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Froome e l'insopportabile pesantezza della Wada

Giovanni Battistuzzi

Solo due cose sono chiare nella sentenza di non colpevolezza del corridore della Sky: che ha vinto Vuelta e Giro e che sarà al via del prossimo Tour. Tutto il resto è noia

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Due cose sono chiare in tutta la vicenda Chris Froome-salbutamolo: il keniano d'Inghilterra ha ufficialmente vinto la Vuelta di Spagna del 2017 e il Giro d'Italia 2018 e sarà al via del prossimo Tour de France. Tutto il resto invece rimane invischiato nel solito limbo, quello che stritola il ciclismo, i suoi protagonisti e i suoi seguaci in un estenuante psicosi del sospetto, l'idea in pratica che tutto è vero sino a prova contraria. E quella prova contraria ha una parola e una condanna: doping. E così ora che l'Uci ha assolto il corridore della Sky nulla è cambiato davvero. Chi considerava Froome colpevole continua a considerarlo colpevole, chi lo considerava innocente sino a prova contraria questa prova l'ha avuta, chi non si era esposto perché troppo complicata la questione continuerà a farlo perché la questione continua a essere un guazzabuglio dove anche gli esperti dell'antidoping poco ci capiscono. Contattato dal Foglio, un ex tecnico della Wada ha dichiarato che "non posso rilasciare dichiarazioni. La questione è troppo complicata e la letteratura scientifica troppo lacunosa. Può il salbutamolo dare grandi benefici a un corridore? Direi di no, ma in realtà non lo so".

 

Una confusione andata avanti quasi dieci mesi, che oggi ha trovato, forse, la sua conclusione. L'Uci ha giudicato non colpevole Froome in merito all'accusa di aver migliorato in modo non consentito le proprie prestazioni con l'assunzione di salbutamolo, un broncodilataore. Galeotto fu un test alla Vuelta dello scorso anno. Il 7 settembre 2017 nelle urine del keniano d'Inghilterra venne trovato un livello di salbutamolo di 2.000 nanogrammi/millimetro, esattamente il doppio di quello consentito. Il salbutamolo è un farmaco il cui uso è concesso, ma sino a una certa soglia, e proprio per questo non è stata riscontrata a Froome una positività, ma soltanto un "esito atipico". Insomma non c'era la certezza della violazione delle norme antidoping, ma solamente l'evidenza che qualcosa non andava. E in questi casi non è necessario rendere pubblico il fatto. E questo accade perché se non è chiara la violazione in questo modo si evita di creare un caso dove un caso magari non c'è. Si chiama tutela, non solo accortezza. Con Froome però nulla di questo è stato messo in pratica. In nome della trasparenza si è montato un caso mediatico quando forse serviva il tempo per una riflessone più accurata sulla sostanza, il salbutamolo, e sulla vicenda.

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Anche perché i 2.000 nanogrammi/millimetro non sono in realtà tali. Le correzioni scientifiche legate a una serie di variabili fisiche e ambientali fanno scendere il valore a 1.190 ng/ml, che è sempre superiore al limite massimo, ma rende l'infrazione di minore entità, riportandola all'interno di quelle casistiche limite che la scienza non sa come affrontare. 

 

Eppure è proprio questo che decade nella considerazione di vicende come quelle di Froome. La scienza diventa inutile, la colpevolezza è già insita nel superamento di un valore. Sarebbe vero in un mondo nel quale il corpo umano sia conosciuto in modo perfetto ed esaustivo, come si conosce la struttura e il funzionamento di un computer. Non si è però ancora raggiunto quel livello di conoscenza e quello che abbiamo per le mani è un sistema imperfetto di valutazione e un sistema ancor più imperfetto di regole, almeno per quanto riguarda l'antidoping, a cui conformarci.

 

La vicenda Froome non ha messo in evidenza il fatto che il ciclismo sia uno sport nel quale se si ha una difesa ricca (si parla di una difesa milionaria) si finisce per essere assolti. Ha detto un'altra cosa. Che in presenza di regole nebulose, come sono quelle per le sostanze non consentite, ma che si possono usare in presenza di certificazione medica, si rischia di creare casi mediatici che mettono alla gogna persone che forse più che lo sputtanamento avrebbero bisogno di un processo chiaro e rigoroso. La speranza è che la Wada impari qualcosa da questa vicenda e ristrutturi se stessa. Solo in questo modo ci potrà essere una credibile lotta al doping.

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