Antonio Ingroia (foto LaPresse)

Parla Contrada: "Da Ingroia non voglio scuse, meglio il silenzio"

Annalisa Chirico

“Non riesco a gioire”, dice. Riavrà pensione e diritto di voto, non la vita

Roma. Gli restituiranno la pensione, il diritto di voto, forse un risarcimento per ingiusta detenzione. I venticinque anni di inferno in terra, quelli non torneranno indietro. “Mi sento un poco stralunato, sono confuso e non riesco a gioire. Mi hanno versato addosso una tanica di acido, la pelle brucia ancora”, l’uomo che risponde all’altro capo del telefono è l’ottantacinquenne Bruno Contrada. “Sono frastornato, non direi sollevato – racconta al Foglio l’ex dirigente del Sisde – Mi hanno devastato la vita, di che cosa dovrei rallegrarmi?”. La data d’inizio è 24 dicembre 1992. “Mi ammanettarono alla vigilia di Natale, con una coincidenza temporale che imprime un segno particolare all’intera vicenda. Gli inquirenti avevano messo sotto controllo il mio telefono, perciò sapevano che avrei trascorso il Natale a casa con i figli. Qual era l’urgenza? In tanti anni in polizia avevamo sempre evitato di arrestare una persona il giorno di Natale”.

   

Per la Cassazione la sentenza di condanna a dieci anni di carcere, che Contrada ha regolarmente scontato, era illegittima. L’ex capo della Squadra mobile di Palermo non doveva essere condannato né processato poiché, come ha stabilito la Corte europea di Strasburgo, all’epoca dei fatti a lui contestati il simil-reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era “chiaro, né prevedibile”. “Lei non sa che cosa vuol dire per un uomo dello stato che ha arrestato i mafiosi essere rinchiuso in una cella, alla stregua di un delinquente. Ho subìto privazioni e umiliazioni indicibili. La maggior parte degli uomini processati per concorso esterno hanno potuto affrontare il dibattimento a piede libero, senza l’onta gratuita della carcerazione preventiva. Io sono stato sbattuto in prigione. A Palermo il carcere militare fu riaperto soltanto per me, unico detenuto, con venticinque uomini adibiti alla mia vigilanza per quindici mesi. Avevo già trascorso due anni da recluso a Roma, senza poter mai incontrare mia moglie che, per via delle sue condizioni di salute, non era in grado di affrontare il viaggio dalla Sicilia”. 

“Ogni sera l’agente penitenziario mi serrava dentro, con una doppia mandata, come fossi un animale feroce. Ancora oggi, se sento una porta blindata che batte o un cancello che stride, sono sopraffatto dall’angoscia di quell’istante. Per un poliziotto, che ha servito le istituzioni con sacrificio e abnegazione, non vi è umiliazione più spietata che esser privato della libertà personale”. Giuliano Ferrara l’ha paragonato a Joseph K., il disperato eroe di Franz Kafka che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”. “Il direttore Ferrara è stato tra i pochi a comprendere l’ingiustizia che si stava consumando a causa dell’iniziativa infondata di una procura”.

  
Il suo grande accusatore fu l’allora pm Antonio Ingroia, poi aspirante presidente del Consiglio, oggi più modestamente avvocato. “Contrada era a totale disposizione di Cosa nostra”, ebbe a dire in aula nel corso della requisitoria. “Se lo incontrassi cambierei strada. Non mi attendo né desidero le sue scuse, preferisco il suo silenzio”. All’indomani dell’arresto, Luciano Violante, allora presidente della commissione parlamentare Antimafia, raffreddò gli entusiasmi affermando che l’accusa contro di lei si riferiva a un periodo antico, in cui i pentiti non c’erano e i poliziotti lavoravano grazie agli informatori. “Tutte le polizie del mondo si avvalevano di una rete di confidenti, i contatti con i mafiosi erano inevitabili. In cambio delle informazioni, non distribuivamo denaro ma elargivamo piccoli favori, come una raccomandazione per la licenza di venditore ambulante o la restituzione di una patente di guida. Per combattere la mafia non potevamo non avere contatti con i mafiosi. Soltanto così lo stato ha decapitato Cosa nostra”.

  

Nel processo non sono mancate le insinuazioni sul “tradimento” che lei avrebbe ordito alle spalle di Boris Giuliano, il poliziotto ucciso dalla mafia nel ’79. “Ho lavorato con Giuliano per sedici anni, fino al suo omicidio. Ci univa un rapporto fraterno che andava ben oltre l’amicizia e la colleganza professionale. Ci chiamavano Castore e Polluce, eravamo impegnati nelle stesse indagini, sempre in perfetta sintonia. In questi anni hanno alimentato infinite dicerie malevole sul mio conto, come quella secondo la quale il dottor Giovanni Falcone non si fidava di me. Sebbene avesse espresso più volte, anche per iscritto, giudizi positivi sul mio operato. Sospetti e illazioni non dovrebbero trovare spazio in un processo penale. Per fortuna tali falsità non sono mai state formalizzate in capi d’imputazione, pur alimentando la gogna mediatica che doveva rappresentarmi come un losco funzionario dei servizi deviati. In altre parole, sono servite a devastare la mia immagine pubblica, secondo un copione già in uso nei processi stalinisti degli anni Trenta contro gli eroi della Rivoluzione bolscevica. Io non sono mai stato uno 007, ho svolto la mia carriera nella polizia di stato, dal grado di vicecommissario in prova a quello di dirigente generale”. Lo stato che lei ha servito l’ha trattata come un colpevole fino a prova contraria.

  

“La pronuncia della Corte europea dei diritti umani ha segnato una svolta fondamentale, alla fine i giudici italiani hanno dovuto prenderne atto. A dispetto delle traversie che hanno risucchiato la mia esistenza e quella dei miei famigliari, ho conservato intatto il senso dello stato e delle istituzioni. A seguito della condanna, mi hanno negato la pensione e il diritto di voto. Ho affrontato la malattia, le spese legali e i gravi problemi economici senza chiedere nulla. Sulla pelle mi restano le cicatrici”. Ai suoi quattro nipotini potrà raccontare che il nonno è innocente. “La mia vita l’ho vissuta, me la lascio alle spalle con l’amara consapevolezza che poteva andarmi meglio. Presto o tardi passerò all’altro mondo, e lo farò da incensurato, con un casellario giudiziale intonso, come si addice a un onesto servitore dello stato. A futura memoria”. Se la memoria ha un futuro.

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