Euporn - il lato sexy dell'europa

L'affanno della convivenza dei sovranisti d'Europa

Paola Peduzzi e Micol Flammini

A Varsavia era prevista una grande festa, ma il sogno di un gruppo unico ora luccica poco. I calcoli e i dolori dei leader nazionalisti

L’immagine più forte delle ultime settimane viene da Lany, in Repubblica Ceca, dove finalmente è stato nominato un nuovo primo ministro, un conservatore. Si chiama Petr Fiala, è il leader di Spolu, in ceco vuol dire Insieme e in realtà è un megapartito che  ne contiene altri tre di centrodestra tra cui Ods, il gruppo di cui Fiala fa parte, e  che in Europa siede tra i Conservatori e riformisti, una famiglia in cui Fiala ora sembra  trovarsi quasi per sbaglio. Anche se nel partito  sembra esserci capitato per caso, sono le alleanze che contano. Dice di essere europeista, non vuole fare rivoluzioni o controrivoluzioni per sovvertire i partiti europei, come gli altri ha opinioni radicali nei confronti dell’immigrazione ma lui è uno molto bravo a fare alleanze. Tanto da aver formato un governo che è un enorme contenitore che abbraccia la sua coalizione,  il Partito dei Pirati e Stan, Sindaci e Indipendenti.

 

E’ un gioco di incastri complesso, ma Fiala ha deciso che era il momento di mettere da parte le differenze e di unirsi, perché c’è la pandemia e i vecchi schemi non valgono più. Fiala non è neppure un politico, è un accademico cresciuto sotto il regime comunista contro il quale sì che fece la rivoluzione, quella di velluto: durante quei giorni incontrò sua moglie. E’ un cattolico e anche in questo un tempo stava la sua rivoluzione: si fece battezzare quando essere atei, a Praga, anzi a Brno dove è nato, era un ordine e non una scelta. Lui scelse di essere l’opposto. Siccome siamo ancora nel mezzo di una pandemia, a Fiala è toccata un’investitura atipica. Era strano il posto: non era nella residenza presidenziale di Praga ma a Lány.

 

Anche i sovranisti hanno la loro bolla, da lì dentro guardano la realtà e pensano di conoscerla. Ma ognuno la vede a modo suo

 

E il presidente Milos Zeman era dentro a un scatola ermetica di plexiglass, seduto su una sedia a rotelle, con lo sguardo fisso su Fiala, quasi volesse  indicargli quanto complesso e strambo sarebbe stato il suo mandato. Quanto la normalità – vecchia e nuova: forse sarebbe il momento di ripensare il concetto di new normal – sarebbe stata l’obiettivo più irraggiungibile del suo mandato. Zeman ha molti problemi di salute, ma ultimamente è anche risultato positivo al coronavirus ed è stato dimesso pochi giorni prima della nomina di Fiala, che da lui è molto  diverso. Zeman è un populista filo russo e filo cinese, Fiala ha giurato di voler attuare una politica seria contro i due regimi.

 

Il presidente è un euroscettico, il premier no, critica l’Ue, dice di essere realista, ma sa bene che il suo baricentro è a Bruxelles. Che tra i due, al di là della pandemia, fosse Zeman quello dentro a una scatola di plexiglass, ci è sembrato molto simbolico. E ci siamo chieste: ma gli euroscettici  che tanto credono di conoscere la realtà, non saranno forse loro a vivere in una bolla? Con questa voglia di remare contro l’Ue non si staranno rinchiudendo in una gabbia nella quale dovranno imparare a convivere, proprio loro che della convivenza non sanno cosa farci? Se dovessero formare un gruppo di estrema destra, sul quale alcuni rimuginano da tempo, non staranno forse un po’ troppo stretti rinchiusi nella loro scatola dalla quale guardano il mondo? Per cercare le risposte siamo partite da Varsavia. 


Tutti a Varsavia, o quasi. A luglio quindici partiti europei hanno firmato una carta dei valori, un manifesto politico che conteneva le linee guida per cambiare l’Unione europea. L’idea è stata del premier ungherese Viktor Orbán, e la carta conteneva la firma di quasi tutti i leader dei partiti di Identità e democrazia (Id) e Conservatori e riformisti (Ecr), anche Fiala aveva firmato. Sembrava la dichiarazione di intenti di un nuovo gruppo che unisse tutte le destre che stanno più a destra dei popolari, ma da luglio a oggi non ci sono stati sviluppi. Il sospetto era che tutto sarebbe dovuto accadere a Varsavia tra il 3 e il 4 dicembre, quando il leader del partito polacco PiS, Jaroslaw Kaczynski, ha invitato, tra gli altri, Orbán, Marine Le Pen, Santiago Abascal e ovviamente Matteo Salvini e Giorgia Meloni, a parlare del futuro dell’Europa. Qualcosa è andato storto, e la grande festa sovranista, che nell’immaginario di molti sarebbe dovuta essere il riscatto di Coblenza, si presenterà in veste dimessa. Un po’ perché sono state le stesse alte aspettative a rovinarla: della nascita di un nuovo gruppo non sono tutti convinti. Un po’ per le defezioni. E un po’ perché c’è la quarta ondata e certi raduni in presenza rischiano di non essere un buon biglietto da visita per i partiti politici. Alla fine, come ci ha detto Daniel Hegedüs, analista del German Marshall Fund, sarà un’occasione per costruire ponti. I sostenitori della costituzione di un nuovo gruppo dentro al parlamento europeo, come  Orbán, erano convinti che fosse necessario affrettarsi per avere più peso sulle nomine nelle istituzioni europee di metà mandato, ma ormai per questo è tardi.


A proposito del mattatore. Orbán ha perso il proprio posto dentro il Ppe, cerca famiglia ma, pur avendo un numero esiguo di europarlamentari, quindi un bottino ben poco conteso, non vuole accontentarsi delle famiglie degli altri. Punta a un gruppo nuovo, a una formazione che possa federare i sovranismi d’Europa e finalmente fare un’offensiva coordinata contro l’Ue da dentro l’Ue. Ma il suo progetto fatica a prendere forma: il suo carisma è indiscusso, ma come ci capita spesso di ricordare i sovranismi non si sommano, anzi come diceva la nostra amata filosofa Ágnes Heller, “finiranno tutti per prendersi a calci” tra di loro. “Non si tratta di una questione di controllo”, ci ha detto Hegedüs, “Orbán sarebbe comunque un player minore visto il numero dei suoi eurodeputati”, ma lui vuole manovrare, avere la regia, “perché quello che fa fuori dall’Ungheria è incredibilmente relazionato alla sua immagine domestica. Vuole far vedere che è lui il più influente dei politici europei dell’est”, insomma, ancor più adesso che ha delle elezioni per la prima volta non scontate davanti: è per questo che, seguendo il manuale del buon autocrate, ha già iniziato a dire che le ingerenze e le interferenze americane sono evidenti, ma gli ungheresi non si faranno spaventare da questo occidente che, a seconda del momento, è o fragilissimo o invadentissimo.


I dissidi polacchi. I primi a non essere sicuri di quanto sia opportuno costituire un nuovo gruppo al Parlamento europeo sono i deputati polacchi del PiS, che stanno piuttosto comodi dentro a Ecr, sono numerosissimi e unendosi con un partito come la Lega perderebbero il loro primato numerico. Unendosi a Orbán invece perderebbero quello ideologico. Inoltre c’è la questione delle amicizie internazionali: Fidesz e i partiti di Identità e democrazia hanno una simpatia più o meno spiccata per la Russia, cosa che spaventa molto il PiS. Il personaggio di cui diffidano di più è Marine Le Pen e l’incontro a Varsavia, ci dice Hegedüs, potrebbe servire a creare un coinvolgimento con la parte francese. Quando il sito di notizie ungherese 444 aveva pubblicato la notizie che il gruppo era pronto, che Kaczynski, Orbán e Salvini si erano già messi d’accordo, i polacchi sono stati i primi a smentire: “Gruby Fake”, ha scritto su Twitter l’eurodeputato Tomasz Poreba. Enorme bugia. Ma nel PiS c’è chi si chiede perché non essere più potenti tutti insieme, e la voce degli scontenti risponde al potentissimo ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro, che non è del PiS, ma ha dei fedelissimi dentro al PiS. Il premier Morawiecki invece è più pragmatico e dice che non vale la pena di lasciare Ecr: ha un occhio rivolto alle prossime elezioni quando si aspetta che i voti per il loro alleato italiano, Fratelli d’Italia, cresceranno di parecchio.  E’ un investimento sul futuro e non ha senso far arrabbiare proprio adesso Giorgia Meloni. La decisione ovviamente non la prenderà Morawiecki, ma Kaczynski. 

 

Orbán e Le Pen sono convinti di volere un gruppo che tenga insieme tutte le destre. Gli altri frenano, i polacchi per primi

 

Gli assenti italiani. Giorgia Meloni è stata in effetti la prima ad arrabbiarsi e a lanciare ultimatum. Appena ha sentito l’odore di un gruppo unico ha rinunciato al viaggio a Varsavia, in cui sarebbe stata tra gli ospiti d’onore. Meloni preserva la sua posizione dentro ai Conservatori e riformisti, è la presidente del Partito, non vede bene l’idea di un nuovo gruppo nel quale dovrebbe esserci anche la Lega di Matteo Salvini e soprattutto non vuole farsi trascinare in un progetto che non condivide, che non è suo, che non controlla. Per cui, ha fatto sapere a Kaczynski che è anche pronta a rompere con lui, ma lei resterà in Conservatori e riformisti; lui inseguisse pure i filorussi, gli impresentabili, gli inconcludenti: lei rimarrà ben salda al suo trono da cui scruta la politica europea. I polacchi però sono l’azionista di maggioranza e a Varsavia Kaczynski ha invitato anche Santiago Abascal, leader del partito spagnolo Vox, se se ne andassero insieme, a Giorgia Meloni rimarrebbe un gruppuscolo insignificante di eurodeputati. Per il momento, le paure della leader di Fratelli d’Italia sembrano essere scongiurate: a Varsavia non si farà la rivoluzione sovranista. Per Matteo Salvini le cose si sono fatte ancora più complicate, se possibile. La Lega fa parte di Identità e democrazia, sta con Marine Le Pen ed è tra i motori di un progetto pansovranista a Bruxelles, assieme al Fidesz di Orbán. Ma ora Salvini è al governo, e governa con Mario Draghi, e il suo partito è pieno di istinti contrapposti, senza contare i progetti che nutre Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, che sono ambiziosissimi: vuole una Lega nel Ppe. Salvini rimarrà in Italia – per lui niente abbracci sovranisti, niente progetti rivoluzionari – in attesa di capire cosa vuole essere: un europeista o un euroscettico. 
 

La pontiera. Marine Le Pen vorrebbe, come Orbán, mettere tutti insieme, apre la casa di Identità e democrazia a chi vuole accomodarsi, porta in dote un pareggio con Emmanuel Macron alle europee e l’opportunità di sognare ancora l’Eliseo alle presidenziali del prossimo anno. Da sempre la Le Pen crede nell’effetto domino: lo disse dopo la Brexit, lo disse dopo l’elezione di Donald Trump, l’Europa vien giù una spallata alla volta, basta che nessuno si distragga. Proprio la possibilità di sconfiggere Macron e portare, prima assoluta, la Francia nel campo nazionalista, fa sì che polacchi e ungheresi, finora sordi al canto della sirena, accettino di dialogare. E non è nemmeno secondario il fatto che il Ppe in questo momento stia vivendo una fase di ridimensionamento: i tedeschi della Cdu non sono più al governo, quando si parla di poteri europei questa cosa fa molta differenza. 


Nelle nomine di metà mandato ci saranno parecchie scosse di assestamento, ma i sovranisti ancora non hanno trovato il modo di andare d’accordo. Anche perché li vediamo che parlano male dell’Ue, che vagheggiano improbabili exit e che poi aspettano trepidanti che Bruxelles sblocchi i fondi del Recovery fund. Segnali contro i loro progetti sono ovunque, anche a Varsavia, dove è arrivata la neve, con un po’ di timidezza, ed è  arrivato anche l’albero di Natale, che  viene messo nella Piazza del Castello e guarda con molto orgoglio e anche un po’ sfrontato, da lontano, lo stadio della capitale, che è sempre illuminatissimo, di bianco e di rosso. L’albero non è ancora stato acceso, ma ci ha colpito un dettaglio: la sua altezza. E’ alto ventisette metri, un numero che sa di unità, sa di Europa, e sembra un monito: anche oggi, la rivoluzione dei sovranisti si farà domani.