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Le 48 ore del blitz contro la Superlega

Paola Peduzzi e Micol Flammini

La guerra del calcio europeo ha usato un format che conosciamo bene, quello del “popolo contro élite”. E’ l’esito che non è quel che sembra

E’ durato quarantotto ore suppergiù il blitz dei leader europei – l’Europa delle nazioni, compresa la fuggitiva Gran Bretagna – contro la Superlega del calcio, quarantotto ore in cui ci siamo dimenticati dei vaccini, delle mascherine, dei russi appollaiati sull’Ucraina, dell’estate, dei pass verdi; quarantotto ore in cui abbiamo recuperato un grande classico della narrazione europea e occidentale: il popolo contro le élite. Per questo persino noi che, scusateci, non conosciamo e non comprendiamo il romanticismo del tifo e del tifoso, ci siamo appassionate a queste quarantotto ore di tempesta. Forse perché il tifo o il calcio sono soltanto una parte della storia. In “Condition of England”, lo scrittore Lincoln Allison scriveva (era il 1981): “Il calcio è importante. E’ parte del tessuto della vita inglese in molti modi diversi. Ha un impatto sulle speranze, sui sogni e sul senso dell’identità personale dei milioni di persone che lo seguono, che ci scommettono sopra, e delle centinaia di migliaia di persone che lo giocano o lo guardano dal vivo”.  Alexander Stubb, ex primo ministro liberale finlandese, ha commentato l’annuncio della Superlega così: “Penso che la discussione sarà molto colorita. Ha tutti gli ingredienti chiave: l’identità, lo sport, i soldi, la storia, la tradizione, la dimensione, il potere, la disruption, l’ego, la politica. Sarà una discussione burrascosa”. Così è stato: un dibattito breve come un blitz, sconvolgente come le tempeste forti. Quindici squadre tra le più grandi del mondo (nel calcio il confine europeo è quello mondiale: si chiama eccellenza) hanno cercato di rivoluzionare – o riformare o uccidere: dipende molto dal tifo, il termine che vi risulta più appropriato – il sistema calcistico europeo e sono state respinte in due giorni soltanto. S’è sciolta l’alleanza dei quindici, di fatto. Per le pressioni dei tifosi e dei politici che hanno intercettato, forse perché molto sensibili al tema, la rabbia dei tifosi. E anche perché l’alleanza dei quindici non era solida: non era stata costruita bene, è stata comunicata ancora peggio,  e gli interessi in gioco erano diversi. Così ha vinto il popolo ma con l’appoggio dell’élite, quella esistente e non quella che ha tentato la disruption. Ha vinto lo status quo, come si dice, che in questo caso porta il nome di un’istituzione, la Uefa, che in realtà non piace né al popolo né alla nuova élite. Questa forse è la più grande delle ipocrisie di questa storia di guerre e rivolte, in quarantotto ore.

 


“Boris Johnson non ha guidato la rivolta, l’ha seguita”, ci dice Kuper: “E’ scattato l’istinto populista del premier inglese”


 

La falange europea. Un coro di no così unanime e armonioso non lo avevamo mai sentito da parte dei leader europei e quasi ci siamo dette: se la stessa unità venisse applicata alla politica estera, l’Ue sarebbe un colosso. Abbiamo girato attorno a tutti questi no e a ben guardare ci siamo accorte che tanta unità altro non era che una somma di campanilismi. In un congiungimento quasi astrale, per la prima volta in anni i sentimenti dei Ventisette, anzi dei Ventotto, si sono allineati. Dal Regno Unito, Boris Johnson ha definito la Superlega un piano dannoso per il calcio e ha subito dato il suo plauso alle misure punitive annunciate dalla Uefa (fulcro dello status quo istituzionale, che ha definito i secessionisti “serpi” e “bugiardi”). Poi il coro si è alzato da tutte le parti. La Superlega è stata bocciata in Francia da Emmanuel Macron ma anche dalla rivale (e antieuropeista) Marine Le Pen. In Italia anche uno strano connubio di partiti politici ha formato un forte e impenetrabile muro contro il nuovo torneo. In Spagna Pedro Sánchez, il più quieto di tutti, alla fine ha bocciato il progetto, pare spinto dal compagno di coalizione Podemos. Contrario anche l’ungherese Viktor Orbán, per ragioni quasi surreali dette da lui: la Superlega divide l’Europa ed è contro la solidarietà europea. Forse è proprio la contrarietà ungherese ad aver mostrato le sfaccettature della falange europea: non tanto l’unità, quanto una somma di interessi nazionali. Le lamentele nazionali sono comunque arrivate presto a Bruxelles dove la parola più utilizzata è stata: “valori”. Margaritis Schinas, il commissario al chiacchieratissimo European way of life, ha detto che bisogna difendere “un modello di sport europeo che sia basato sui valori”. Altre parole molto citate sono state “diversità e inclusione” e il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha detto che “lo sport deve essere di tutti”. Mariya Gabriel, commissario per l’Istruzione e la Cultura ha scritto su Twitter che i danni della Superlega potrebbero essere “irreversibili” e che la bellezza del calcio è che le “favole possono avverarsi”.  

 

La falange britannica. Il governo di Boris Johnson ha convocato immediatamente le Big Six, le sei squadre inglesi entrate nella Superlega: Chelsea, Manchester City, Manchester United, Liverpool, Arsenal, Tottenham. Quando i presidenti si sono presentati davanti a Johnson, il più era già stato fatto: i giornali di tutte le parti politiche e i tifosi avevano iniziato la loro controrivoluzione. Ci dice Simon Kuper, editorialista del Financial Times esperto tra le tante sue cose anche di sport, che Johnson “non conosce il calcio e non ne sa niente”, doveva solo decidere da che parte stare, se con la nuova élite o con il popolo. “Johnson non ha guidato la rivolta, l’ha seguita – dice Kuper – I suoi consiglieri devono avergli detto: tutti i media sono contro la Superlega, tutti i tifosi sono contro la Superlega, di’ qualcosa anche tu contro. Era una rivolta popolare e l’istinto populista di Johnson è scattato”. Andrea Agnelli, presidente della Juventus che avrebbe dovuto essere il vicepresidente della Superlega, ha detto alla Reuters di aver sentito “speculazioni” sul fatto che “se sei squadre se ne fossero andate e avessero così minacciato la tenuta della Premier league britannica, i politici inglesi avrebbero visto questo fatto come un attacco alla Brexit e al loro schema politico”. Il governo inglese, ormai vittorioso, ha respinto la lettura di Agnelli: il motivo dell’intervento del governo, della minaccia di “una bomba legislativa” contro le Big Six, è “l’importanza che il calcio ha nel cuore delle nostre comunità”. Il governo insomma ha seguito il popolo, un popolo così ampio e variegato poi, quando gli ricapita più? 

 

L’attacco americano. I giornali inglesi sono anche stati i più agguerriti nei confronti dell’“attacco americano”, ma il continente è stato un terreno molto fertile. Simon Kuper spiega questo “sentimento anti americano” in termini culturali: “Chi investe nello sport in America fa soldi. E’ un business, lo sport. In Europa molti proprietari di club anche forti non hanno mai fatto grandi soldi con lo sport, sono diverse le ragioni che li hanno portati ad ‘avere una squadra’. Questa è una differenza culturale enorme, e quindi se la Superlega diventa l’espressione di una logica americana, allora l’istinto è quella di rifiutarla”. Il calcio europeo è ancorato alla geografia e alla storia, ed è per questo che l’elemento nazionale – e la sua deriva nazionalista – è stato così potente. L’unità europea contro la Superlega, questo popolo contro la nuova élite, ha poco di comunitario e molto di locale, e non è un caso che il nazionalismo più ammaestrato che c’è in Europa, cioè quello inglese, sia stato il più potente.

 

L’attacco del neoliberismo. Kuper dice che forse ci siamo trovati di fronte alla più grande rivolta popolare contro il neoliberismo mai sperimentata di recente. Il progetto della Superlega “è estremamente elitario, è come costruire un palazzo stupendo in cui praticamente non entra nessuno”, dice, “e come abbiamo visto anche in politica negli ultimi dieci anni, c’è stata un’associazione tra élite e neoliberismo, e naturalmente con il profitto”. Quindi se la Superlega si costruisce su un presupposto di profitto, arriva il rifiuto del popolo perché “il calcio è comunità, storia familiare, un riferimento che non cambia mai”. Quando si dice “identità”, si intende questo. Se poi a questo sentimento così forte si unisce il concetto di profitto, in una cultura europea in cui il denaro è sempre visto con sospetto, come dimostra la polemica continua con Big Pharma quando si discute della fermezza europea sui vaccini, ecco che il risultato è inevitabile: tutti contro. In nome di che cosa? Di un’altra forma di oligarchia, quella che esiste già, ma che ormai è status quo.

 


“Come per incanto, la Uefa ha trovato in due tre giorni un investitore privato”, ironizza il direttore di So Foot


 

Oligarchi vs oligarchi. “Che rimonta del football business contro il super football business!”, ha twittato martedì sera Pierre Maturana, direttore del magazine sportivo più cool di Francia, So Foot. Pur essendo ostile, radicalmente ostile, all’idea di una Superlega elitaria, Maturana non ci sta a far passare Aleksander Ceferin, il boss della Uefa, per il “buon samaritano” che ha salvato il calcio dai ricchi cattivoni. “Vedendo quello che volevano fare i dodici club all’origine della Superlega ci siamo detti un po’ tutti che il male minore era la permanenza della Uefa. Tuttavia, ciò che mi infastidisce e dà un gusto amaro alla vittoria del momento è che ora ci ritroviamo costretti a tifare per lei, ma allo stesso tempo ne siamo strumentalizzati”, ci dice il direttore di So Foot. “I tifosi non sono sciocchi. Sappiamo bene che la nuova Champions League assomiglierà molto a una Superlega, con posti riservati a una certa classe di squadre e a chi ha un ranking Uefa più alto. E come per incanto, la Uefa ha trovato in due tre giorni un investitore privato che mette sul tavolo più di 4 miliardi di euro. Siamo di fronte a un’oligarchia che risponde a un’altra oligarchia. La Superlega è stata criticata perché dietro aveva i finanziamenti di JP Morgan, ma la Uefa che chiama un investitore britannico per mettere diversi miliardi sul tavolo non è da meno. Siamo nello stesso genere di calcio: il football business”. Dietro il no del Paris Saint-Germain alla Superlega e la retorica del “calcio è di tutti” del patron qatariota Nasser al Khelaifi, c’è un’altra dose di ipocrisia, secondo il direttore di So Foot: “Diciamo che la loro è una posizione facile. Quando sei il Psg e puoi permetterti di acquistare giocatori a duecento milioni di euro, pagando loro uno stipendio di quaranta milioni all’anno, è più facile indignarsi. Se il Psg avesse avuto problemi di soldi non sono così sicuro che la posizione sulla Superlega sarebbe stata la stessa. Definirli dunque i grandi salvatori del calcio europeo mi sembra un po’ troppo”. Maturana cerca comunque il lato positivo, in fin dei conti lui stava con il popolo e il popolo ha vinto. “C’è stato un risveglio dei tifosi di tutta Europa e un’unione ritrovata tra europei e inglesi – dice – Hanno fermato un colpo di stato, come ha detto bene l’allenatore del Sassuolo, Roberto De Zerbi. Il calcio è dei tifosi, del popolo. Spero che i club lo abbiano capito, una volta per tutte”.

 

La Superlega ha vissuto quarantotto ore e si è sciolta. Ognuno ha una propria idea sul perché del fallimento: molti dicono che è una questione di comunicazione, cosa che a noi ricorda le discussioni sul protocollo europeo, il divano e la sedia alla corte di Erdogan. Non è solo forma, non è solo calcio.  


(ha collaborato da Parigi Mauro Zanon)

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