Il Palazzo di giustizia di Bari a fine maggio è dichiarato inagibile. Spostata parte delle attività in altre sedi, è allestita anche una tendopoli. Il 7 giugno arriva il ministro Bonafede (foto LaPres

Giustizia in tenda

Ermes Antonucci

Quando non piove, perché allora è anche peggio. La grottesca situazione che paralizza la macchina giudiziaria a Bari, un fallimento gialloverde

La farsa che si sta consumando attorno al Palazzo di giustizia di Bari costituisce probabilmente il primo, e più emblematico, fallimento del nuovo governo gialloverde in materia di giustizia. Un mix letale di dilettantismo, incapacità e arroganza che, oltre ad aver paralizzato la macchina giudiziaria del capoluogo pugliese (con conseguente sospensione della tutela dei diritti dei cittadini), ha gettato il nostro paese nella vergogna sul piano internazionale.

 

Ma ricapitoliamo. A fine maggio il palazzo di giustizia di Bari in via Nazariantz (che in tutto ospita 600 dipendenti tra giudici, procuratori, cancellieri e personale amministrativo) viene dichiarato inagibile per rischio crollo. Una relazione tecnica commissionata dall’Inail, proprietaria dello stabile, evidenzia infatti “criticità strutturali” nelle fondamenta e nei solai. Esplode l’emergenza, dopo decenni di segnalazioni sulle cattive condizioni dell’edificio rimaste inascoltate. Il sindaco Antonio Decaro ordina lo sgombero della struttura entro il 31 agosto.

 

Giugno, la macchina continua a girare ma a vuoto: vengono celebrate 200 udienze al giorno, solo di rinvio a date fantomatiche

Le udienze dei processi con imputati detenuti vengono trasferite altrove, suddivise tra il vecchio palazzo di giustizia di piazza De Nicola (diventato sede della Corte d’appello e del Tribunale civile), l’aula bunker di Bitonto (a circa 15 chilometri di distanza) e l’ex sede distaccata di Modugno (distante 10 chilometri). Camion pieni di faldoni, carte e armadi lasciano il Palagiustizia per raggiungere le nuove sedi. Le udienze dei processi senza detenuti, invece, sono rinviate a data da destinarsi, in attesa di trovare un’altra sede.

 

Occorre però svolgere le udienze di rinvio, così ecco che nel parcheggio sterrato del palazzo pericolante la Protezione civile allestisce una tendopoli, neanche fossimo all’indomani di un disastro naturale. I tecnici montano tre tende (chiamate col nome tecnico di “tensostrutture” nel tentativo di mantenere un briciolo di dignità agli occhi dell’opinione pubblica, ma sempre tende sono). Quella più grande è di 200 metri quadri, mentre le altre due sono di 75 metri quadri (per capirci, gli spazi del Palagiustizia di via Nazariantz occupano una superficie di 14 mila metri quadri).

 

E’ il 28 maggio e ha inizio uno dei capitoli più imbarazzanti della storia della giustizia italiana. Decine di magistrati, avvocati, imputati e visitatori sono costretti ad assieparsi sotto le tende, tra zanzare e temperature che raggiungono i 40 gradi. C’è un gazebo per i controlli dei carabinieri. Ci sono fogli di carta attaccati con nastro adesivo con le indicazioni delle aule e persino con la scritta “La legge è uguale per tutti”, anche se ormai non ci crede più nessuno. Attorno, sparsi per la tendopoli, bagni chimici emanano fetore. Dentro le tende la macchina continua a girare, ma a vuoto: vengono celebrate 200 udienze al giorno, ma sono solo di rinvio a date fantomatiche, che nessuno sa se poi saranno effettivamente rispettate. Ovunque terra, pietre. Dopo due giorni un’altra beffa: in una tenda il personale ritrova peli, unghie ed escrementi di animali, probabilmente gatti. Altre polemiche.

 

Il 1° giugno, poche ore dopo il giuramento di fronte al capo dello stato, il nuovo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, mostra un segno di vita, ma è solo apparente. Incontra il sindaco Decaro, che riferisce: per il ministro l’emergenza del Palagiustizia “è una priorità e se ne occuperà già nelle prossime ore”.

 

Tutto tace però fino al 7 giugno, quando, dopo una settimana di forti proteste e manifestazioni da parte di toghe e avvocati, Bonafede si presenta sul posto per toccare con mano l’emergenza e dice: “Ci metto la faccia, mi prendo la responsabilità di guidare questo percorso, anche con la normativa d’urgenza quando sarà necessario. Ma non è necessario nominare qualcun altro. Ci sono io e intendo guidare la situazione personalmente”. Tradotto: nessuna nomina di un commissario ad hoc, capace di individuare un nuovo immobile grazie all’esercizio di poteri straordinari, come aveva chiesto a Bonafede lo stesso Consiglio superiore della magistratura.

 

Magistrati, avvocati, cancellieri e funzionari amministrativi continuano a lavorare spostandosi tra otto sedi diverse

E gli effetti di questa scelta si vedono, perché anche stavolta non succede niente. Anzi, piove sul bagnato. Il 15 giugno, mentre il ministero si dice ancora impegnato a cercare una sede alternativa al Palagiustizia, un nubifragio allaga completamente i tre tendoni allestiti dalla Protezione civile. E pensare che pochi giorni prima il Genio militare aveva effettuato anche un sopralluogo per valutare l’installazione di una pavimentazione in grado di evitare disagi in caso di maltempo, visto che le tende erano montate direttamente sul terreno. Puntuale, però, giunge la pioggia che rende inagibile persino la tendopoli, allestita per l’inagibilità della sede. Come se non bastasse, la pioggia si abbatte anche all’interno del Palagiustizia semi-abbandonato, inzuppando i fascicoli accatastati nei corridoi in attesa dello sgombero, i sotterranei e la sala intercettazioni. Le udienze di rinvio a quel punto vengono celebrate nell’atrio del palazzo di via Nazariantz (sempre teoricamente inagibile).

 

La situazione diventa sempre più umiliante, ma ecco che il 21 giugno – dopo che per un mese nella tendopoli si sono celebrate le udienze di rinvio di circa 4 mila procedimenti penali – interviene Bonafede. Il ministero avrà individuato una sede adatta dove spostare tutti e finalmente far tornare alla normalità l’attività giudiziaria? Assolutamente no. Il Consiglio dei ministri vara un decreto legge, predisposto dal Guardasigilli, che stabilisce la sospensione fino al 30 settembre di tutti i processi penali, in qualunque fase e grado, e dei termini processuali, inclusi quelli di prescrizione. Fanno eccezione i procedimenti che hanno carattere di urgenza (convalida arresto, giudizio direttissimo, convalida sequestri) o che sono a carico di imputati in stato di custodia cautelare, e quelli per i reati di mafia e terrorismo. Il governo, dunque, prendendo atto della propria incapacità, decreta ufficialmente la sospensione dell’attività penale (e, di conseguenza, della tutela dei diritti dei cittadini) nella terza città più popolata del sud.

 

Il ministro Bonafede non si mostra neanche consapevole della sospensione dei principi basilari dello stato di diritto, e anzi, senza alcun imbarazzo, celebra la decisione del governo come una conquista: “Avevo promesso che ci avrei messo la faccia e abbiamo emanato un decreto d’urgenza che sospende tutti i processi e i termini processuali, inclusi quelli di prescrizione, da qui fino al 30 settembre: a Bari non avranno bisogno di fare udienze nelle tende, una cosa inaccettabile per una repubblica democratica. Sono orgoglioso di questo provvedimento perché dà la dimostrazione di come, quando lavoriamo sulla giustizia in Italia, lo facciamo preoccupandoci dei problemi veri dei cittadini e degli addetti ai lavori”. E però, mentre non è nota (ma immaginabile) la reazione delle migliaia di cittadini che si sono visti sospendere i processi, gli “addetti ai lavori” a cui si riferisce Bonafede non sembrano per niente contenti: i magistrati confermano lo stato di agitazione e chiedono soluzioni concrete sulla nuova sede, i penalisti ipotizzano profili di incostituzionalità e attaccano l’“incauto interventismo” del Guardasigilli.

 

La conseguenza più paradossale della decisione del governo è che, nonostante la sospensione dei processi, le cancellerie del tribunale devono comunque continuare a lavorare (a vuoto) per predisporre le notifiche alle parti interessate (tra imputati, avvocati, parti offese e testimoni): almeno 5 mila notifiche a settimana, secondo quanto calcolato dagli addetti ai lavori, per comunicare agli interessati le nuove date di udienza. Una farsa completa.

 

Il 21 giugno il governo decreta la sospensione dell’attività penale, con qualche eccezione, nella terza città più popolata del sud

Ma lo spettacolo dell’assurdo non è terminato. La sospensione dei processi finisce a sua volta nelle aule di giustizia. I penalisti, tramite l’azione della Camera penale di Bari, si oppongono al decreto legge di sospensione dei processi presentando un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e una citazione per danni del ministero della Giustizia dinnanzi al giudice di pace di Bari (che ha sede in un palazzo – agibile! – nel quartiere San Paolo). Il primo ricorso, quello alla Corte di Strasburgo, trae origine dalla protesta dei giovani avvocati “costretti – spiega la Camera penale – a subire uno stop proprio all’inizio dell’attività e quindi a soffrire, da un lato, la perdita di guadagno e di opportunità lavorative e, dall’altro, l’infruttuoso esborso dei costi d’iscrizione alla Cassa previdenziale”. Sull’altro fronte, gli avvocati citano in giudizio il ministero a Bari ritenendo “ingiusto” che la situazione di sostanziale impedimento dell’attività professionale penale debba ricadere solo su di loro: “Gli altri operatori di giustizia, infatti, continuano a percepire regolarmente lo stipendio statale, mentre gli avvocati non possono avanzare richieste di pagamento ai propri clienti dato il rinvio delle udienze, e devono, per giunta, continuare regolarmente a sostenere i costi di gestione dello studio e a far fronte, come se nulla fosse accaduto, agli adempimenti verso la loro Cassa nazionale di previdenza”. L’udienza dinnanzi al giudice di pace viene fissata al prossimo 12 ottobre.

 

Il 9 luglio Bonafede, con una diretta Facebook, annuncia trionfante la risoluzione dell’emergenza: “Ho una bella notizia da dare. Abbiamo concluso la procedura necessaria all’individuazione dell’immobile che ospiterà gli uffici giudiziari di Bari”. Si tratta del palazzo dell’ex Inpdap in via Oberdan. “Lo abbiamo detto e lo abbiamo fatto, senza ricorrere ad alcun potere straordinario, né facendo ricorso ad alcun commissario, ma semplicemente seguendo le procedure ordinarie. Mentre gli altri criticavano noi stavamo lavorando”, aggiunge Bonafede rincarando la dose o, come dicono a Roma, sbracandosi. Ma anche stavolta lo fa troppo presto. In attesa di sapere (avendo scelto di percorrere la procedura ordinaria) l’esito dei controlli amministrativi e tecnici sulla sede selezionata, sono gli operatori del settore a sottolineare immediatamente l’inadeguatezza del palazzo di via Oberdan: non ci sono solo problemi di spazi (lo stabile è di circa 7 mila metri quadri, contro i 14 mila del Palagiustizia), ma anche di salute pubblica, essendo il palazzo vicino a un terreno sotto sequestro poiché non bonificato dall’amianto, e di sicurezza per lo spostamento dei detenuti, dal momento che lungo la via principale di accesso è presente nientedimeno che un passaggio a livello. “Tutti problemi ampiamente ed esaurientemente segnalati e che il ministero, ancora una volta, sembrerebbe non aver voluto ascoltare per ragioni che non è dato comprendere”, attacca la Camera penale di Bari.

 

Gli allarmi avanzati da avvocati e magistrati, però, rimangono inascoltati. Passa un altro mese e il 14 agosto, di punto in bianco, il ministro della Giustizia revoca l’aggiudicazione in favore dell’immobile ex Inpdap di via Oberdan. Il comunicato del Guardasigilli fa formalmente riferimento a un “esito negativo degli ordinari controlli amministrativi riguardanti il possesso dei requisiti e l’assenza di cause di esclusione” da parte della società che si era aggiudicata la gara, ma alla base c’è altro. Bonafede revoca l’ok alla nuova sede non tanto per i problemi evidenziati dagli addetti ai lavori, ma piuttosto per un articolo pubblicato da Repubblica che rimestava sul passato del proprietario dell’immobile scelto, Giuseppe Settanni, ritenuto vicino a clan mafiosi (seppur mai indagato per questo). Dopo oltre un mese e mezzo si riparte da zero, col rischio pure di ricorsi da parte di Settanni.

 

A questo punto il sindaco Decaro inizia a perdere la pazienza: “Ancora una volta avevamo ragione, quando abbiamo chiesto la procedura di urgenza con dichiarazione dello stato di emergenza, perché ritenevamo che la procedura ordinaria non ci avrebbe consentito di trovare una soluzione in tempi rapidi. Addirittura a due settimane dalla scadenza per lo sgombero di via Nazariantz non abbiamo l’edificio”. Il ministero della Giustizia è completamente nel pallone e si ritira nel silenzio. Passa un’altra settimana e Decaro chiede al governo la convocazione urgente di un tavolo per individuare una soluzione, senza risparmiare una frecciatina a Bonafede: “Almeno ci faccia una telefonata”.

 

La sospensione dei processi finisce a sua volta nelle aule di giustizia. I penalisti si oppongono al decreto e presentano un ricorso a Strasburgo

Il telefono di via Arenula resta silente, così il 27 agosto, a poche ore dalla scadenza per lo sgombero definitivo del Palagiustizia (dove alcuni magistrati continuano a lavorare, non avendo alternative), il comune di Bari concede una proroga di quattro mesi allo sgombero, sulla base di una nuova perizia che evidenzia come il rischio crollo della struttura di via Nazariantz si sia notevolmente ridotto grazie all’alleggerimento dei piani superiori dai carichi pesanti (armadi, fascicoli, casseforti). Esplode lo scontro tra comune e governo, con il Guardasigilli Bonafede che definisce “irresponsabile” Decaro, che a sua volta replica: “Qui l’unico che si sta prendendo responsabilità, anche al di fuori delle proprie competenze, sono io”.

 

Il trasferimento quindi è rimandato, anche se il Palagiustizia rimane in gran parte inagibile. La macchina giudiziaria resta uno spezzatino. Magistrati, avvocati, cancellieri e funzionari amministrativi continuano a lavorare spostandosi tra otto sedi diverse. Riassumendo (provate a non perdere il filo): i procuratori si rifiutano di abbandonare il Palagiustizia di via Nazariantz e continuano a lavorare lì; i cancellieri della procura sono nella sede di via Brigata Regina; i giudici e i rispettivi cancellieri si trovano nell’ex sede distaccata di Modugno, anche se alcuni giudici restano provvisoriamente allocati nella struttura di piazza De Nicola; alcune udienze continuano a svolgersi nell’aula bunker di Bitonto; i giudici di pace lavorano al quartiere San Paolo; il tribunale dei minori si trova in via Scopelliti; e poi, infine, c’è da andare nel carcere di via De Gasperi, per gli interrogatori e le convalide. A spostare il personale almeno da Bari a Modugno sono direttamente gli autobus della Polizia penitenziaria, fatti arrivare sul posto. Una commedia.

 

Si arriva al 4 settembre, quando il ministero della Giustizia, dopo la lunga serie di figuracce, comunica per la seconda volta l’aggiudicazione della gara per la nuova sede, che stavolta viene individuata nel palazzo ex Telecom in viale Saverio Dioguardi. Anche in questo caso, però, il trasferimento non è immediato, anzi. Da una parte, occorre seguire la procedura ordinaria e quindi effettuare i controlli tecnici sulla struttura e quelli amministrativi sulla proprietà (nella speranza che non intervengano impugnazioni e sospensive), dall’altra parte si viene a sapere che l’immobile selezionato (di circa 9.400 metri quadri, contro i 14 mila del Palagiustizia) è comunque occupato fino a novembre e solo successivamente potranno iniziare i lavori di adeguamento per ospitare gli uffici giudiziari. E la farsa, insomma, continua.

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