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Kafka 2020. Un’indagine contro, un processo infinito: parla Mario Landolfi

Ermes Antonucci

L’ex ministro assolto dall’accusa di essere colluso con la camorra

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Roma. “Non so quante volte, in tutti questi anni, ho ascoltato su YouTube le dichiarazioni conclusive di Enzo Tortora nel suo processo. Le so a memoria. Oppure quante volte ho letto Il processo di Franz Kafka. L’innocente che finisce in tribunale ha due riferimenti: Tortora e Kafka. Loro mi hanno accompagnato, li ho tenuti sempre parcheggiati nel mio cervello”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Mario Landolfi, ex ministro delle Comunicazioni nel terzo governo Berlusconi ed ex esponente di spicco di Alleanza nazionale e poi del Popolo della Libertà. Lo scorso 23 dicembre è caduta l’accusa infamante che per dodici lunghi anni ha devastato la sua vita, ponendo anche fine alla sua carriera politica: quella di essere colluso con la camorra. Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere lo ha assolto dalle accuse di truffa e favoreggiamento mafioso, per le quali la Dda di Napoli aveva chiesto una condanna a tre anni e sei mesi. Una vicenda giudiziaria paradossale, che sembra ispirarsi proprio al caso Tortora e al romanzo di Kafka. Dal primo sembra aver tratto l’accusa (la mafia), l’accusatore (la procura di Napoli) e il metodo (l’utilizzo di pentiti), dal secondo sembra aver ripreso i meccanismi assurdi che spesso caratterizzano la giustizia, specie in Italia: un’indagine avviata nel 2007, un processo cominciato nel 2012 e una sentenza di primo grado giunta dopo addirittura sette anni di dibattimento, con l’imputato che pur di essere giudicato rinuncia alla prescrizione.

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Roma. “Non so quante volte, in tutti questi anni, ho ascoltato su YouTube le dichiarazioni conclusive di Enzo Tortora nel suo processo. Le so a memoria. Oppure quante volte ho letto Il processo di Franz Kafka. L’innocente che finisce in tribunale ha due riferimenti: Tortora e Kafka. Loro mi hanno accompagnato, li ho tenuti sempre parcheggiati nel mio cervello”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Mario Landolfi, ex ministro delle Comunicazioni nel terzo governo Berlusconi ed ex esponente di spicco di Alleanza nazionale e poi del Popolo della Libertà. Lo scorso 23 dicembre è caduta l’accusa infamante che per dodici lunghi anni ha devastato la sua vita, ponendo anche fine alla sua carriera politica: quella di essere colluso con la camorra. Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere lo ha assolto dalle accuse di truffa e favoreggiamento mafioso, per le quali la Dda di Napoli aveva chiesto una condanna a tre anni e sei mesi. Una vicenda giudiziaria paradossale, che sembra ispirarsi proprio al caso Tortora e al romanzo di Kafka. Dal primo sembra aver tratto l’accusa (la mafia), l’accusatore (la procura di Napoli) e il metodo (l’utilizzo di pentiti), dal secondo sembra aver ripreso i meccanismi assurdi che spesso caratterizzano la giustizia, specie in Italia: un’indagine avviata nel 2007, un processo cominciato nel 2012 e una sentenza di primo grado giunta dopo addirittura sette anni di dibattimento, con l’imputato che pur di essere giudicato rinuncia alla prescrizione.

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“Un’assoluzione piena mascherata”, la definisce oggi Landolfi. Mascherata perché la sentenza, pur avendo cancellato l’accusa principale, alla fine ha comunque partorito una condanna a due anni per corruzione, senza menzione nel casellario giudiziario e pena sospesa. “E’ come se i giudici avessero lasciato un messaggio nella bottiglia: ‘Non potevamo fare di più’”, commenta l’ex ministro. Come se i giudici, cioè, dopo aver demolito l’aggravante mafiosa, non se la siano sentiti di sconfessare completamente il quadro accusatorio portato avanti per tutti questi anni dalla procura.

 

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“Ho avuto la sensazione che sia stata condotta un’indagine contro di me, piuttosto che su di me – racconta ora Landolfi – L’ho avuta leggendo le carte, non della procura, ma degli investigatori, degli annotatori, di coloro che trascrivevano le telefonate e, attraverso salti logici, conclusioni arbitrarie e travisamenti palesi, hanno adombrato una mia responsabilità rispetto a un fatto di paese”.

 

E in effetti di fatto di paese sembra trattarsi: all’ex ministro la procura antimafia contesta di aver fatto dimettere nel 2004 un consigliere comunale di Mondragone, Massimo Romano (a poche settimane dallo scioglimento naturale del consiglio comunale), in cambio dell’assunzione (per tre mesi) della moglie nell’azienda dei rifiuti, con l’obiettivo di far entrare in consiglio una persona che avrebbe aiutato l’allora sindaco Ugo Conte, di centrodestra, a tenere la maggioranza e permettere alla camorra di continuare a gestire il Consorzio rifiuti Caserta4 (Ce4).

 

Negli atti, però, nulla dimostra il coinvolgimento di Landolfi. Neanche le intercettazioni, non autorizzate dal Parlamento, ma che Landolfi rende pubbliche, prima online e poi facendosi esaminare in aula dai pm. Ecco, così, che spunta il pentito: Giuseppe Valente, ex presidente del Consorzio Ce4. Nel 2014, quindi dopo sette anni dall’inizio delle indagini, mentre sta scontando un anno di residuo di pena ed è pure in attesa di una sentenza della Cassazione su una doppia condanna con aggravante mafiosa, comincia a parlare, accusando Landolfi e anche l’ex deputato del Pdl Nicola Cosentino, che poi sarà condannato in primo grado a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Due mesi dopo la collaborazione, Valente viene scarcerato. I giudici, in seguito, riterranno le sue dichiarazioni contraddittorie e infondate. “E’ una persona che ha barattato la verità per la libertà”, spiega Landolfi.

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L’accusa di essere colluso con la camorra, però, nel caso di Landolfi è caduta dopo oltre un decennio di umiliazioni e sofferenze. “E’ come avere una malattia grave con la quale coesistere. Non vivi più, non si può vivere. Pensi solo a quello, diventi monomaniacale”, confida Landolfi, che ha deciso di rinunciare alla prescrizione: “L’essere stato imputato con l’aggravante mafiosa mi imponeva, per rispetto di me stesso, della mia famiglia, ma anche dei miei elettori, di non affidare al solo decorso del tempo la prova della mia onestà politica, morale e personale”. Nonostante ciò, per arrivare alla sentenza di primo grado (che ora sarà impugnata dai legali di Landolfi, gli avvocati Emilio Nicola Buccico e Michele Sarno, per ottenere un’assoluzione piena) ci sono voluti ben sette anni. E pensare che ora la riforma Bonafede ha pure abolito la prescrizione dopo il primo grado. “Ciò che trovo assolutamente barbarico è abolire la prescrizione senza prendere in considerazione il contesto del processo penale. Neanche Attila avrebbe fatto una cosa del genere – dichiara Landolfi – Tutto ciò per volontà del M5s, cioè di un partito che ormai nel paese conta molto poco in termini elettorali, e che proprio in virtù di questa consapevolezza batte terribili colpi di coda”.

 

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La verità, prosegue l’ex ministro, è che in Italia “c’è uno squilibrio di poteri” tra magistratura e politica. “E qui – aggiunge – Berlusconi è colpevole per non aver commesso il fatto. Invece di fare i lodi, poi bocciati dalla Corte costituzionale, avrebbe dovuto ripristinare l’articolo 68 della Costituzione, per rimettere in equilibrio i poteri”.

 

Nel frattempo, la vita di Landolfi è stata stravolta. Da sei anni l’ex deputato è tornato a svolgere l’attività di giornalista al Secolo d’Italia, facendo il pendolare tra Mondragone e Roma. “Ovviamente sapevo che prima o poi la carriera parlamentare sarebbe finita, ma avrei preferito che fosse finita diversamente. Mi consola un po’ il fatto che non sia stato bocciato dagli elettori, ma che sia stato escluso dalla nomenklatura di partito”.

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