L'impresa in manette

Annalisa Chirico

Tra colpe presunte e sequestri preventivi, anche l’economia può essere inghiottita dal gorgo giudiziario. Storie di aziende e avventure imprenditoriali di successo sacrificate sugli altari della frenesia investigativa e del sacro dogma ambientalista

Esistono diversi modi per ammanettare un’impresa, l’arresto dell’amministratore delegato non è un passaggio obbligato. A fare notizia sono i casi nazionali arcinoti ma compulsando le cronache di provincia si scopre il mesto panorama dell’iniziativa economica privata vilipesa, contrastata, sepolta. Tutti ricordano la storia del polo siderurgico con metà degli addetti in cassa integrazione, di fatto espropriato ai legittimi proprietari ancor prima del rinvio a giudizio e monco d’investimenti per un miliardo e mezzo, a scopo bonifica, offerti sul piatto dagli imputati in un accordo siglato col pm ma non condiviso dal gip. Desta clamore la vicenda della centrale elettrica che chiude i battenti in nome della dittatura turboambientalista e di una fraintesa concezione del principio di precauzione, alibi perfetto per ammanettare un’impresa salvo poi apprendere, quando è ormai troppo tardi, che i tassi di inquinamento non sono quelli propagandati, lo stabilimento avrebbe potuto continuare a operare nel rispetto della legge. Solo in Italia la asbestos crisis, iattura latrice di morte e malattia per il massiccio ricorso all’amianto quando non se ne conoscevano ancora i perniciosi effetti per la salute umana, conduce a un procedimento penale, negli altri quaranta paesi dove pure essa si manifesta si imbocca la via pragmatica, non ideologica, dei risarcimenti in sede civile. Il processo penale finisce in un vicolo cieco, un costrutto senza sbocchi, eccezion fatta per la notorietà acquisita dalla pubblica accusa che coltiva sogni da procura nazionale per i reati ambientali. In pochi sanno che un colosso giapponese interessato a rilevare lo stabilimento piemontese, annusato il clima da Santa inquisizione anti-industriale, gira i tacchi e se ne va. Saluti a tutti.

Inutile rimuginare sul già noto, sugli arresti eclatanti come quello del citatissimo manager che, appresa dagli organi di stampa la notizia delle indagini a suo carico, sale su un aereo privato alle Antille e, con l’intento manifesto di collaborare con la giustizia, fa ritorno nel Belpaese, dove però lo attendono le manette preventive. Le storie che leggerete provengono dall’angusta provincia italica, sono vicende ignote, quelle che tengono con il fiato sospeso la gente del posto perché nel contado un’azienda che chiude i battenti significa opportunità di impiego che sfumano, famiglie che non riescono a sbarcare il lunario. Ammanettare un’impresa non è un pranzo di gala. Incriminare un imprenditore, mascariarne la reputazione a mezzo stampa in nome di una mera ipotesi accusatoria, disporre sigilli “in via cautelare” sono operazioni potenzialmente letali per il tessuto produttivo di una comunità. Mai dovrebbero evocare i tratti dell’incursione pilatesca, della prova di forza per mezzo dell’esercizio muscolare di un potere requirente imbevuto di cultura anticapitalistica, ispirato al sacro dogma ambientalista. L’ideologia dovrebbe star fuori dagli uffici giudiziari. Nel luglio 2015 il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, contribuendo a un dibattito avviato sulle colonne del Corriere della Sera in seguito ai sequestri preventivi di Ilva e Fincantieri, affermò quanto segue: “Cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie, il loro impatto sull’economia e sulla società non può più essere considerato un tabù”. Auspicando “un nuovo profilo di giudice autonomo e indipendente, dotato di una sensibilità capace di porlo in sintonia con le aspettative del paese e dei cittadini”, Legnini aggiunse che “se le sue decisioni producono conseguenze sistemiche, egli non può mai prescindere dalla previsione degli effetti del proprio rendere giustizia”.

Il giudice "non può mai prescindere dalla previsione degli effetti del proprio rendere giustizia" (Giovanni Legnini)

“Sta succedendo qualcosa di grande”, era il claim della campagna pubblicitaria del GrandApulia, il centro commerciale più esteso del sud Italia, tra Foggia e Borgo Incoronata. Doveva aprire i battenti lo scorso 30 novembre, era tutto pronto per il taglio del nastro quando qualcosa di molto grande, in effetti, è accaduto a cinque giorni dall’inaugurazione. I militari della Guardia di finanza insieme al Corpo forestale dello stato, su disposizione della procura foggiana, arrivano di buon mattino e sequestrano l’intera area, circa 72 ettari, su cui la società Finsud del gruppo Sarni ha investito oltre 60 milioni di euro. I sigilli provocano un terremoto nella comunità locale, per quasi mille persone GrandApulia significa il posto assicurato in uno dei 150 negozi, 80 attività commerciali, otto punti di ristorazione, sette strutture di vendita, otto sale cinematografiche. Gli inquirenti contestano l’omessa bonifica dell’ex sito industriale nei pressi del torrente Cervaro, si menzionano “evidenti risultanze derivanti dalle analisi delle acque sotterranee, tutte non conformi alle concentrazioni soglia”. Sarebbe stata realizzata inoltre una “discarica abusiva di rifiuti speciali in corrispondenza delle ex vasche di lagunaggio del sito industriale, riempite e livellate attraverso miscelazione e successivo tombamento del materiale derivante dalla demolizione di 107 immobili presenti sullo stesso sito industriale e dalla demolizione degli argini delle stesse vasche”, insieme ai rifiuti all’interno delle stesse e derivanti dai processi di decantazione nel tempo effettuati dall’ex zuccherificio. 

 

Sul fronte urbanistico, le contestazioni non sono più lievi: dal 2010, si legge nelle carte dell’inchiesta, un’imponente lottizzazione abusiva a fini edificatori commerciali sarebbe stata “scientemente portata avanti da Finsud mediante la frammentazione dell’area in più comparti e la parcellizzazione dei titoli edilizi con l’obiettivo di occultare l’unicità e l’inscindibilità dell’intervento edilizio”. Una sorta di “spacchettamento” che avrebbe consentito di eludere i vincoli – paesaggistico, idrogeologico, ambientale – sui terreni oggetto di edificazione. Il risultato è una doccia fredda: l’azienda annuncia il rinvio dell’inaugurazione a data da destinarsi, i primi contratti di formazione per i neoassunti sono rescissi, su Facebook compare il gruppo “Salviamo il GrandApulia” con centinaia di commenti di persone che, a pochi giorni dal debutto, vedono infrangersi il sogno di un’occupazione.

 

Sul social network un utente racconta di aver visto al mattino gli operai che accedevano all’area per completare i lavori della struttura, sembra il tentativo estremo di serbare una flebile speranza. La verità è amara: gli edili hanno messo in sicurezza la zona dopo l’abbandono imposto dal decreto di sequestro. In un comunicato del 5 dicembre Finsud, il cui patron si chiama Antonio Sarni, noto imprenditore di Ascoli Satriano, proprietario dell’omonima catena di autogrill, evidenzia la singolare tempistica dei sigilli preventivi, a cinque giorni dall’apertura, l’azienda denuncia di aver subìto un ingente danno economico e d’immagine senza la minima contezza delle contestazioni mosse dalla procura: “Siamo riusciti ad avere il carteggio completo soltanto il 28 novembre. Improvvisamente, di fatto, siamo ritornati indietro di otto anni e dobbiamo difenderci da accuse per fatti avvenuti e commessi perlopiù non da Finsud e da Sarni, ma precedenti e/o da altre ditte e/o tecnici. Ebbene, dopo il primo momento di scoramento, abbiamo subito reagito con la ferma volontà di difenderci dalle accuse e, nel contempo, fugare ogni dubbio residuo nell’interesse della collettività, nostro e dei nostri operatori”. Gli avvocati di Finsud presentano l’istanza di dissequestro, su questa area economicamente depressa la società ha puntato una fiche da 60 milioni di euro. I legali confidano nel “proficuo dialogo con la procura” al fine di ottenere un dissequestro parziale, il centro commerciale occupa 18 dei 72 ettari dell’intera area. Quanto alle accuse urbanistiche, fanno sapere i difensori, “esse sono circoscritte a un unico passaggio a monte che non era necessario e comunque fu fatto, non fa discendere effetti sui titoli abilitativi seguenti. Le accuse ambientali invece sono ipotetiche, in parte già oggetto di archiviazione”.

 

Per quasi mille persone il GrandApulia significa il posto assicurato. A cinque giorni dall'inaugurazione i sigilli della Finanza

Trascorrono pochi giorni ed ecco la svolta: la procura concede la facoltà d’uso per il GrandApulia, la riapertura è fissata per il 20 dicembre, Finsud s’impegna ad “assumere impegni stringenti tra i quali quello di istituire ed alimentare annualmente, con cifre cospicue, un fondo destinato ad eventuali operazioni di bonifica e ripristino ambientale del sito”. Manca un rinvio a giudizio, non c’è un brandello di sentenza, siamo ancora alle “verifiche ambientali in corso”, eppure i sigilli preventivi funzionano da formidabile agente persuasore. Nell’incognita del caso, è meglio offrire oggi 400 mila euro piuttosto che perderne in un domani incerto 60 milioni. Il gruppo Sarni ringrazia la procura “per il lungo e fattivo dialogo”, preso atto del sequestro con la sua singolare tempistica la società si ritrova davanti a un bivio: rinunciare al progetto ingaggiando un duello legale dai tempi imprevedibili oppure metter mano al portafogli pur con le inevitabili modifiche al piano industriale. Per un imprenditore il tempo non è una variabile ininfluente, perciò può giudicare più conveniente pagare nell’immediatezza anziché affidarsi all’alea giudiziaria. “E’ il più bel regalo di Natale”, commenta il patron. A gioire sono soprattutto i lavoratori che hanno salvato il posto, in Rete qualcuno evoca sinistre analogie con la Mongolfiera, centro commerciale foggiano, ennesimo esperimento imprenditoriale sopravvissuto per un miracolo laico agli interventi ‘preventivi’ della procura dauna. In Rete un marito in sollucchero esulta: “Per andare da Zara non dovrò più accompagnare mia moglie fino a Molfetta”.

 

E se tra qualche anno il gruppo Sarni fosse dichiarato innocente? In astratto, e vigente la Costituzione-la-più-bella-del-mondo, non si può escludere che la procura abbia preso un granchio e le contestazioni non reggano in dibattimento. La prova si forma nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità. E’ il giusto processo, bellezza. Le accuse possono cadere, spesso cadono, così è accaduto ai Maiolica, gruppo leader nel settore del commercio al dettaglio e produzione industriale di beni alimentari, oltre 25 punti vendita dislocati nella provincia di Salerno e un fatturato di 80 milioni di euro. Oggi la società non esiste più, fallita, 300 dipendenti sono rimasti a casa. Nel novembre 2003 la Cereal sas, una delle aziende partecipate dal gruppo, acquista l’ex area Ideal Standard, 100 mila metri quadri per circa dieci milioni di euro, al fine di realizzarvi un polo agroalimentare. Il venditore è Seapark, che nel frattempo rinuncia all’idea del parco acquatico, progetto assurto agli onori della cronaca nazionale per l’inchiesta che coinvolge l’allora sindaco Vincenzo de Luca (il quale per questo sarà bollato d’impresentabilità da una “avventurosa parlamentare” e poi completamente assolto). A quarantadue giorni dalla firma del notaio, la procura ottiene il sequestro dei terreni. “Era il 30 dicembre 2003, trattenni i carabinieri davanti ai cancelli per cinque ore perché pensavano di trovare ancora il Seapark, dovettero telefonare alla pm che alla fine disse: non fa niente, diciamo che sono suoli ex Ideal Standard, sequestrateli”, racconta Lorenzo Maiolica. Il provvedimento che riguarda i precedenti proprietari è notificato a Maiolica che ne è entrato in possesso da poco più di un mese. Nel giro di un anno, per ben due volte l’area è posta sotto sequestro su richiesta della procura e dissequestrata per decisione del Riesame e della Cassazione. Per il giudice di legittimità è assente il fumuscommissidelicti. Nel giugno 2005 arriva il rinvio a giudizio per lottizzazione abusiva, nello stesso anno l’azienda registra un calo del fatturato pari al 30 percento. “Non aver fatto partire le attività che avevamo programmato ha creato un dissesto generale in tutto l’assetto societario”, commenta Lorenzo ricordando il fallimento suo, del fratello e del capofamiglia. Nel 2013, dopo otto anni di processo, i giudici assolvono gli imprenditori salernitani perché “il fatto non sussiste”. Nel frattempo, nel gorgo giudiziario con azienda in crisi e suoli bloccati, i Maiolica non sono più in grado di saldare le rate del mutuo, l’area della discordia, originaria fonte di guai, viene risucchiata dalle banche. “Io ho patteggiato un anno e otto mesi per bancarotta semplice. Mio padre ha ottenuto persino l’affidamento in prova ai servizi sociali, non meritava tutto questo”, conclude Lorenzo, il sopravvissuto di una vicenda kafkiana.

 

Manca un rinvio a giudizio, non c’è un brandello di sentenza, siamo ancora alle “verifiche ambientali in corso”, eppure i sigilli preventivi funzionano da agente persuasore. Nell’incognita del caso, è meglio offrire oggi 400 mila euro piuttosto che perderne in un domani incerto 60 milioni

“Quando sono stato assolto, dopo otto anni di processo, era ormai troppo tardi. Il sipario era già calato sulla mia società sotto forma di concordato preventivo”: a parlare è Luigi Sparaco, ingegnere erede della società Spartaco Sparaco leader nel settore delle costruzioni. Fondata nel 1940 dal padre, l’impresa edile realizza, nel corso degli anni, gli uffici giudiziari di Piazzale Clodio e la Biblioteca nazionale a Roma, l’ospedale civile di Ancona, il porto turistico di Marina di Grosseto. 

 

Una tradizione sessantennale che s’interrompe bruscamente a Potenza. “Centinaia di dipendenti e fornitori hanno perso il lavoro – prosegue l’ingegnere che oggi è un pensionato 74enne –. Una storia imprenditoriale di successo è stata bruciata sull’altare della frenesia investigativa. Sarebbe stato sufficiente un pizzico di prudenza in più”. Partiamo dal principio. 2002, Potenza, il sostituto procuratore Henry J. Woodcock individua una presunta associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbata libertà degli incanti con epicentro l’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro. Il 28 maggio la procura ottiene venti arresti: quattordici indagati sono spediti in carcere, sei ai domiciliari. Il 2 luglio finiscono in manette il direttore generale Inail Alberigo Ricciotti, l’imprenditore romano Luigi Sparaco, Emidio Luciani e il figlio Lorenzo. L’inchiesta sugli appalti si estende oltre i confini lucani, con indagini in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Toscana. Secondo l’accusa, Ricciotti avrebbe svolto il compito di orientare e determinare gli investimenti immobiliari Inail, aggiudicati alla Spartaco Sparaco Spa e poi subappaltati alla società Edilia Spa, amministrata da Luciani jr. In particolare, Ricciotti avrebbe favorito Sparaco in alcune gare d’appalto ottenendo in cambio del denaro e un appartamento a Monteverde vecchio a Roma. Della contrattazione della tangente e della consegna del denaro, nella prospettazione accusatoria, si sarebbero occupati Luciani senior e figlio, destinatari entrambi del subappalto legato all’esecuzione dei lavori di sei commesse a “prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato”. Per essere favorito nell’aggiudicazione degli appalti, Sparaco avrebbe versato a Ricciotti e ad altri dirigenti dell’Istituto una somma compresa tra il sei e il sette per cento dell’importo complessivo dei progetti. La maxi inchiesta coinvolge pure due deputati, Angelo Sanza di Forza Italia e Antonio Luongo dei Ds: per loro la procura chiede l’autorizzazione all’arresto ma la Camera si oppone, contestando la “mancanza assoluta di motivazioni” nell’ordinanza del gip. In aula il relatore Giuseppe Fanfani, della Margherita, parla di un “procedimento penale che, se non connotato da un intento persecutorio, è certamente caratterizzato da vizi tali che non appare in alcun modo giustificato privare temporaneamente la Camera dei deputati di un suo componente né il parlamentare della facoltà di esercitare pienamente il suo mandato di rappresentanza politica”.

 

Sparaco sconta venti giorni in carcere e due mesi ai domiciliari. “Hanno bussato una mattina e in cinque minuti sono finito in manette, direzione Regina Coeli. Più del carcere mi ha turbato il resto, la gogna mediatica. All’indomani tutti i giornali italiani mi hanno dipinto come un corruttore, l’imprenditore amico degli amici, uno che gonfiava i prezzi, una sanguisuga della pubblica amministrazione. Gli articoli calunniosi sono usciti pure due giorni dopo, tre giorni dopo… Io ero in cella impotente mentre la società andava a rotoli”. Su richiesta della procura, l’azienda viene commissariata con l’interdizione per un anno ad avere rapporti con la Publica amministrazione. “Per noi è stata una condanna a morte. Voglio dire: era proprio necessario? Il pm avrebbe potuto convocarmi a Potenza e farmi tutte le domande che riteneva opportuno, poi se non gli avessi risposto avrebbe fatto bene ad arrestarmi. La società fatturava cento milioni di euro l’anno, avevamo avuto sempre i bilanci in attivo ma con l’inchiesta, nel giro di pochi mesi, siamo arrivati al capolinea”.

 

Il rinvio a giudizio per lottizzazione abusiva, poi l’assoluzione. “Non aver fatto partire
le attività che avevamo programmato
ha creato un dissesto generale in tutto l’assetto societario”, commenta Lorenzo Maiolica ricordando il fallimento suo,
del fratello e del capofamiglia

L’ospedale di Orbetello vale un contratto da 35 milioni di euro: terminati i lavori, con l’iniziativa giudiziaria in corso, l’Inail decide di pagare solo parzialmente e con tempi dilatati, la commessa per Legnano è cancellata. “Il commissario faceva quel che poteva senza conoscere bene la nostra situazione. Non c’era alcuna possibilità di fermare questi veleni”. Quasi mille dipendenti perdono il posto di lavoro. Il processo, nel frattempo, procede nelle aule di giustizia, il fascicolo passa a Roma per competenza territoriale, alcuni imputati coinvolti nei molteplici filoni dell’inchiesta patteggiano, Sparaco invece respinge con determinazione ogni accusa. Di fronte all’ecatombe dell’azienda familiare, si ostina a difendere l’onore suo e del cognome che porta. “Io ero stato tirato in ballo da un inquisito che forse aveva voluto ingraziarsi così gli inquirenti. Non avevo mai incontrato Ricciotti in vita mia, il pm mi ha chiesto: ‘Ma dov’è questo appartamento?’, e io gli ho risposto nell’unico modo possibile: ‘Guardi che un appartamento non è un pacchetto che si mette in tasca. Io non ho regalato niente a nessuno, questo Ricciotti non so chi sia’”. Difendersi è un mestiere, devi studiare le carte, incontrare gli avvocati, partecipare alle udienze. “Con diverse perizie a nostre spese abbiamo dimostrato che appalti e subappalti erano in regola, io non gonfiavo proprio niente. Altro che ricarichi del venti o del trenta percento, i margini erano risicatissimi. L’appartamento non esisteva, non c’era traccia di bonifici, non c’era una sola telefonata tra me e questo Ricciotti. Io non c’entravo niente’. Nel 2009, a sette anni dall’arresto, Sparaco viene assolto dal tribunale di Roma. La procura non ricorre in appello, la sentenza diventa definitiva. Lo stato gli risarcisce 11.557 euro a titolo d’indennizzo per ingiusta detenzione. “La mia assoluzione è un verdetto postumo: io sono sopravvissuto, la mia impresa non esiste più”.

 

C’è un campo in cui le ragioni della giustizia e dell’economia paiono irriducibilmente inconciliabili. Il marchingegno diabolico ruota attorno ai concetti di “prevenzione” e “presunzione di colpevolezza”. Beni immobili e aziende in odore di mafia sono posti sotto sequestro preventivo e, nelle more di procedimenti dai tempi incerti e dall’esito non prevedibile né scontato, sono affidati alle premure della burocrazia giudiziaria. Risultato: 11 mila immobili, 2.000 imprese, quasi il 90 per cento è la quota delle aziende estinte. Un’ecatombe. Transcrime, il centro di ricerca che fa capo alla Cattolica di Milano e all’università di Trento, ha analizzato la situazione delle aziende confiscate dal 1983 a oggi. Pur nella frammentarietà delle informazioni, le stime sono impietose: circa il 70 per cento di esse è in liquidazione, il 20 per cento è fallito. La giustizia, amministrata secondo ragioni che la ragione, perlomeno quella economica, non conosce, genera nell’opinione comune una constatazione paradossale: la mafia ti dà lavoro, lo stato te lo toglie. Un esempio è il gruppo 6Gdo di Castelvetrano, sequestrato nel 2007 a Giuseppe Grigoli, condannato a dodici anni di reclusione per associazione mafiosa e ritenuto prestanome del superlatitante Matteo Massina Denaro. Dopo la confisca e i ripetuti tentativi di rilancio, la società è dichiarata fallita dal tribunale di Marsala. Ne consegue il licenziamento collettivo per 250 dipendenti. A regolare il settore è la legge 109 del 1996 per il riutilizzo dei beni sequestrati alla criminalità organizzata: una normativa che ha consentito allo stato di appropriarsi di palazzi, appartamenti, terreni, aziende… ma per far cosa? “Il ciclo di vita è sempre lo stesso – ha dichiarato a Panorama il pm antimafia Catello Maresca –. Prima li divorano gli amministratori giudiziari, poi le carcasse vengono divise dai tribunali fallimentari”. L’hotel Zagarella, la villa di Walter Schiavone, la Calcestruzzi Po.li, l’azienda agricola La Malsana, gli autocompattatori della Eco Quattro, il caseificio la Bufalina: il deserto delle “carcasse” è puntellato da piccole e medie realtà imprenditoriali danneggiate dai processi per mafia.
Succede pure che i sequestri siano annullati dalla Cassazione perché, a distanza di mesi e anni, si scopre che il legittimo proprietario è mafioso quanto Homer Simpson oppure che, come nel recente caso dei palermitani Rappa, eredi di nonno Vincenzo, il “prevenuto”, condannato per mafia e morto nel 2009, le procedure di sequestro siano ritenute nulle. Non basta la parentela a imprimere le stimmate di Cosa nostra, così la presunta “pericolosità sociale” dei discendenti evapora e i beni tornano nelle loro disponibilità ma in uno stato deteriorato rispetto a quello antecedente al marasma giudiziario. Oggigiorno il patrimonio originario dei Rappa, stimato in 800 milioni di euro, è a dir poco ridimensionato, i commissari hanno portato in tribunale i libri di diverse società della galassia familiare, le procedure di licenziamento sono in corso. “Le imprese sequestrate ai mafiosi si devono vendere, vendere, vendere – afferma Maresca nella già citata intervista che è parsa come un j’accuse verso le organizzazioni professioniste dell’antimafia –. Mi chiedo che fini sociali possa avere un capannone industriale. Oggi il tabù dell’antimafia è la parola vendita. I magistrati non possiedono l’expertise necessaria per gestire questo patrimonio. Non è un caso che la gestione concreta sia poi appaltata alle associazioni che hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti”. Libera, di don Ciotti, sostiene che così i beni ritornerebbero ai mafiosi, per Maresca invece sarebbe un bene perché “lo stato li sequestrerebbe due volte e ci guadagnerebbe il doppio. La verità è che uno stato deve riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Pensare che non sia in grado di farlo trasmette un’idea di impotenza”. Alla fine, in materia di beni mafiosi o presunti tali, le vittime principali dell’ingorgo giustizia-economia restano i lavoratori, costretti a fare i conti con il boicottaggio dei vecchi proprietari durante la fase del sequestro, poi con le lungaggini della giustizia, con le zone d’ombra di una gestione clientelare e discrezionale a opera di magistrati specializzati, con gli amministratori giudiziari interni alla ristretta cerchia dei prediletti. La parola “fine” sta nel trattamento di fine rapporto, nella privazione del lavoro che è negazione di libertà, nell’adagio popolare che risuona come una campana a morto: la mafia ti dà lavoro, lo stato te lo toglie.

 

Annalisa Chirico, classe 1986. Dottorato in Teoria politica alla Luiss Guido Carli, apprendistato pannelliano e ossessione garantista. Scrive di giustizia, politica e donne. “Siamo tutti puttane. Contro la dittatura del politicamente corretto” il titolo del suo bestseller.

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