L'impianto petrolchimico di Siracusa

Siracusa ultima vittima del dogma ambientalista delle procure

Ermes Antonucci

I magistrati rilevano un “peggioramento della qualità dell’aria” e pongono sotto sequestro il petrolchimico

Roma. Alcuni giorni fa, i tre impianti di raffineria più importanti in Italia sono stati posti sotto sequestro preventivo dalla magistratura con l’accusa di inquinamento ambientale. Si tratta degli stabilimenti che compongono il polo petrolchimico di Siracusa: uno di proprietà della Esso, che fa capo alla multinazionale ExxonMobil, e gli stabilimenti Isab Nord e Isab Sud che invece sono di proprietà dei russi di Lukoil. Gli impianti lavorano circa 20 milioni di tonnellate di petrolio all’anno, dando lavoro a duemila persone, più – si stima – altre duemila persone di indotto. I magistrati della procura di Siracusa avrebbero accertato un “significativo contributo al peggioramento della qualità dell’aria dovuto alle emissioni degli impianti”, chiedendo e ottenendo per questo motivo dal gip il sequestro preventivo di tutto il polo, condizionando la possibilità di continuare la produzione all’adempimento di alcuni interventi di tipo ambientale. Il gip ha dato quindici giorni di tempo alle società per decidere se aderire alle prescrizioni contenute nel provvedimento di sequestro, prendere o lasciare. Se le aziende decidessero di non aderire potrebbero arrivare i sigilli e il blocco degli impianti.

 

  

Presunto inquinamento ambientale, sequestri preventivi, grancassa mediatica, rischio per l’impresa di chiudere i battenti. Il copione è noto, anche se sono meno noti i risvolti causati da queste inchieste sulla vita delle imprese, strozzate da imposizioni ambientali che poi, a distanza di anni, spesso si rivelano infondate, e basate in alcuni casi più su ragioni ideologiche pseudo-ambientaliste che su dati scientifici. Basta poco per far scattare il “caso”: la protesta di un comitato cittadino, una campagna indignata sui social network, il passaparola malizioso della piazza. Subito interviene la magistratura. “L’uso delle misure cautelari, come il sequestro preventivo, è diffusissimo nei casi di presunto inquinamento”, nota Francesco Bruno, tra i massimi esperti di diritto ambientale in Italia, docente all’Università La Sapienza e all’Università Campus Bio-Medico di Roma. “Il problema è che in questi casi le imprese sono tenute completamente all’oscuro: nel momento in cui la misura cautelare è emessa, l’impresa viene a sapere del blocco all’impianto e non vi è alcuna possibilità di aprire un confronto fra l’impresa e la magistratura sulla definizione delle attività che dovranno essere effettuate per non nuocere all’ambiente. Le imprese si ritrovano improvvisamente di fronte all’impossibilità di proseguire l’attività, con tutti i rischi che ne conseguono sul piano dell’occupazione”.

 

  

Una situazione di strapotere della magistratura che non ha eguali nei paesi più sviluppati, in particolar modo negli Stati Uniti: “Mentre in Italia – prosegue Bruno – sul piano della tutela dell’ambiente esiste un’organizzazione istituzionale frazionata e suddivisa fra vari livelli, tra governo centrale, regioni e comuni, con sovrapposizioni e contrasti, negli Stati Uniti esiste un’unica agenzia indipendente, l’Environmental Protection Agency (Epa). Nel caso in cui dovesse emergere una presunta violazione delle norme ambientali, l’Epa avvia una procedura aperta, pubblica, trasparente e di confronto diretto con l’impresa. In virtù di quanto previsto dal Freedom of Information Act (Foia), l’agenzia ha l’obbligo di negoziare con l’imprenditore gli obiettivi degli adeguamenti ambientali e di informare i cittadini su tutto ciò che avviene nel corso del procedimento. E’ una procedura molto più flessibile che consente all’imprenditore di potersi adeguare alla normativa tecnica”.

 

Insomma, negli Stati Uniti l’impresa sospettata di inquinamento non si trova improvvisamente schiacciata da imposizioni calate dall’alto dalla magistratura, spesso basate su una dubbia conoscenza scientifica della materia, ma si trova di fronte una procedura che prevede trasparenza, efficienza e certezza del diritto. “Trasparenza perché il Foia impone procedure aperte, in cui è sufficiente andare sul sito dell’Epa per sapere tutto ciò che avviene in maniera molto chiara. Efficienza perché l’Epa è estranea a una cultura e a un’organizzazione burocratica, e ha una struttura molto più snella e veloce della Pubblica amministrazione. Certezza del diritto perché c’è la possibilità di confrontarsi sull’applicazione delle misure tecniche e l’impresa è maggiormente tutelata rispetto all’adozione di possibili misure cautelari. La magistratura potrebbe entrare in gioco solo in un secondo momento, quando però le misure cautelari hanno ormai perso di senso, anche perché è la stessa Epa che può intervenire attraverso delle misure sospensive dell’attività produttive nel caso l’impresa si negasse al confronto”, spiega Bruno.

 

Quel che l’Italia dovrebbe imparare

 

Un modello replicabile in Italia? “Il nostro ministero dell’Ambiente ha già un organo tecnico, l’Ispra, che però è soltanto un ente di coordinamento delle varie agenzie regionali per la protezione dell’ambiente. Bisognerebbe costituire un’agenzia indipendente modello Epa, con propri poteri regolatori e anche sanzionatori, con cui le imprese possano dialogare per risolvere ogni controversia di carattere ambientale. In questo modo si fornirebbero anche le linee guida importanti ai consulenti tecnici delle procure e degli uffici dei tribunali, che a quel punto avrebbero indicazioni autorevoli a cui difficilmente potrebbero sottrarsi”.

 

In attesa che tutto ciò avvenga, la nostra giustizia lenta, sommaria e mediatica disincentiva gli investimenti dall’estero. In un convegno di qualche settimana fa sul rapporto tra giustizia e imprese, Simone Crolla, consigliere delegato della Camera di commercio americana in Italia, ha riportato un dato allarmante: “Fatto cento lo stock degli investimenti Usa nel mondo, l’Italia attira solo lo 0,8 per cento del totale”. Cioè niente. Visione confermata da Francesco Bruno per la sua esperienza di avvocato nell’importante studio legale internazionale Pavia e Ansaldo: “La prima cosa che chiedono gli investitori statunitensi, o comunque stranieri, è se sono salvaguardati dal punto di vista della materia giuslavoristica, la seconda è se lo sono sul piano della normativa ambientale, ormai considerata come un costo non preventivabile. La mancanza di certezza del diritto comporta una mancanza di certezza rispetto a possibili risvolti giudiziari”.

 

“Nel corso della mia esperienza – aggiunge Bruno – ho spesso dovuto raccogliere l’incredulità degli interlocutori americani rispetto a procedure, tempistiche e normative italiane”. Un esempio? “Una delle multinazionali più grandi al mondo ha una serie di procedure ambientali aperte in Italia. Il gruppo voleva investire nella bonifica di un’area, ma la procedura è stata bloccata perché l’impianto era collocato all’interno di un sito di interesse nazionale, che nel frattempo, attraverso un provvedimento nazionale, è stato trasformato in sito di interesse regionale, per poi ritornare, in seguito a una sentenza del Tar che ha annullato il provvedimento statale, a essere sito di interesse nazionale. Conclusione: la procedura di bonifica è ferma da sette anni”. Benvenuti in Italia.

Di più su questi argomenti: