Lunga vita alla controcultura filotedesca

Matteo Scotto

Il Foglio ha avuto il grande merito di dare il via a una vera e propria controcultura, di cui questo paese aveva maledettamente bisogno. Quella di piantarla di dare la colpa alla Germania per tutte le nostre malefatte. Ovviamente in direzione ostinata e contraria.

Con la lettera di Giuliano Ferrara di questa settimana sulla Germania, in occasione della quale, grazie alla libertà di un uomo senza criterio e nel bel mezzo dell’ennesima bufera antiteutonica, l’autore ha dichiarato amore aperto ai tedeschi, il Foglio ha avuto il grande merito di dare il via a una vera e propria controcultura, di cui questo paese aveva maledettamente bisogno. In direzione ostinata e contraria rispetto a un paradigma da troppi anni dominante, divenuto talmente insensato da rivelarsi patetico, era arrivato il momento di opporsi a quella moda tutta italica, che a partire da incolpevoli masse mal ammaestrate fino a reduci salotti intellettuali piccolo borghesi, scaricava sulla Germania tutto il peso della propria mediocrità. Quasi come se la Germania fosse diventata la discarica delle nostre false coscienze. Per chi frequenta le fredde terre d’Oltralpe e per capire fino a che punto ci siamo coperti di ridicolo, basti pensare che gli stessi tedeschi, di fronte a rinnovate e maldestre accuse di nazismo, hanno infine smesso di prenderci sul serio, ricorrendo perfino a una velata ironia. Loro, per cui l’ironia è tanto indigesta quanto per noi il cappuccino dopo cena. Eppure così è andata e anche troppo per le lunghe. Da anni in Italia è presente un vero e proprio disimpegno morale suggellato da un patto sociale tra energumeni della politica e opinione pubblica, un meccanismo autoassolutorio che, scindendo il pensiero dall’azione, dà il via a un processo cognitivo a remissione di qualunque peccato e atteggiamento immorale. Il tutto pensato per combinare l’ennesima malefatta e starcene in pace con noi stessi, rattrappiti come prepotenti bulli di periferia, orgogliosamente incapaci della benché minima analisi di coscienza. Era ora di darci un taglio. Difficile andare indietro con la memoria e rintracciare quando esattamente l’Italia ha iniziato a sollazzarsi con questa mediocrità. Mediocrità risultato non già di strutture politiche, sociali e economiche più o meno funzionanti, bensì frutto del modo in cui noi italiani guardiamo noi stessi e ci confrontiamo con gli altri. Già, poiché una tale e miope autoreferenzialità, sorda di qualsivoglia autocritica, unita a una diffidenza ormai patologica verso l’esterno, ci ha condannato a un provincialismo cronico in cui diventa impossibile ogni sana spinta di rinnovamento. L’emergenza sanitaria causata dal coronavirus è stata la pura espressione di questo disturbo psichiatrico collettivo, dal quale se l’Italia non si sforzerà di guarire, dalla crisi non uscirà affatto un paese migliore come molti auspicano. L’Italia è in ginocchio per il coronavirus non perché la signora Merkel non vuole gli Eurobond. E l’Italia non è nemmeno veramente in ginocchio a causa del coronavirus. Il virus ha solo fatto emergere le reali condizioni in cui la nostra sanità gravava da anni e sulla quale ci siamo raccontati tra vicini di casa la favola dell’eccellenza mondiale. Preso atto di un sistema già parecchio malmesso prima ancora di ricoverare un solo paziente positivo, il massimo che siamo riusciti a fare è stato puntare il dito di qua e di là, tra Berlino e Bruxelles, impanicati e confusi su vittime e carnefici, manco avessimo vissuto su Marte negli ultimi trent’anni e fossimo approdati d’embleé in un paese normale. Allora bisogna recuperare il senno e ripartire. Anzitutto piantandola di dare la colpa alla Germania per ogni nostra mancanza e insoddisfazione di come qui da noi vanno e sono andate le cose da un po’ di tempo a questa parte. In secondo luogo maturando la consapevolezza, dura e veritiera, che l’Italia è la principale causa del suo male, cattiva e al contempo buona notizia. Cattiva perché da domani mattina dovremo iniziare a guardarci davvero allo specchio, per ritrovare un’immagine dell’Italia degli ultimi decenni che probabilmente non ci piacerà granchè. Buona perché così come siamo stati causa principale dei nostri mali, potremo ugualmente essere artefici primari del nostro bene e di conseguenza di un futuro migliore. Così un giorno ci alzeremo, guariti e allora sì, anche un po’ orgogliosi, certi che il merito di un’Italia diversa sarà stato nostro, e non della Germania.

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