Herta Müller. Foto di Thomas Lohnes AFPGETTY IMAGES

Herta Müller, lo stupore della libertà

Davide D'Alessandro

Nella Romania di Ceaucescu fu dichiarata "pericoloso nemico dello Stato, responsabile di distorsioni tendenziose della realtà del paese". Avvicinata, le fu chiesto di collaborare. Rifiutò e nel 1987 fuggì in Germania. Il Nobel del 2009 la rese nota anche da noi

Con la passione della libertà la piccola Herta Müller, Nobel per la Letteratura 2009, vede scorrere i paesaggi: «Quand’ero bambina, nel villaggio in cui sono cresciuta, per anni sono andata in bicicletta. Attraversavo campi di tabacco, frutteti, verso il letto del fiume, l’orlo del bosco. Mi piaceva soprattutto farlo da sola e senza una meta». Poi, da adulta, con l’ansia dell’autodifesa, guarda alle persecuzioni della polizia segreta di Ceaucescu: «Il persecutore manovra d’attacco, il perseguitato in difesa. Il persecutore non ha bisogno di essere fisicamente presente per esercitare la sua minaccia. Sotto forma di ombra si annida comunque nelle cose, la facoltà di incutere paura l’ha trasmessa alla bicicletta, alla tintura di capelli, al profumo, al frigorifero, rendendo minacciosi quegli oggetti usuali e inanimati. Gli oggetti privati di chi si sente minacciato diventano la personificazione del persecutore».

Herta, dopo aver nuotato nella corrente, dopo aver visto in faccia lo sguardo truce del potere, diffida dell’eternità. «Herta chi?», «Herta Müller!». Lo stupore della cultura italiana di fronte alla notizia del Nobel assegnato alla scrittrice romena di lingua tedesca, rivela come le perle preziose abbiano sempre un nascondiglio dove dimorare e da dove, se cercate con passione, venir fuori per interrogare i cittadini e i lettori del mondo, per inchiodarli alle loro responsabilità, ai loro silenzi indifferenti, per sollecitarli a una riflessione intensa, squarciando i veli di ogni ideologia, sui grumi della quotidianità, sui pesi e gli orrori della storia, sulle miserie dell’uomo. Tutto questo è Herta Müller e tanto altro ancora.

Nata nel 1953 a Nitzkydorf, in una regione sconosciuta quanto lei in Italia, Banato Svevo, dove la minoranza, di lingua tedesca, fu a lungo perseguitata dal dittatore Ceaucescu. l’Accademia di Svezia intese premiare proprio un simbolo e una ferita: la minoranza. Di fronte a nomi altisonanti, pluridecorati e ultra celebrati (anche con merito, sia ben inteso, come Amos Oz, David Grossman e Philip Roth), emerse Müller a rimembrare che «nessun libro può salvare da una dittatura. Grazie alla letteratura i tedeschi avrebbero potuto capire la follia di Hitler, ma questo non è successo. Ci sono dei momenti della storia e realtà in cui la cultura viene esclusa e non gioca alcun ruolo. Come questo accada è difficile da comprendere, ma è molto triste». Com’è triste sapere che Müller, letta e premiata in altri paesi, in Italia è fu pubblicata nel lontano 1982 da Editori Riuniti, grazie alla scoperta di Fabrizio Rondolino, poi da un piccolo editore di Rovereto, tal Roberto Keller, che stampò Il paese delle prugne verdi in millecinquecento esemplari, vendendone ottocento! Chi ebbe la fortuna di leggere quel libro sa che i quattro giovani uniti dal suicidio di Lola, la ragazza violentata dal professore di ginnastica, sotto un cielo reso tragicamente plumbeo dalla dittatura, ricorrono alla lettura proibita (come sono talvolta proibite l’amicizia e l’amore) perché almeno la memoria non muoia. Sono pagine grondanti il desiderio di libertà, di evasione, di vivere la propria storia lontano dall’occhio indiscreto del guardiano che controlla i tuoi passi, stronca le tue parole, fa sparire il tuo corpo, modula persino i tuoi respiri.

La Romania di Ceaucescu era un’unica torre, uno spaventoso Panopticon, per dirla con Jeremy Bentham, dove la Securitate, il servizio segreto alle dipendenze del partito, sorvegliava e puniva, puniva e sorvegliava. Proprio dalla Securitate, Müller, con il nome in codice “Cristina”, fu dichiarata «pericoloso nemico dello Stato, responsabile di distorsioni tendenziose della realtà del paese». Fu avvicinata, le fu chiesto di collaborare. All’epoca un romeno su due collaborava. Lei rifiutò e nel 1987 fuggì in Germania. Dopo la notizia del Nobel, dichiarò: «Mi sento libera perché so qual è la differenza tra lo svegliarsi al mattino e non sapere se alla sera sarai ancora viva e la vita di oggi. Ho tutto ancora nella testa. Ma la Germania mi ha salvata».

Insieme alla lingua, la “lingua salvata” di Canetti, se è vero che ha scritto un saggio nel 2001 dal titolo “Heimat ist was gesprochen wird” (La patria è quella che si parla). È stata quella lingua a salvarla, a far giungere fino a noi i suoni, le voci, i silenzi, le miserie, gli orrori, le devastazioni di un regime criminale. Tutto ciò che hanno visto gli splendidi occhi di Herta, che oggi, un po’ stanca e un po’ no, afferma: «Sarebbe molto meglio se potessimo portare via tutto quando moriamo. Diffido dell’eternità. Le cose che restano mi fanno paura».