestione amministrativa e operativa, delegata a Panzironi. Va pure notato che, se nei confronti di Panzironi esistono molteplici evidenze, fondate su pedinamenti, riscontri fotografici e intercettazioni, nel caso di Alemanno le prove scarseggiano. Non sono state effettuate rilevazioni dirette sui suoi spostamenti, le intercettazioni che lo riguardano non accennano mai a dazioni di denaro, Buzzi ha sempre sostenuto che Alemanno era ignaro dei traffici tra lui e Panzironi, anzi con Panzironi esisteva, a detta di Buzzi, una precisa intesa affinché l’ex sindaco non fosse messo al corrente. In realtà, Panzironi ha chiamato in correità anche Alemanno avvalendosi però della facoltà di non rispondere nel processo in cui è imputato l’ex sindaco. 

  
Reati o responsabilità politiche?

Del resto, già ai tempi del mandato al Campidoglio in molti avevano suggerito all’ex sindaco di “contenere” l’intraprendenza di quel collaboratore e adesso, a pochi giorni dalla sentenza che potrebbe aprire le porte del carcere, tornano alla mente le parole di Massimo Carminati, trascritte in un’intercettazione: “Panzironi è l’unico che può fregare Alemanno”. E sulla propria, scarsa, capacità di vigilanza Alemanno ha riflettuto in questi anni di udienze e patimenti, di solitudine ed emarginazione. “Le mie sono probabilmente colpe politiche, che ho pagato con la mancata rielezione, ma questi sette anni di gogna, prima come mafioso e poi come corrotto, non li meritavo”, confida ai suoi, nell’intento forse di trovare una valvola di sfogo, un appiglio, o forse, più semplicemente, di far passare le interminabili ore che lo separano dal suo giorno X.  

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