EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

I recovery plan degli altri e l'arte di fare la spesa

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Viaggio tra i piani di ripresa (e politici) dei paesi europei. Polemiche, rischi, delusioni e poche riforme nonostante i tanti fondi

Quasi trecento giorni dopo l’accordo sul Recovery fund, nel luglio dello scorso anno, i paesi europei devono consegnare i loro piani nazionali, che è come presentare il compito scritto a un esame. S’era pensato che chi consegnava per primo fosse avvantaggiato, ma come spiegheremo dopo non è così: è il momento del voto finale, cioè l’approvazione o promozione, che conta per poter ottenere i fondi in fretta. Certo, ora con la prova scritta già molte cose della volontà politica dei paesi europei si possono capire. Ma risuona il mantra dell’Ue degli ultimi mesi, cioè che i soldi ci sono ma bisogna saperli spendere bene. Siamo andate a curiosare cosa fanno gli altri paesi, abbiamo trovato polemiche, rischi e  delusioni. E ci siamo fatte un’idea dell’arte europea di fare la spesa.


Il risveglio dei frugali. Il gruppo dei paesi frugali rischia di risvegliarsi di fronte all’assenza di riforme strutturali serie nei piani nazionali di ripresa e resilienza legati al Recovery. “Sarà un’altra estate calda”, ci ha detto un diplomatico che ha osservato da vicino le reazioni di Paesi Bassi, Finlandia, Danimarca, Svezia e Austria. Nell’estate del 2020 i frugali avevano fatto resistenza alla creazione del Recovery fund, ottenendo garanzie sul rispetto, da parte dei paesi beneficiari degli aiuti dell’Ue, delle raccomandazioni specifiche inviate ogni anno dalla Commissione. Nella battaglia durata quattro giorni al Consiglio europeo del luglio dello scorso anno, il primo ministro olandese, Mark Rutte, aveva ottenuto un “freno di emergenza”, che di fatto equivale alla possibilità di mettere un veto alla proposta della Commissione di concedere aiuti a un paese che non adotta abbastanza riforme o è sospettato di sprecare i soldi. Quel freno di emergenza potrebbe essere già utilizzato a giugno o luglio. Nei Paesi Bassi in realtà regna l’imprevedibilità. Rutte è impegnato in difficili trattative per formare il suo quarto governo e al contempo deve fare i conti con i continui attacchi dei due leader eurofobi, Geert Wilders e Thierry Baudet. Una dimostrazione di forza a Bruxelles con i paesi che non fanno le riforme potrebbe aiutarlo a consolidare la sua maggioranza (in particolare con i cristiano-democratici della Cda) e rimettere al loro posto, cioè in un angolo, i due populisti antieuro. La politica interna potrebbe avere un impatto anche sulla posizione della Finlandia, che è appena scampata a una crisi di governo ed elezioni anticipate. La coalizione della premier Sanna Marin ieri ha trovato un accordo sul documento programmatico di bilancio per i prossimi quattro anni. Ma il Partito di Centro ha preteso un ritorno sulla strada del risanamento di bilancio, che prefigura un’attitudine più rigida anche a Bruxelles sul Recovery fund. Su Twitter, il direttore della Federazione finlandese dei contribuenti, Teemu Lahtinen, ha commentato così un articolo sul Recovery di Mario Draghi: “In Italia i sussidi dell’Ue contro il Covid saranno utilizzati per attuare una riforma del fisco volta a ridurre le tasse pagate dagli italiani (…). In Finlandia nei negoziati sul bilancio si sta valutando la possibilità di aumentare le tasse per i finlandesi. Aspetta un attimo”. Come se non bastasse, la Finlandia deve ancora ratificare la “decisione sulle risorse proprie” dell’Ue, cioè lo strumento legale che permette alla Commissione di indebitarsi sui mercati per finanziare il Recovery fund. La commissione costituzionale del Parlamento ha deciso che servirà una super-maggioranza dei due terzi dei deputati per la ratifica, invece della maggioranza semplice. Il via libera dipende dal partito di centrodestra Kokoomus, all’opposizione. Il suo leader, Petteri Orpo, ha annunciato l’astensione perché “non vogliamo portare l’Europa al caos”. Questo dovrebbe abbassare la soglia, ma c’è già un gruppo di ribelli anti Recovery. “Voterò contro il pacchetto di stimoli dell’Ue perché accelererà l’azzardo morale, eroderà lo stato di diritto e porterà l’Ue verso un’unione dei trasferimenti”, ha scritto su Twitter un parlamentare di  Kokoomus, Janne Heikkinen.

 


Un diplomatico ci racconta le reazioni dei paesi “frugali” ai primi piani presentati: attenzione all’estate


 

Il mito del chi arriva primo. La corsa tra stati membri a chi presenta per primo il piano nazionale di ripresa e resilienza legato al Recovery fund è stata vinta dal Portogallo, che ha sottoposto formalmente il documento alla Commissione venerdì 23 aprile. Ieri è stata la volta di Grecia e Germania. Altri seguiranno oggi e domani. Ma la gara è più simbolica che altro. La scadenza del 30 aprile è stata considerata “soft” dalla Commissione. Diversi paesi non la rispetteranno a causa delle difficoltà a redigere i piani e dei negoziati con Bruxelles sulle bozze. La Finlandia ha annunciato che ci sarà un ritardo di qualche settimana. I Paesi Bassi, vista l’incertezza nei negoziati per la formazione del nuovo governo, dovrebbero  slittare alla seconda metà dell’anno. Nessun dramma. “Meglio la qualità che la velocità”, dicono alla Commissione. Anche perché la voce che chi prima arriva per primo avrà i soldi è un mito. La Commissione ha due mesi per valutare i piani e fare una proposta di approvazione agli stati membri. Il Consiglio avrà un altro mese per esprimersi. Solo dopo quel via libera potranno iniziare ad arrivare i prefinanziamenti del Recovery: un anticipo del 13 per cento della somma complessiva allocata a ciascun paese (per l’Italia sono circa 20 miliardi). “L’importante non è chi presenta per primo, ma il paese o il gruppo di paesi il cui piano sarà approvato per primo”, ci spiega un funzionario dell’Ue. In ogni caso la Commissione non ha ancora deciso se farà i primi versamenti in blocco a ciascuno stato membro oppure con un sistema pro rata suddividendo l’anticipo in vari esborsi. Ci vorrà comunque del tempo per raccogliere i fondi sui mercati. Se non ci saranno intoppi nel completamento delle ratifiche della decisione sulle risorse proprie, le prime emissioni per finanziare il Recovery ci saranno in luglio. Per il prefinanziamento di tutti gli stati membri servono circa 100 miliardi, mentre la Commissione ritiene che la capacità di assorbimento dei mercati sia tra i 15 e i 20 miliardi al mese. A Bruxelles minimizzano le conseguenze di un ritardo. “Sono risorse che finiscono nel bilancio nazionale annuale degli stati membri. E l’anno finisce il 31 dicembre”, dice il funzionario dell'Ue.

 

Il ghiaccio di Francia e Spagna. Parigi e Berlino hanno presentato insieme i loro Recovery fund, come a dire: il motore franco-tedesco è il più veloce e armonico, gli altri pretendenti al cuore europeo possono restare in fila. Messaggio a parte, i due piani sono abbastanza deludenti. Per la Germania ci sono delle attenuanti: prende meno fondi dall’Ue e ha meno riforme da fare. Per la Francia le attenuanti non valgono, ancor più se il ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire, a domanda diretta del giornalista: dov’è la ciccia delle riforme?, risponde: “Non sono vegetariano ma troppa carne fa male alla salute”. Nel piano francese manca la tanto attesa riforma delle pensioni, e l’unica “ciccia” di fatto è la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione. La Spagna, che pure aspira a ricevere 20 miliardi entro l’anno (è il secondo paese a beneficiare di più dei fondi, dopo l’Italia) tende al rinvio: se le riforme si faranno, sarà nel 2022. La gestione spagnola del Recovery fund è stata un pochino bizzarra: i ministri hanno presentato le linee guida due o tre volte, il consiglio dei ministri lo ha approvato in forma di bozza e il governo sta limando il testo per arrivare in tempo alla scadenza della consegna, il 30 aprile a mezzanotte.      

 


La carenza di riforme in Francia e Spagna e l’entusiasmo di Grecia e Portogallo, gli allievi migliori


 

Il blocco polacco. Tutte le crepe del governo polacco sono venute fuori con la ratifica della decisione sulle risorse proprie. Il PiS, il partito più grande della maggioranza, litiga con i compagni di coalizione, soprattutto con Polonia solidale, un partito non molto grande ma molto bravo a ricattare il governo. A Polonia solidale il Recovery fund non piace, non gli piacciono le condizionalità sullo stato di diritto e non gli piace l’idea che la Polonia si assuma un debito assieme a tutta l’Europa. Varsavia è tra i maggiori beneficiari del piano e il PiS sa bene quanto quei soldi siano necessari anche per mantenere alto il consenso,   quindi  ha iniziato da qualche settimana a cercare il sostegno dell’opposizione, che si è trovata davanti a un dilemma molto grande: meglio salvare la Polonia dai  nazionalisti o salvare l’Europa? Il piano del più grande partito d’opposizione, il Po, era quello di dare il suo sostegno, ma di imporre delle condizioni: avrete il nostro voto se noi potremo vigilare su come questi soldi verranno spesi. La paura è che il PiS li spenda in modo clientelare,  facendo investimenti nelle aree che governa. I piani dell’opposizione però sono stati stralciati martedì  quando i rappresentanti di Sinistra, un partito che in polacco si chiama Lewica, sono andati a incontrare il premier Mateusz Morawiecki e gli hanno detto che sono pronti a dare il loro voto senza condizioni, tanto non ha senso imporle. L’opposizione ha così perso un’occasione enorme e tutto perché Sinistra non ama il Po, lo ritiene un partito troppo conservatore. L’ex premier ed ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che del Po è uno dei fondatori,  ha mandato su Twitter un messaggio molto chiaro a Sinistra: “Un’opposizione che sceglie una tattica di sopravvivenza anziché una strategia di vittoria non vincerà. Ed è anche improbabile che sopravviva”.

 

Ungheria, attenzione. Che il piano di Viktor Orbán andasse tenuto sotto osservazione lo sapevano già a Bruxelles, ma in pochi si sarebbero aspettati tanta sfacciataggine. Venerdì scorso il leader ungherese era andato a trovare Ursula von der Leyen per un colloquio privato, Budapest ha bisogno di soldi e ne ha bisogno in fretta, è tra le economie più dissestate dopo la pandemia. Ci sono anche le elezioni il prossimo anno e Fidesz, il partito di Orbán, vuole vincerle. L’idea è che i soldi europei possano mantenere alto il consenso, ma in Ungheria i fondi di Bruxelles sono andati soprattutto nelle tasche di uomini vicini a Orbán. E un piano simile è previsto per il Recovery. L’Ungheria vorrebbe spendere gran parte del denaro europeo per “modernizzare le università” e detta così, l’idea, sembra lodevole. Ma martedì il Parlamento ungherese ha approvato una legge che stabilisce che i beni statali vengano trasferiti a nuove fondazioni guidate dai suoi alleati. Le università fanno parte di questo pacchetto e il quinto del piano che Orbán vuole spendere per “modernizzarle” finirebbe nelle mani di questi miliardari che da anni lo aiutano a vincere le elezioni.

 

I primi della classe. Non ci sono soltanto storie di liti e tentativi di prendere i soldi e scappare via. Ci sono paesi che i compiti li hanno fatti davvero. Portogallo e Grecia sono stati puntuali, seri e hanno lavorato sui loro piani in modo minuzioso.  Il piano del Portogallo che prevede 13,9 miliardi di sovvenzioni e 2,7 miliardi di prestiti si concentra soprattutto su transizione ambientale e digitale. La Grecia anche ci ha lavorato per sei mesi e ha fatto più di cento incontri con i funzionari della Commissione perché il piano da 31 miliardi uscisse bene. Finora ha il nome più bello di tutti, Greece 2.0, punta tutto sulla digitalizzazione e il premier Mitsotakis, uno che le occasioni non se le lascia sfuggire, vuole che da questo progetto esca fuori davvero una nuova Grecia. L’entusiasmo di Lisbona e Atene è forse la miglior risposta a chi definisce il Recovery un programma da Troika. E lo sanno bene le due nazioni che sono state le più interessate dai processi di salvataggio dopo la crisi del debito. Qui non ci sono riforme imposte dall’alto, tutto è proposto dai governi nazionali, per questo le condizionalità del Recovery sono molto diverse. Ma Portogallo e Grecia sanno sicuramente molto meglio di tutti gli altri europei come funzionano  e questo ha dato loro un vantaggio nella stesura dei piani. Ma c’è un altro dato politico, che è importante, e che ha fatto di questi due ex malati d’Europa dei bravi allievi. Oggi Portogallo e Grecia puntano a rafforzare una parte di riforme che hanno già dovuto fare negli anni passati e che adesso hanno l’occasione di migliorare ancora. 

 

La spesa europea rimane uno dei progetti più ambiziosi che l’Ue tutta insieme abbia mai realizzato. Sono ricominciate le tensioni e le divisioni, e c’è chi cerca di non stare ai patti ma questi piani sono il tentativo di riprendersi il gusto per il futuro. Che si presenta in ventisette modi diversi ma la sintesi sarà questa Europa che  impara insieme a saper spendere. 

(ha collaborato David Carretta da Bruxelles)

Di più su questi argomenti: