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Prandelli e l'Erasmus tra i giovani turchi

Simonetta Sciandivasci

Abbiamo dato a Cesare quel che era di Cesare e abbiamo aspettato che venisse, vedesse e vincesse. Prandelli, tuttavia, pur essendo venuto e avendo visto, non ne vuole sapere di vincere.

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Abbiamo dato a Cesare quel che era di Cesare e abbiamo aspettato che venisse, vedesse e vincesse. Prandelli, tuttavia, pur essendo venuto e avendo visto, non ne vuole sapere di vincere. Credevamo che fosse l’Italia a stargli stretta e abbiamo guardato, con la fiducia delle mamme di ventenni in Erasmus, al suo espatrio verso la Turchia, alla guida del Galatasaray (che credevamo fosse il nome di un massaggio orientale tonificante, ma le signorine non smettono mai di imparare). Ci siamo dette che l’esperienza all’estero, fra i giovani turchi, gli avrebbe finalmente donato quel tocco ribellista e tenace capace di scardinare il suo aplomb regimental. Invece, niente. Chiederemmo una mano al suo amato Balotelli – se non fosse anche lui in Erasmus a rimborsare le maglie con il suo nome ai tifosi del Liverpool – almeno per convincerlo a passare a un look meno ingessato e più peccabile. Ci si fredda il sangue a vedere il nostro Cesare, a bordo campo, con la faccetta esistenzialista alla Ramazzotti quando canta “sono cose della vita, ma la vita poi cos’è”, mentre incassa sconfitte tra i Mori, col petto infilato in golfini seminaristi di sfigatissimo blu Mario Monti.

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