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Maurice Blanchot, lo spazio di un’opera

Davide D'Alessandro

Il libro del critico letterario e filosofo francese, riproposto da il Saggiatore, abbraccia l’infinito della letteratura, l’esperienza di Mallarmè, Kafka e l’esigenza dell’opera, Rilke e l’esigenza della morte. Scrivere è l’interminabile e l’incessante

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Ha ragione Mario Andrea Rigoni: “Desta sorpresa che un’intera e solidale costellazione di pensatori, scrittori e critici francesi — Blanchot, Foucault, Derrida, Lévinas, Bataille, Lacan e altri — dopo avere dominato la cultura speculativa e letteraria a incominciare dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, si sia oggi quasi completamente eclissata”. Da cogliere quel “quasi”, rimanenza di ciò che…rimane tuttora vivo, pur tra mille complessità, in un ambito di cultura un tantino recalcitrante verso i pensieri alti. Ecco perché deve fare notizia la …saggia riproposizione, da parte di il Saggiatore, di un libro cruciale di Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, edito da Gallimard nel 1955. Con una postfazione di Stefano Agosti e la traduzione di Fulvia Ardenghi, il libro si apre come si apre un fiore, regalando profumi inimitabili: “Pare che impariamo qualcosa sull’arte quando sperimentiamo la parola solitudine”. Se molti scrittori fossero andati a scuola da Blanchot, ci avrebbero risparmiato incipit improponibili e avrebbero scoperto che l’incipit, da solo, non fa un libro. Occorre un seguito e Blanchot seguita: “La solitudine dell’opera – dell’opera d’arte, dell’opera letteraria – ci fa scoprire una solitudine più essenziale. Essa esclude l’isolamento compiaciuto dell’individualismo e ignora la ricerca della diversità; il fatto di riuscire a sostenere un rapporto virile in un compito che copre, dominandola, la durata di un giorno, non dissipa tale solitudine. Chi scrive un’opera è messo da parte, chi l’ha scritta è congedato. Chi è congedato, tra l’altro, non lo sa. Tale ignoranza lo preserva, lo distrae autorizzandolo a perseverare. Lo scrittore non sa mai se l’opera è conclusa. Quel che ha terminato in un libro, lo ricomincia o lo distrugge in un altro”.

Lo spazio letterario di Blanchot abbraccia lo spazio infinito della letteratura, l’esperienza di Mallarmé, Kafka e l’esigenza dell’opera, Rilke e l’esigenza della morte, la ricerca di una giusta morte, lo spazio della morte, la trasmutazione della morte. E l’ispirazione, lo sguardo di Orfeo, la mancanza di ispirazione. Lo scrittore e la scrittura, lo scrittore e la parola, le mani dello scrittore: “Lo scrittore pare avere il controllo della sua scrittura, può diventare capace di una grande padronanza delle parole, di quel che vuole che esse esprimano. Ma questa padronanza si limita a metterlo e a mantenerlo in contatto con la naturale passività ove la parola, non essendo altro che la sua stessa apparenza o l’ombra di una parola, non può mai essere dominata, né colta, rimane l’inafferrabile, in non-inafferrabile, il momento indeciso del fascino. La padronanza dello scrittore non sta nella mano che scrive, quella mano ‘malata’ che non lascia mai la matita, che non può lasciarla, perché quel che essa stringe, non lo stringe davvero, quel che essa stringe pertiene all’ombra, anzi è essa stessa ombra. La padronanza dipende sempre dall’altra mano, cioè da quella che non scrive, che è capace di intervenire quando ce n’è bisogno, e che è capace d’afferrare la matita e di strapparla alla presa. La padronanza coincide quindi con la capacità di smettere di scrivere, di interrompere quel che si scrive, riconoscendo i diritti e le perentorietà decisive dell’istante”.

Ma che significa scrivere? Che significa arrampicarsi sul cielo alto e bianco della pagina? Blanchot è chiarissimo: «Scrivere è l’interminabile, l’incessante. Si dice che lo scrittore rinunci a dire ‘io’. Kafka nota con sorpresa, con piacere incantato, d’aver fatto il suo ingresso nella letteratura solo quando ha potuto sostituire l’“io” con l’“egli”». Le pagine su Kafka brillano di luce purissima, insegnano ad accostarsi alla grandezza: “Kafka, forse senza nemmeno esserne cosciente, ha provato davvero su di sé che scrivere significa abbandonarsi all’incessante e, per colpa dell’angoscia, angoscia dell’impazienza, per la preoccupazione scrupolosa dell’esigenza di scrivere, la maggior parte delle volte si è rifiutato di compiere quel salto che è l’unica via per giungere alla conclusione, quella fiducia spensierata e lieta grazie alla quale un termine viene (momentaneamente) reso interminabile”.

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Lo spazio letterario è un’opera senza l’opera, è una magnifica sottrazione, una mancanza che ha la forza di riempire un vuoto, “mancanza che è il centro e la vita del senso, la realtà della parola”. Nota Agosti: “Il vuoto, l’assenza, la mancanza (il ‘manque’) sono i termini che trapuntano tutta l’opera di Blanchot, sia creativa (i romanzi e i ‘récits’) sia critico-teorica: termini strategici, vòlti a operare un superamento del sapere istituito, rappresentato dalle articolazioni rassicuranti del concetto e dalle figure acquisite del significato. Sono infatti i termini medesimi, e magari i termini-chiave, che contrassegnano alcune delle scienze umane, in particolare la linguistica saussuriana e post-saussuriana, nonché (si vorrebbe dire: soprattutto) la psicoanalisi, in ispecie quella che fa capo a Lacan”.

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Che ne è dell’arte? Che ne è della letteratura? Domande che Blanchot pone e si pone, domande che attraversano l’autore e il lettore che “sono pari di fronte all’opera e in essa. Entrambi sono unici: esistono solo grazie all’opera e a partire da essa; certo non sono il comune autore di poesie varie, né il lettore che ha del gusto per la poesia e legge di volta in volta, riuscendo a comprenderle, le grandi opere poetiche. Ma sono unici: il che vuol dire che il lettore non è meno ‘unico’ dell’autore, perché anch’egli è colui che, ogni volta, dice la poesia come se fosse una nuova poesia, e non come se fosse ridetta, già pronunciata e sentita”

Sono stato lettore di un autore, Blanchot. Siamo esistiti soltanto grazie a Lo spazio letterario. Siamo stati unici. Non sempre accade, non sempre è vero. Con Blanchot, autore unico, si sente unico, è davvero unico, anche il lettore.

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