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Le carceri siamo noi

Riccardo De Vito

Non ci sarà più sicurezza, più libertà e più salute se lasceremo a se stesso il sistema penitenziario. Riflettere

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Circola una metafora per descrivere lo stato degli italiani in guerra contro il virus maledetto: la reclusione. Non è abusata, perché è la prima volta che le generazioni successive alla seconda guerra mondiale si confrontano con l’orizzonte del coprifuoco. La pazzia di Dio, questa volta, non ha preso la forma delle trincee e degli aeroplani. Farà meno morti, ma non sappiamo quando concederà l’armistizio. C’è una condizione in queste ore che, più di tutte, accomuna liberi e detenuti. Non è il domicilio coatto, ma la perdita di controllo sulla propria vita, la dipendenza da altri. Vedere o non vedere un figlio, una madre e un padre o un amore non dipende più da noi. Allo stesso modo, la perdita della possibilità di decidere su sé stessi e sulla gestione dei pochi residui di libertà è la quintessenza della reclusione in carcere. I diritti nell’ordinamento penitenziario vivono attraverso le mediazioni dell’istituzione totale. Sentire un parente al telefono, ottenere una visita medica, acquistare beni di prima di necessità sono azioni che devono passare per una domanda del ristretto e attraverso una risposta dell’autorità.

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Circola una metafora per descrivere lo stato degli italiani in guerra contro il virus maledetto: la reclusione. Non è abusata, perché è la prima volta che le generazioni successive alla seconda guerra mondiale si confrontano con l’orizzonte del coprifuoco. La pazzia di Dio, questa volta, non ha preso la forma delle trincee e degli aeroplani. Farà meno morti, ma non sappiamo quando concederà l’armistizio. C’è una condizione in queste ore che, più di tutte, accomuna liberi e detenuti. Non è il domicilio coatto, ma la perdita di controllo sulla propria vita, la dipendenza da altri. Vedere o non vedere un figlio, una madre e un padre o un amore non dipende più da noi. Allo stesso modo, la perdita della possibilità di decidere su sé stessi e sulla gestione dei pochi residui di libertà è la quintessenza della reclusione in carcere. I diritti nell’ordinamento penitenziario vivono attraverso le mediazioni dell’istituzione totale. Sentire un parente al telefono, ottenere una visita medica, acquistare beni di prima di necessità sono azioni che devono passare per una domanda del ristretto e attraverso una risposta dell’autorità.

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Questa similitudine, tuttavia, funziona al momento a senso unico. Leggiamo spesso che, nello stato di eccezione che vale addirittura per i liberi, sono i detenuti a dover comprendere quanto le limitazioni che gli sono state imposte – niente colloqui visivi, niente uscite dal carcere – siano giustificate. E lo sono, per carità. Per capire di più della situazione carceraria ai tempi del coronavirus, però, occorre cambiare prospettiva, girare il cannocchiale. Vedremmo subito che qualcosa, in quella immedesimazione, si sgretola e che il nostro #iorestoacasa è ben altra cosa dal permanere nei confini di una cella. La cifra della distanza si misura oggi sull’emozione primaria della paura, liquida e pervasiva fuori, viscosa dentro le mura. Prorompe da una realtà che, giorno dopo giorno, si muove secondo regole opposte a quella della prevenzione nel mondo dei liberi: nessuna distanza di sicurezza possibile nella promiscuità forzosa delle camere multiple, dove tre metri quadri paiono oro; niente soluzioni idroalcoliche, niente mascherine; assistenza medica ridotta all’osso, per non parlare della medicina dell’emergenza; condizioni igieniche spesso precarie e comunità detenuta affetta dalle patologie di chi vive al margine. Nessuna possibilità, poi, di tenere il mondo di fuori sull’uscio. Per far funzionare l’istituzione ogni giorno migliaia di persone entrano ed escono dal carcere.

 

 

Se il virus dovesse varcare il muro di cinta come sarebbe possibile, poi, garantire l’isolamento in un sistema di 47 mila posti effettivi e di oltre 61 mila detenuti? Questa domanda esige risposte, ben oltre quelle che sono state date con la possibilità di aumentare oltre ogni limite le telefonate e le videochiamate. Il carcere italiano ha bisogno di spazio e di elasticità di gestione. Ha bisogno di poter isolare e separare eventuali positivi, di gestire cure all’interno nella malaugurata ipotesi che il virus vi metta piede, di liberare reparti per spostare le persone e garantire ingressi controllati, di lavorare con meno pressione sui detenuti e sugli operatori. La magistratura sta già lavorando in questa direzione con le norme esistenti, l’avvocatura penalistica fa proposte ragionevoli e condivisibili, così come il mondo delle associazioni e il Garante nazionale. Urgono scelte del decisore politico. Un primo passo potrebbe arrivare dal decreto-legge approvato in queste ore, con lo snellimento di un istituto già presente nell’ordinamento (l’esecuzione delle pene presso il domicilio di pene inferiori a 18 messi). Ma è solo un primo passo. Per giustificare misure normative dovrebbe bastare l’argomento della salute dei reclusi: in democrazia la pena si prende il tempo e l’anima dei condannati, ma non deve ghermire la loro salute.

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E’ triste (ma realistico) pensare che questo principio, in tempi di passioni punitive, non faccia breccia nella politica e nell’opinione pubblica. Si consideri, allora, che il carcere potrebbe rovesciare il contagio all’esterno, moltiplicato, e che l’esigenza di cura potrebbe riversarsi sulla sanità esterna già intasata. O, ancora, che tutto quello che non faremo adesso in modo controllato e ragionevole – anche in tema di scarcerazioni delle persone meno pericolose –, potremmo doverlo fare in modo casuale sotto la spinta dell’emergenza. Mettere testa al carcere è un dovere nei confronti di tutti. Torniamo alla metafora. Dovrebbe insegnarci che la galera ci riguarda da vicino; che c’è un “noi”, rinchiuso, di cui è fondamentale prendersi cura. Dieci anni dopo la Grande depressione del ’29, le pagine di The Grapes of Wrath avvertivano: il fatto di possedere vi congela per sempre in “io” e vi separa per sempre dal “noi”. Su questa strada non c’è salvezza per nessuno. Non ci sarà un di più di salute, di libertà, di sicurezza per i liberi, se il sistema penitenziario verrà lasciato a sé stesso, coperto dal silenzio.

 

Riccardo De Vito è presidente di Magistratura Democratica

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