Marta Cartabia, attuale presidente della Corte costituzionale (foto LaPresse)

Vantaggi di una Consulta che si apre alla società

Pasquale Pasquino

La collaborazione degli esperti e i contributi di soggetti terzi già in uso in molte corti straniere. Lontano il rischio della politicizzazione

L’apertura della Corte costituzionale alla società civile, vedremo più precisamente di che cosa si tratta, ha suscitato, come è bene che sia, il dibattito fra i costituzionalisti e qualche commento, necessariamente più vago, sui giornali. La Corte che con il Parlamento, il governo e la presidenza della Repubblica è fra gli organi più importanti del nostro stato costituzionale è però quello meno noto al pubblico, presso il quale gode peraltro di una buona reputazione, come affermano da tempo i sondaggi di opinione. Ed è utile che se ne parli di più e che il suo ruolo, il suo funzionamento e le regole che presiedano alle sue decisioni divengano più familiari ai cittadini i cui diritti essa ha il dovere di proteggere. In questo senso bisogna rallegrarsi del fatto che essa, anche attraverso i suoi ultimi presidenti, abbia cominciato a parlare di più a tutti e non solo agli addetti ai lavori i quali sono in grado di leggere testi inevitabilmente tecnici come le sue sentenze.

 

La decisione presa di recente di aprirsi a soggetti altri rispetto alle parti dei conflitti dinanzi a essa riguarda due figure terze: da un lato esperti, dall’altro soggetti che hanno interessi direttamente legati ai conflitti costituzionali dinanzi alla Corte, senza essere tuttavia in prima persona parti del giudizio. Nel primo caso la Corte fa un ragionevole atto in umiltà, che va intesa qui come assenza di arroganza. I giudici della Consulta sono esperti delle diverse branche del diritto, ma non possono essere a completa conoscenza di tutto lo scibile e di volta in volta possono presentarsi questioni che richiedono competenze specialistiche, per le quali è saggio che la Corte faccia ricorso a esperti. Che si tratti di questioni mediche o tecnologiche o economiche che servono a chiarire punti sui quali guardando essa al diritto e ai diritti dei cittadini la Corte è chiamata a decidere. Ed è certamente utile che la Corte ne solleciti una informativa collaborazione. 

 

 

Nel secondo caso, quello dell’apertura ai contributi di soggetti terzi non bisogna pensare che oggi chiunque, individuo o gruppo, possa invadere la Corte di pareri, ma piuttosto che soggetti direttamente coinvolti dagli effetti della sentenza che la Corte dovrà produrre possano, accanto alle specifiche parti del conflitto, illuminare i giudici sulla questione che essi devono decidere. Come tale apertura si determinerà è difficile da prevedere oggi nei dettagli, essa si definirà, come gran parte del lavoro della Corte sin dalla sua nascita, attraverso la pratica, che potrà dar luogo a regole più precise. E’ quello che accade in genere nella vita del diritto che non è fatta di immutabili assiomi matematici.

 

Si osservi, inoltre, che queste innovazioni, che parranno azzardate ai più tradizionalisti fra i costituzionalisti, esistono da più o meno lungo tempo in molte corti con competenze simili a quelle della nostra: dal cosiddetto amicus brief, questo da lungo tempo in vigore nei sistemi giudiziari anglo-americani, alla pratica di una corte molto diversa da quella americana, qual è il Conseil constituitionnel francese, dove per una simile forma di accesso all’organo che si occupa della giustizia costituzionale si parla di portes étroites. L’Italia su questo piano era in ritardo, non che si debbano sempre seguire altri modelli, ma in questo caso non si vede la ragione per i giudici di barricarsi dentro la Corte motivati da arroganza onnisciente e da paura rispetto all’esterno.

 

Sui dettagli e sui possibili sviluppi di queste innovazioni si continuerà a discutere e la critica costruttiva, che viene anch’essa dal di fuori della Corte, non può che aiutare al miglioramento dei nuovi strumenti del processo costituzionale. Meno chiara è la minaccia che qualcuno potrebbe far valere di politicizzazione della Corte. Per discutere del tema, bisogna intendersi sul senso delle parole. Sul tema si era espresso con chiarezza già anni addietro il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky in un testo molto utile dal titolo “La Corte in-politica” (Quaderni costituzionali, 2005, p. 273 ss.). Ma già nei primi dibattiti continentali sulla giustizia costituzionale, che ebbero luogo durante la Repubblica di Weimar fra i giuristi di lingua tedesca, Richard Thoma aveva osservato che parlare di politica a proposito di una Corte costituzionale aveva almeno due diversi significati. In un senso positivo, non vi era dubbio per lui che le decisioni di tale organo avessero un impatto sulla vita della polis, la comunità dei cittadini e l’interpretazione dei loro diritti. In un senso negativo con lo stesso termine si faceva riferimento invece al presunto carattere partigiano delle decisioni di tale organo assumendo che necessariamente di parte fossero i suoi membri. Thoma faceva osservare che si potevano certamente scegliere giudici moderatamente partigiani per proteggere l’organo da una possibile corruzione del medesimo. Quasi un secolo dopo quei dibattiti l’esperienza ha insegnato che esistono modalità di nomina dei giudici costituzionali che riducono il tasso di partigianeria dei medesimi. Per opposizione al meccanismo di nomina dei giudici della Corte suprema americana (l’accordo fra il presidente e la semplice maggioranza del Senato, che in presenza di un medesimo colore politico fra questa e l’inquilino della Casa Bianca produce le nomine – a vita! – che abbiamo visto imporsi durante la presidenza Trump), si pensi a quelle modalità che richiedono l’accordo dell’opposizione parlamentare per la scelta dei giudici, come avviene per un terzo dei membri della nostra Corte. Gli altri due terzi sono scelti in misura eguale dal presidente della Repubblica e dalle supreme corti del nostro ordinamento giudiziario. Certo l’assenza di una cultura del compromesso nella classe politica italiana ha più di una volta paralizzato tali nomine. Ma chi ha seguito le vicende della Corte sa che canditati, talvolta peraltro perfettamente qualificati e competenti, sono stati bocciati per il loro passato fortemente caratterizzato da una posizione di parte.

 

Si dirà che nessun giudice può essere veramente neutrale; ma qui si confonde una concezione teologica della neutralità, come attributo di un soggetto onnipotente e dotato di tutte le perfezioni, con ciò che il medesimo termine può indicare quando si parla di esseri umani, i quali possono essere solo più o meno di parte. Ed è meglio, grazie ai meccanismi di nomina, che lo siano il meno possibile. Questo tipo di critica non tiene conto nemmeno del fatto che stiamo parlando nel caso delle corti di giustizia di tipo continentale di organi che deliberano collegialmente; il che aiuta a produrre quell’unica neutralità data agli umani la quale consiste nel trovare un punto di aggregazione intorno a un compromesso fra diverse parzialità moderate. Nella deliberazione collegiale i membri del corpo decidente non possono come i cittadini elettori limitarsi a esprimere preferenze, devono fornire argomenti persuasivi ed essere in grado di giungere a compromessi per non diventare marginali. Non essendo elettoralmente responsabili dinanzi a una constituency dalla quale dipenderebbe il rinnovo del loro mandato, la difesa di posizioni di parte cadrebbe nel vuoto, e non potrebbe essere premiata in alcun modo alla scadenza del loro servizio presso la Corte. Per questioni di età o di decenza non sono particolarmente noti casi di ex giudici costituzionali che si impegnano nella vita politica attiva.

 

Guardare fin dove è possibile dentro la Corte, come ogni organo giudiziario tenuta al tempo stesso all’obbligo della motivazione e al segreto della deliberazione, può solo aiutare i cittadini a capirne il ruolo. Così come fa bene alla Corte andare nelle carceri e nelle scuole, invece di restar chiusa sulla bellissima collina alta del Quirinale.