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La Donna che difende il mostro

Marina Valensise

Per il tribunale del popolo è già condannato. Per Donna Rotunno, Weinstein è innocente fino a prova contraria

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Ci voleva una donna per cercare di sottrarre Harvey Weinstein all’isteria dell’opinione pubblica, e riportarlo in tribunale sui binari del giusto processo. E infatti, accusato da decine di donne di violenza sessuale, l’ex fondatore della Miramax si è scelto come avvocato una donna per presentarsi sul banco degli imputati davanti alla Corte suprema di New York. Alta, bruna, slanciata, capelli lunghi, naso prominente, mascella squadrata, nonostante la bisaccia che le pende sul fianco, Donna Rotunno è apparsa in tv mentre lo segue come un’ombra camminando lentamente dietro di lui sui tacchi a stiletto. Afferra il deambulatore per sollevarlo, mentre Weinstein, sguardo assente e barba sfatta, arranca sui gradini del palazzo di giustizia, aggrappandosi al mancorrente. Se l’ex capo della Miramax, condannato su scala planetaria dal #MeToo per gli abusi sessuali, è la perfetta incarnazione della caduta di un potente, ridotto a un vecchio claudicante spezzato dal dolore, il suo avvocato, modi sportivi e portamento regale, sembra la personificazione del fair play, del rispetto delle regole, dell’ossequio a una norma superiore…

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Ci voleva una donna per cercare di sottrarre Harvey Weinstein all’isteria dell’opinione pubblica, e riportarlo in tribunale sui binari del giusto processo. E infatti, accusato da decine di donne di violenza sessuale, l’ex fondatore della Miramax si è scelto come avvocato una donna per presentarsi sul banco degli imputati davanti alla Corte suprema di New York. Alta, bruna, slanciata, capelli lunghi, naso prominente, mascella squadrata, nonostante la bisaccia che le pende sul fianco, Donna Rotunno è apparsa in tv mentre lo segue come un’ombra camminando lentamente dietro di lui sui tacchi a stiletto. Afferra il deambulatore per sollevarlo, mentre Weinstein, sguardo assente e barba sfatta, arranca sui gradini del palazzo di giustizia, aggrappandosi al mancorrente. Se l’ex capo della Miramax, condannato su scala planetaria dal #MeToo per gli abusi sessuali, è la perfetta incarnazione della caduta di un potente, ridotto a un vecchio claudicante spezzato dal dolore, il suo avvocato, modi sportivi e portamento regale, sembra la personificazione del fair play, del rispetto delle regole, dell’ossequio a una norma superiore…

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L’avvocato di Chicago dalla reputazione di ferro che ha vinto decine di processi in casi analoghi è stata arruolata a fine maggio

Al centro dallo scandalo scoppiato tre anni fa, quando l’inchiesta del New Yorker ha dato voce alle sue presunte vittime – attrici, star del cinema, starlette e aspiranti tali, semplici ragazze, ma anche produttrici, assistenti, e semplici impiegate – Harvey Weinstein dunque ha voluto affidare la sua difesa proprio a lei, l’avvocato di Chicago dalla reputazione di ferro che aveva vinto decine di processi in casi analoghi. Weinstein l’ha arruolata a fine maggio, dopo che altri tre principi del foro hanno gettato la spugna. Il primo, Benjamin Brofman, difensore di Dominique Strauss Kahn nel 2011 nel processo per lo stupro della cameriera del Sofitel, risolto con un risarcimento milionario, si è dimesso in gennaio, dopo aver ottenuto per il suo cliente il rilascio su cauzione versando un milione di dollari. Il secondo, Ronald Sullivan, travolto dalle critiche dei suoi studenti di Harvard dove era il preside della Whintrop House, si è ritirato in primavera, ma ha perso il posto all’università, pur avendo rinunciato al mandato di Weinstein. Il terzo a dare forfait è stato José Baez. L’avvocato di Miami era riuscito nell’impresa di scagionare Casey Anthony, una specie di Franzoni di Orlando, “la madre che tutta l’America odia”, dall’accusa di aver ucciso la figlioletta di due anni e mezzo e di averne gettato il cadavere in un bosco, nascosto dentro un sacchetto di plastica. Ma non ha saputo tener testa alle manie ossessive di un cliente esigente come Weinstein, aduso a tempestare di email i suoi avvocati e a piombare nottetempo e d’improvviso nei loro studi.

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Alla fine, per sostituire quei calibri da 90, Weinstein ha scelto una donna che è soprattutto un avvocato d’assalto: “Mi occuperò del suo caso, solo se posso esserle utile”, ha promesso all’inizio Donna Rotunno. Poi però, sbarcata a New York per incontrare il suo cliente, quando ha visto che Weinstein si rimetteva interamente a lei (“He said to me ‘It seems like you’re a really good person’”) e le dava carta bianca, proponendole di nominare lei stessa la sua nuova squadra (che formerà con Damon Cheronis di Chicago e Arthur Aidala di New York) e accettando di raccontarle tutto per filo e per segno e di passare al setaccio ogni singolo rapporto con le sue accusatrici, per dimostrarne la natura consensuale dei loro scambi sessuali, e confessandole vita morte e miracoli non senza metterle in mano un assegno astronomico, Donna Rotunno è passata all’azione.

 

Per prima cosa, ha iniziato a rilasciare una serie di interviste, per spiegare con piglio supersexy e voce roca la sua idea di giustizia e la sua strategia. Ogni cittadino ha diritto a un giusto processo, persino gli assassini e i peggiori criminali vanno giudicati in tribunale, sulla base di prove certe e irrefutabili. Nessuno deve essere considerato colpevole a priori, perché per tutti, finché non c’è una sentenza di condanna, vale la presunzione di innocenza. Ora, a parte l’isteria planetaria fomentata dal movimento nato proprio dal caso Weinstein, nei reati sessuali i confini tra accusa e condanna sono labili. Perciò urge la pedagogia: “La violenza sessuale è l’unico reato in cui qualcuno può essere accusato senza prove, solo in base alla parola di un altro”, insiste Donna Rotunno. “Se mi presentassi dalla polizia e dicessi, ‘John Doe mi ha venduto nove chili di cocaina’, senza però mostrare né la coca, né soldi e uno straccio di prova di ciò che dico, nessuno mi crederebbe. Se però vado dalla polizia e dico ‘John Doh mi ha violentato’, non mi chiedono altro e mi prendono in parola”, spiega l’avvocato con la pacatezza invincibile della donna di sicura bellezza. E’ per questo che il giusto processo, oltre l’imparzialità del giudice e della giuria, richiede il vaglio accurato di ogni singola prova, e addirittura della costituzione del fatto passibile di diventare una prova, disciplina in cui Donna Rotunno pare eccellere al punto da difendere il proprio vantaggio comparativo: “Un uomo può anche essere un bravo avvocato, ma se interroga una donna con lo stesso accanimento che uso io, passa per un bruto. Mentre io da donna risulto molto più efficace”, ha detto provocando le critiche delle presunte vittime, la reprimenda del procuratore Joan Illuzzi Orban e la protesta di Gloria Allred, avvocato della controparte.

 

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“E’un bulldog in tribunale”, dice di lei un suo cliente famoso come l’avvocato Stanley Stallworth, socio del prestigioso studio Sidley Austin. Donna Rotunno è riuscita a farlo assolvere da ogni addebito dopo l’arresto spettacolare che aveva subito quasi in diretta tv, in seguito alla denuncia di un tizio che sosteneva di essere stato portato nella casa di Stallworth, si era ubriacato ed era stato aggredito sessualmente: “Donna ha fatto un lavoro superlativo. E’ estremamente preparata ed è un difensore aggressivo che ogni giorno porta in aula un lavoro eccellente. Sa benissimo cosa serve ai clienti non solo in termini legali, ma soprattutto quando, coinvolti di persona, non riescono a riflettere con chiarezza e hanno bisogno di sostegno emotivo. Lei sa sempre quando è il caso di spingere, e quando invece è meglio fermarsi”.

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Al processo di New York ci sono due sole vittime. La prima è Mimi Haleyi, l’ex assistente. La seconda è protetta dall’anonimato

Lo confermano i tratti esteriori di sicurezza che l’avvocato Rotunno sembra prediligere col suo look da virago, ostentando giubbetti aderenti, gonne a tubino, abiti a vita stretta di Maria Pinto, stilista preferita di Michelle Obama e Oprah Winfrey, corredati spesso da voluminose collane a maglie larghe di Ferragamo, per infondere, come dice lei, un senso di forza e di femminilità. Insomma è il caso di rassicurare e intimidire, come si conviene a una quarantenne borghese di famiglia cattolica, come lei, nata a Wheaton, comune a 30 chilometri da Chicago, da una solida coppia sposata da cinquant’anni – padre imprenditore, madre professoressa di matematica – e cresciuta nel culto del giusto processo. E’ lei stessa a raccontare come sin da piccola avesse il pallino garantista. Da ragazzina rimase ipnotizzata da “Codice d’onore”, il film di Rob Reiner in cui Demi Moore e Tom Cruise, alle prese con la difesa disperata di due marines incriminati per la morte di un commilitone, riuscivano a farli dichiarare non colpevoli, facendo arrestare il comandante, Jack Nicholson, dopo un drammatico interrogatorio nel corso del quale aveva ammesso di aver dato lui stesso l’ordine di dare al poveretto una lezione. Quel giorno, Donna Rotunno decise di “diventare una voce per chi si trova ad affrontare una situazione difficile”. Diplomata a pieni voti al College Kent of Law, è riuscita a farsi una reputazione di ferro, vincendo quaranta processi nell’arco di 17 anni di carriera, e riuscendo a fare assolverle tutti quanti gli imputati, per lo più uomini, accusati di violenza sessuale.

 

La sua idea di giustizia: ogni cittadino ha diritto a un giusto processo, persino i peggiori criminali vanno giudicati in tribunale

A dire il vero, tutti tranne uno, e cioè Demarco Whitley, un giovanotto di cui l’avvocato tiene ancora il ritratto nel suo ufficio del Rotunno&Giralamo Law Office, in Dearborn Street, fondato con due soci di origini italiane.

 

Quel ragazzo era un liceale che giocava nella squadra di football della Glenbard West High School, e a 17 anni, nel 2010, col suo amico e compagno di squadra Pierre Washington-Steel, fu accusato di stupro da una compagna di scuola quindicenne, che dichiarò di essere stata violentata da entrambi sull’auto del secondo, nel parcheggio di una chiesa a Rolling Meadows, sobborgo nella periferia nord di Chicago. L’avvocato Rotunno ottenne per il suo assistito un processo senza giurati, ma la notte della prima udienza l’amico del liceale ebbe un incidente d’auto e morì. Il difensore si attenne scrupolosamente al suo metodo: esame esasperato di ogni singola prova a carico, vaglio meticoloso di ogni singolo dettaglio che costituisce gli elementi di prova, controinterrogatorio implacabile dei testi d’accusa, secondo la procedura americana, in cui, come sanno i patiti dei telefilm di Perry Mason e delle nuove serie di culto tipo “The Good Wife”, prerogativa della difesa è di concorre direttamente alla ricerca di indizi e prove, nonché alla costituzione dei testi, prima di procedere alla controdeduzione di ogni elemento a carico e della loro pertinenza logico-giudiziaria. Fu così che, in quel processo per stupro contro il liceale della Glenbard Westh High School, concentrandosi sugli elementi di fatto, insistendo sull’assenza di tracce di resistenza, rilevando per esempio l’assenza di lividi e graffi dal corpo della parte lesa, la difesa sostenne la tesi del rapporto consensuale, tanto più che la ragazza non aveva nemmeno cercato di uscire dall’auto e addirittura si fece riaccompagnare a casa dai due ragazzi. L’argomento, per quanto dirimente, non convinse il giudice. Demarco Whitley fu condannato a 16 di carcere. Per Donna Rotunno fu l’unica causa persa in quasi vent’anni di carriera e ancora lo smacco la tormenta: “Lo vivo ancora come un fardello sulle mie spalle”, ha ammesso nell’intervista del 2018 al Chicago Magazine, in cui confessa di rimpiangere di essere ricorsa al bench trial, facendo a meno dei giurati: “Pensavo che il giudice avrebbe capito il potenziale di severità della pena, mentre la giuria forse non ne era al corrente”. E invece no. Anche per questo oggi l’avvocato Rotunno ha cambiato idea, convinta com’è che una giuria avrebbe avuto maggiore comprensione per l’imputato, guardando alla vittima con più discernimento.

 

Demarco Whitley fu condannato a 16 anni di carcere. Per Donna Rotunno fu l’unica causa persa in quasi vent’anni di carriera

Non per niente, da quando è iniziato il processo contro Harvey Weinstein, Donna Rotunno si è battuta per assicurare l’imparzialità nella selezione dei 12 giurati. Dei 120 potenziali membri della giuria, convocati il primo giorno del processo, due terzi si sono ritirati dopo aver riconosciuto di non poter essere in grado di un giudizio imparziale, e 45 sono stati rimandati a casa con un questionario. Intanto in aula continuano le scaramucce. I legali di Weinstein hanno chiesto al giudice di recusarsi per i commenti pregiudizievoli e incendiari usati nei confronti dell’imputato, sorpreso a smaneggiare il telefonino, e per questo minacciato di finire galera. Ma il giudice James Burke ha respinto la richiesta. “Non c’è niente di pregiudizievole nel rimproverare un imputato che viola gli ordini della corte”.

 

Nonostante il clamore dello scandalo e la pioggia di accuse da parte di 87 donne, alla fine della fiera, tenuto conto della ritrattazione per mancanza di prove, dei patteggiamenti e dei 25 milioni di risarcimento versati a una trentina di accusatrici, Hervey Weinstein a New York dovrà rispondere di due accuse di stupro, di reati sessuali e altri due capi di imputazione per aggressione predatoria nei confronti di due sole vittime. La prima è Mimi Haleyi, l’ex assistente da lui costretta nel 2006 a subire un cunnilingus nella sua stanza d’albergo, la seconda, protetta dall’anonimato, lo accusa di averla violentata nel 2013. I difensori di Weinstein hanno chiesto che la giuria restasse al riparo dei clamore dei media, per evitarne un’influenza pregiudizievole al giusto processo. Ma il giudice Burke ha respinto la richiesta.

 

Il primo giorno del processo, la procura di Los Angeles ha annunciato un’altra incriminazione per Weinstein, accusato di aver violentato due donne nel 2013, e ha chiesto una cauzione di 5 milioni di dollari: “Non vogliamo interferire col processo di New York”, ha detto il procuratore Jackie Lacey, ma era proprio quanto la tempistica del suo annuncio stava a dimostrare, vanificando gli sforzi da parte della difesa per tenere separato il processo davanti al tribunale dell’opinione pubblica da quello che doveva celebrarsi davanti alla legge. Missione impossibile a detta di alcuni, sfida tanto coraggiosa quanto necessaria, a detta di altri. In entrambi i casi al centro dell’impresa c’è una donna che anche a rischio di essere sommersa da un’ondata di insulti sui social network, è pronta a dar battaglia per difendere il suo cliente, “vittima di una tempesta a senso unico”, e non ha paura di stigmatizzare il tentativo dei media e degli attivisti del #MeToo di distruggere non solo la reputazione di un uomo, condannandolo a priori come colpevole, quando fino a prova contrario è innocente, ma la stessa possibilità di un giusto processo, con effetti funesti per tutti, uomini e donne, che non potranno più essere se stessi: “Ho la sensazione che le donne rimpiangeranno il giorno in cui tutto questo è cominciato, quando nessuno le inviterà più a uscire, nessuno terrà loro la porta aperta, e dirà loro che sono belle”.

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