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Il Sartre di Fergnani, tra esistenza e contingenza

Davide D'Alessandro

Da alcuni giorni è in libreria, grazie a Feltrinelli, il capitolo de “La cosa umana” dedicato a una rilettura del romanzo filosofico “La nausea”. È l’occasione per ritornare sul filosofo francese con una delle interpretazioni più sottili e lungimiranti. A dieci anni dalla morte del professore milanese, il libro è un tributo all’intelligenza e alla capacità di cogliere ogni singola sfumatura di una grande opera

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Il Sartre di Fergnani. Sartre scritto così, senza virgolette, e Fergnani scritto così, senza Franco, perché il professore che tenne la cattedra di Filosofia morale alla Statale di Milano dal 1971 al 2000 si chiamava Fergnani e basta. Lo ricorda Massimo Recalcati, uno dei suoi allievi, nella commovente e profonda prefazione al libro edito nella Collana Eredi di Feltrinelli, il libro che ripropone il primo capitolo de La cosa umana (1978), dedicato a una rilettura del romanzo filosofico La nausea: “In aula arrivava sempre un po’ stropicciato. Spesso, a prescindere dalle stagioni, avvolto nel suo vecchio, immancabile impermeabile beige. Talvolta portava sul collo i segni lasciati dal rasoio di una barba fatta troppo in fretta nella solitudine della sua casa. Raramente l’ho visto in giacca. Perlopiù indossava maglioni a v con camicia, spesso a scacchi, e cravatta annodata stretta. La sua camminata appariva sempre come sospesa nel vuoto, in equilibrio precario su di una corda. Rasente alle mura, la sua sagoma appariva nei chiostri della Statale come una figura solitaria ed eccentrica. Entrava in aula quasi catapultato. Posava la sua borsa strapiena di libri sulla cattedra prima di sedersi. L’aula era sempre traboccante di studenti che lo attendevano. Si faticava a trovare posto. Dopo aver estratto confusamente i libri che gli sarebbero serviti nel corso della lezione e aver sistemato i suoi appunti, prendeva non senza una incertezza iniziale la parola. Rapidamente calava un silenzio assoluto”.

Lo stesso silenzio che è calato dentro e intorno a me mentre rileggevo, a distanza di tanti anni, l’incipit del capitolo: “Ha osservato Michel Rybalka che, nell’arco di questi quattro decenni e nonostante l’elevato numero di studi dedicativi, solo in misura relativamente modesta sono state messe a profitto la complessità di tematica che La Nausée presenta e la pluralità di interpretazioni a cui il testo si presta”. Tra queste pluralità si staglia quella di Fergnani, che ripercorre il testo sartriano cesellando ogni tratto, mettendo a fuoco i temi salienti, girando e rigirando, un passo indietro e un passo avanti fino a raggiungere l’osso, dopo averlo asciugato da ogni inutile orpello. Scrive Fergnani: “Dopo La nausea l’identità concettuale tra esistenza e contingenza o tra esistenza e fatticità si spezza, le due nozioni vengono nettamente distinte benché permanga tra di esse uno stretto collegamento; in secondo luogo il termine ‘esistenza’ viene riservato, di principio, alla realtà umana e alla sua struttura elastica. Di conseguenza, lo ‘scandalo’ non è più l’esistenza in quanto tale, lo è invece il peso di contingenza da cui l’esistenza è affetta, la sua fatticità che si abbina alla trascendenza nella costituzione bipolare o duale della realtà umana. L’affermazione della ingiustificabilità dell’esistenza va intesa quindi, a rigore, come l’affermazione dell’inerire ad essa di un ineliminabile coefficiente di contingenza, di un fondo di non trasparenza originaria”.

Lo si sarebbe potuto dire meglio? No. E ancora: “L’impossibilità della sintesi di essere ed esistere dev’essere riconosciuta e assunta come tale. Con questo ‘deve’ siamo al punto di giunzione tra ontologia e morale. L’ontologia culmina nella descrizione della realtà umana come desiderio di essere e nell’illustrazione del necessario scacco del progetto teologico. Ma l’ontologia non è fine a se stessa”. Lo si sarebbe potuto dire meglio? No. E ciò sancisce la differenza sostanziale tra i veri professori di filosofia e gli intrattenitori della filosofia. Differenza esaltata dalla lucidità del pensiero, dalla capacità di cogliere, tra le maglie complesse di un’opera, l’essenza da trasmettere agli eredi. Perché ci siano eredi, occorrono maestri. Se i primi oggi scarseggiano, è perché i secondi o sono morti o stanno per lasciarci. Fergnani è morto dieci anni fa. L’ultimo suo corso, sul tema del volto in Lévinas è del 1998-1999. L’anno prima aveva insistito sull’esistenzialismo, tra Heidegger, Jaspers e Sartre. Il volume da pochi giorni in libreria non lo ricorda, ma lo ripropone, lo rimette sullo scaffale più importante delle nostre biblioteche. Il professor Fergnani è di nuovo tra noi, con il suo Sartre, con la sua camminata sospesa nel vuoto, con il suo immancabile impermeabile beige e, ciò che più conta, con la potenza del suo argomentare.

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