EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

La tonalità di verde che va più forte in Europa

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Un viaggio tutto green alla ricerca di idee e leader che sappiano trovare l’equilibrio tra rispetto dell’ambiente e costi della transizione ecologica

C’è stata una piccola rivoluzione la scorsa notte in Groenlandia, una terra in mezzo all’Europa e all’America, sotto la corona danese ma autonoma, uscita dalla Comunità economica europea con sprezzo e orgoglio perché non sopportava la politica comunitaria sulla pesca (sì, proprio come i pescatori britannici, che un po’ però oggi sono pentiti), corteggiata da Donald Trump che voleva addirittura comprarsela. La piccola rivoluzione è il partito Inuit Ataqatigiit che ha conquistato il 37 per cento dei voti, l’undici per cento in più rispetto all’ultima volta, spodestando il partito socialdemocratico Siumut, che ha dal 1979 il monopolio quasi assoluto sulla politica della Groenlandia. La prima dichiarazione di Mute Egede, leader di Inuit Ataqatigiit, trentaquattro anni e attivista per l’ambiente fin da quando frequentava l’unica università del paese, a Nouk (ma non l’ha finita, è andato a lavorare con i suoi genitori), è stata: “Il popolo ha parlato”, il progetto Kvanefjeld “non si farà”. Il Kvanefjeld è un immenso sito minerario che è considerato il secondo più importante al mondo per le terre rare (i minerali che sono indispensabili per costruire, tanto per fare un esempio, superconduttori, microchip, magneti, fibre ottiche laser, schermi a colori) e il sesto giacimento al mondo di uranio, un tesoro naturale di quelli unici su cui ha messo gli occhi mezzo mondo – australiani e cinesi ci hanno messo anche molti soldi. L’Inuit Ataqatigiit era contrario allo sfruttamento di questo giacimento, ha fatto campagna soltanto su questo tema – ovviamente il Siumut era a favore – e ha avuto un successo straordinario. 

 

Ora vi starete chiedendo perché dovrebbe interessarci questa microscopica vittoria in una terra gelata di frontiera in cui abitano 56 mila persone che sono europei perché prendono dei sussidi ma rivendicano un’autonomia assoluta. La prima ragione è globale: le terre rare ci riguardano tutti, e il primo produttore al mondo, ma che esporta sempre meno facendo fruttare la rarità, appunto, è la Cina. La seconda ragione è quella che ci interessa oggi, perché l’Inuit Ataqatigiit è un partito che si definisce “socialista e ambientalista” e ha appena ottenuto una vittoria che molti partiti ambientalisti europei guarderanno con invidia. Questa sinistra verde infatti non è contraria a priori allo sfruttamento dei giacimenti, ma è contraria agli sfruttamenti “dirty”, cioè a quelle operazioni che darebbero sviluppo, crescita e benefici economici ma hanno un costo ambientale elevato. In sostanza con questo voto la Groenlandia dice: non sacrificheremo le nostre terre e l’ambiente per un po’ di benessere in più. Tutti i partiti ambientalisti d’Europa, e l’Unione europea stessa con il suo Green Deal, cercano lo stesso punto d’equilibrio tra la tutela dell’ambiente e gli investimenti, i progetti economici, che solitamente hanno un’impronta ambientale piuttosto grande. Per questo la Groenlandia racconta una storia molto europea, che oggi vogliamo approfondire. Solo l’ultimo paradosso sulla “Terra verde”: è considerata una linea sul fronte della battaglia contro il cambiamento climatico, e secondo gli scienziati l’anno scorso lo scioglimento dei ghiacci qui è stato da record. Eppure proprio questo cambiamento ha reso la Groenlandia molto più accessibile e quindi appetibile e quindi contesa e quindi ricca. Ecco perché trovare il punto di equilibrio è così difficile, in tempi di pandemia poi, in cui tutto è scarso, non ne parliamo.

 


In Groenlandia un partito “socialista e ambientalista” ha ottenuto una vittoria che fa invidia a molti verdi europei


 

L’allineamento transatlantico. All’inizio di marzo, l’inviato speciale dell’Amministrazione Biden per il clima, John Kerry, è arrivato a Bruxelles per rinsaldare l’alleanza anche sulla questione ambientale. Kerry è uno degli americani più conosciuti in Europa, intrattiene relazioni personali con molti suoi interlocutori di qui dall’Atlantico e portava in dote un dono atteso ma comunque importante: il reintegro dell’America nel Trattato sul clima di Parigi, da cui l’Amministrazione Trump era uscita. A novembre poi a Glasgow ci sarà la ventiseiesima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (la Cop26) e l’intenzione è quella di sventolare in faccia alla Cina l’alleanza transatlantica virtuosa anche sull’ambiente. Fin qui c’è quel che tutti vediamo. Poi ci sono le regole da applicare, gli standard da stabilire, i costi e i benefici a livello globale di una maggiore attenzione al nostro pianeta. Il centro studi Bruegel si è messo a studiare il Green Deal europeo in tutti i suoi dettagli e in particolare quello che definisce “la più grande preoccupazione per gli Stati Uniti e gli altri paesi”: il meccanismo di adeguamento della co2 alle frontiere, il cosiddetto “carbon border adjustment”. Nel discorso sullo Stato dell’Unione, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, aveva detto: “Le emissioni di anidride carbonica devono avere un prezzo – perché la natura non può più rimetterci”. Si tratta in poche parole di un dazio ambientale che da un lato permetterebbe di evitare la concorrenza sleale da parte dei paesi che non si stanno impegnando a sufficienza sul clima, ma dall’altro spingerebbe alcune aziende europee a delocalizzare la produzione, sfruttando le regole più permissive adottate al di fuori dei confini comunitari (si va a inquinare altrove, insomma). Gli americani sono preoccupati per le loro esportazioni, soprattutto di carbone e di gas naturale. Ma sono anche preoccupati per quello che viene chiamato “l’effetto Bruxelles”: l’Ue è diventata molto abile nel definire gli standard. Una professoressa della Columbia University, Anu Bradford, ha messo in fila tutti gli ambiti in cui questo effetto ha avuto il sopravvento e ci ha scritto un libro che si intitola “The Brussels Effect: How the European Union Rules the World”. La privacy, la digital tax, la sicurezza dei consumatori sono gli ambiti più citati, ma la cosa interessante è come questo effetto si sviluppa: l’Ue non impone gli standard direttamente, ma le aziende extraeuropee finiscono per rispettarli perché così possono operare senza problemi nel mercato europeo. Ecco perché sul Green Deal, abbracci e convergenze a parte, anche America ed Europa devono trovare il loro equilibrio.    

 

La battaglia nei partiti.  Per capire le sfumature e le differenze della galassia verde europea ci siamo rivolte a Monica Frassoni che è stata per dieci anni co-presidente del Partito dei Verdi europei assieme a Daniel Cohn-Bendit, un precursore. Oggi presiede la European Alliance to Save Energy ed è stata eletta in Belgio presidente del Consiglio comunale per il partito Ecolò a Ixelles. A livello europeo i partiti da guardare con attenzione sono quattro: i Verdi tedeschi, quelli austriaci, i francesi di Europe Écologie le Vertes (Eelv) e i belgi di Ecolò. Ognuno ha le proprie caratteristiche, ma non sono sfumature, ci dice Frassoni, sono vere differenze “che vengono poi leggermente attutite nel lavoro dentro al Parlamento europeo. Le differenze derivano dal sistema politico e dalla cultura politica dei vari paesi”. In Germania, il sistema decentrato ha fatto sì che pur essendo lontani dal governo federale dal 2003, i Grünen oggi siano alla guida di  vari  Länder  con le coalizioni più disparate. “Queste libertà e autonomia di schieramento sarebbero impensabili per i Verdi francesi, anche perché per i tedeschi non è necessario fare alleanze prima del voto, il loro voto è tutto per il partito e questo ha la sua importanza”. In Francia è più comune e necessario allearsi prima delle elezioni, soprattutto al secondo turno. “E poi c’è destra e destra”, ci dice Frassoni. Un’alleanza con la Cdu di Angela Merkel non è poi così innaturale per i Grünen. “Il panorama politico francese è molto più irrequieto, ma i risultati ottenuti dai Verdi  sono stati grandi nelle elezioni locali e ora che si discute chi sarà il candidato della sinistra contro Macron e contro la destra per le presidenziali, sono  in pole position”. In Belgio Ecolò è al governo nella regione di Bruxelles e in Vallonia. In Austria sono stati molto bravi a recuperare consenso dopo anni di assenza in Parlamento, “hanno superato un’importante crisi interna – ci dice Frassoni – pur accettando  un’alleanza complessa come quella con i conservatori di Sebastian Kurz, la  convivenza è difficile, ma gestiscono leve economiche importanti come   clima, ambiente e trasporti”. Ognuno di questi partiti, seppur di successo, ha le sue difficoltà. Le convivenze non sono semplici “e pur con un forte seguito elettorale non è facile essere verdi e portare avanti le battaglie”.

 


C’è un “effetto Bruxelles” che gli americani temono molto: l’Ue è diventata molto brava a definire gli standard, senza imporli


 

Verdi centristi in Germania. I Grünen sono sicuramente i più conosciuti e i più chiacchierati tra i partiti verdi d’Europa. Quelli che tutti guardano per capire quanto cambierà la Germania dopo Angela Merkel. Hanno da poco ottenuto una vittoria, prevista ma importante, nel Baden-Württemberg, dove è stato riconfermato il ministro presidente uscente Winfried Kretschman, un verde atipico, che si definisce liberale, sempre attento ai conti e anche ai flussi migratori. Per alcuni verdi è quanto di meno verde possa esserci, ma il partito è fatto di molte anime, a cominciare dalla coppia che lo guida. Lei, Annalena Baerbock, preparata e moderata, lui, Robert Habeck, più incendiario e popolare. A fine marzo il partito ha proposto un nuovo programma, un manifesto chiamato “Germania, tutto è possibile”, con cui sono passati ufficialmente dalla posizione di partito di opposizione a partito che aspira non soltanto al governo federale, ma perché no, anche alla cancelleria. Il programma è composto da 137 pagine e nella prefazione si legge: “Dopo un’èra di politica a corto respiro, noi rappresentiamo una forza di resistenza, una bussola dotata della giusta assertività per guidare il nostro paese – nel cuore dell’Europa, di fronte al mondo – verso un futuro migliore”. Ma quello che tutti hanno notato è che si tratta di un programma meno radicale, che guarda a un elettorato più ampio e alla conquista del voto centrista. Finora il partito aveva rosicchiato soprattutto il consenso dell’Spd, ma l’obiettivo è guardare altrove, magari agli elettori della Cdu, quelli un po’ disorientati dalla fine dell’èra Merkel. Il manifesto, che subirà delle modifiche da qui a settembre, al centro ha la questione climatica. Un futuro governo a trazione verde in Germania potrebbe avere delle ricadute anche in Europa. Monica Frassoni ci ha detto che “se i Grünen andranno al governo, i verdi europei dovranno essere bravissimi a gestire la potenza dei Verdi tedeschi”, perché in alcune questioni come l’energia, il settore industriale e anche a livello europeo sono  un partito che  tende alla contraddizione. C’è chi spera che una coalizione tra Cdu e Verdi possa migliorare alcuni dossier che la Germania ha gestito in modo ambiguo, e che hanno condizionato tutta l’Ue, come i rapporti con la Cina e la Turchia, ma questi cambiamenti non sono scontati. “Credo che saranno molto prudenti, alcuni cambiamenti li vedremo, magari anche dal punto di vista della governance”. 

 


Monica Frassoni: “Pur con un forte seguito elettorale non è facile essere un verde e portare avanti le proprie battaglie”


 

Prove di convivenza in Francia. A giugno in Francia ci sono le elezioni regionali che sono viste come un assaggio o una grande prova generale delle presidenziali dell’anno prossimo. Nell’Hauts-de-France, la regione più a nord del paese che s’affaccia sulla Manica (Calais e Dunkerque sono qui, per intenderci), è stata fatta una lista che per ora è un’eccezione in Francia: tutti i partiti, dai comunisti fino al Partito socialista, passando dai Verts e dalla France Insoumise, si sono alleati contro la destra e la loro leader è un’esponente del partito ecologista,  Karima Delli. L’alleanza nasce da un trauma, a dire il vero: nel 2015, alle ultime regionali, al primo turno stava per vincere il partito di Marine Le Pen e la sinistra tutta divisa aveva ottenuto un risultato piuttosto misero. Questa volta la sinistra si prepara, sceglie la formula donna-ambiente che è quella di più successo e tace sulle divisioni. Un esempio è il nucleare: i Verdi sono contrari come la France insoumise; il Ps è più interlocutorio e il Partito comunista è a favore. Ma sono dettagli, la sinistra in Francia come altrove deve esistere e vivere, e la Delli, che è anche europarlamentare nella commissione Trasporti e Turismo, sembra interpretare lo slancio più radicale del movimento verde europeo. Approfittiamo della pandemia, dice, siamo ambiziosi, tagliamo il traffico aereo che inquina tantissimo, e facciamo veramente le città senza auto. Ed è questo il modo prevalente con cui la Francia intende i suoi Verdi, il motivo per cui il modello dell’Hauts-de-France fa drizzare i capelli in testa quando vi si fa accenno a livello nazionale.

 


In Germania i Grünen fanno prove di centro, i verdi francesi si esercitano in  coalizione a sinistra  nell’Hauts-de-France


 

E in Italia? L’Italia è tra quei paesi in cui il  verde non si porta molto e le motivazioni sono tre, ci dice Monica Frassoni. La prima è determinata dalla cultura politica, in cui media e mondo politico non considerano le   questioni ambientali un motore del consenso. “In Germania, in Francia, in Belgio, il tema della transizione ecologica è un tema di consenso centrale”. Il secondo problema è legato all’organizzazione politica, sono un partito debole che non riesce a crescere. La terza motivazione va cercata nel rapporto tra politica e associazioni. “Il mondo associativo non ama la politica e quindi non ama neppure i verdi, in Francia Yannick Jadot è un ex di Greepeace. Da noi le associazioni ambientaliste non hanno mai scommesso sui Verdi”.

 

L’Europa sta ancora cercando la tonalità di verde che meglio possa rappresentare la sua sensibilità sulla questione ambientale, il suo impatto nella politica interna e nel suo ruolo geopolitico. E’ una ricerca che, come tante altre cose, la pandemia ha complicato: da un lato ci ha mostrato quanto poco inquina un mondo mezzo chiuso, dall’altro però ha sottolineato quanto sia costosa la transizione ecologica e, in un momento come questo di crisi, quanto rischi di non essere prioritaria, nonostante sia tra le voci più importanti del piano di ripartenza europeo. Però la buona notizia è che, a occhio, la tonalità di verde che ci starà meglio addosso sarà europeista, moderata, pragmatica e consapevole. Se vince poi, ci facciamo un abito da sera.  

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