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EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

Che succede se Mr Europe ce l’abbiamo noi

Paola Peduzzi e Micol Flammini

I due discorsi di Mario Draghi che circolano di più a Bruxelles, i nuovi equilibri, la visione europea e i primi commenti dalle capitali

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Quando si incontrarono per salutarsi, negli ultimi giorni di ottobre del 2019, Angela Merkel ringraziò Mario Draghi per il suo contributo a salvaguardare la stabilità dell’Unione europea. La cancelliera tedesca usò un’espressione precisa per dare il senso del lavoro fatto insieme, non sempre d’accordo, non sempre sulla stessa linea, ma insieme: grazie per il ruolo che hai avuto e hai voluto interpretare nel “concerto europeo”. I due erano a Francoforte, era la festa di addio per Draghi, che lasciava la guida della Banca centrale europea a Christine Lagarde, e c’erano molti leader europei, c’era il presidente italiano Sergio Mattarella, c’era quel sentimento leggero e determinato che hanno i sopravvissuti che non pensano più al pericolo scampato, ma alla prossima avventura. Nel concerto europeo, Draghi è quello che salva, il crisis manager più efficiente che c’è, poche parole ma che restano perché le ha pronunciate lui: provate a risentire il premier britannico Boris Johnson che, uscito dall’ospedale dove era stato ricoverato per il Covid, ripete lo slogan celebre “whatever it takes” applicandolo alla lotta alla pandemia. L’effetto è quasi comico, come tutti gli “yes we can” finiti in bocca a chi non è Barack Obama. L’esercizio europeo è sempre trovare un’armonia che renda piacevole il concerto, ma ognuno ha il proprio ruolo, le proprie parole: per questo siamo andate a vedere come risuona la voce unica di Mario Draghi in Europa, la sua visione, la sua eredità, le attese anche ora che le stelle dell’ordine liberale occidentale si riallineano, e una forse splenderà sopra l’Italia. 

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Quando si incontrarono per salutarsi, negli ultimi giorni di ottobre del 2019, Angela Merkel ringraziò Mario Draghi per il suo contributo a salvaguardare la stabilità dell’Unione europea. La cancelliera tedesca usò un’espressione precisa per dare il senso del lavoro fatto insieme, non sempre d’accordo, non sempre sulla stessa linea, ma insieme: grazie per il ruolo che hai avuto e hai voluto interpretare nel “concerto europeo”. I due erano a Francoforte, era la festa di addio per Draghi, che lasciava la guida della Banca centrale europea a Christine Lagarde, e c’erano molti leader europei, c’era il presidente italiano Sergio Mattarella, c’era quel sentimento leggero e determinato che hanno i sopravvissuti che non pensano più al pericolo scampato, ma alla prossima avventura. Nel concerto europeo, Draghi è quello che salva, il crisis manager più efficiente che c’è, poche parole ma che restano perché le ha pronunciate lui: provate a risentire il premier britannico Boris Johnson che, uscito dall’ospedale dove era stato ricoverato per il Covid, ripete lo slogan celebre “whatever it takes” applicandolo alla lotta alla pandemia. L’effetto è quasi comico, come tutti gli “yes we can” finiti in bocca a chi non è Barack Obama. L’esercizio europeo è sempre trovare un’armonia che renda piacevole il concerto, ma ognuno ha il proprio ruolo, le proprie parole: per questo siamo andate a vedere come risuona la voce unica di Mario Draghi in Europa, la sua visione, la sua eredità, le attese anche ora che le stelle dell’ordine liberale occidentale si riallineano, e una forse splenderà sopra l’Italia. 

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In Europa si fa fatica a trattenere l’entusiasmo, e il ruolo dell’Italia ora può cambiare. Le voci degli altri


 

Grazie! La Commissione europea non ha trattenuto l’entusiasmo di fronte alla prospettiva di Draghi alla testa del governo italiano. “Grazie presidente Mattarella!”, ha twittato il commissario all’Economia, Paolo Gentiloni, martedì sera dopo la convocazione al Quirinale dell’ex presidente della Bce. Ieri il vicepresidente della Commissione, Margaritis Schinas, ha detto: “Non sorprenderà nessuno se dico che Mario Draghi è rispettato e ammirato in questa città (Bruxelles, ndr) e al di là”. I messaggi di congratulazioni di Ursula von der Leyen arriveranno solo quando ci sarà la fiducia: chi segue la politica italiana ai piani alti della Commissione sa che “i numeri” in Parlamento “contano più di ogni altra cosa e non sono ancora una certezza”, ci dice una fonte interna. Ma Draghi rappresenta per la Commissione “un cambio di paradigma” sui piani dell’Italia per il Recovery fund, ci dice la stessa fonte. La bozza che era stata adottata dal governo Conte era considerata carente su molti punti, uno più di tutti: le riforme strutturali. L’obiettivo del Recovery fund non è solo la “ripresa”, ma anche e soprattutto la “resilienza”. Per quanto possa apparire brutta, la parola indica la necessità di rafforzare il potenziale di crescita delle economie dell’Ue. Con un pil che è inferiore a quello pre crisi finanziaria del 2008 e con un debito al 160 per cento, la “resilienza” è considerata centrale per il futuro dell’Italia. I 209 miliardi del Recovery fund dovrebbero servire ad accompagnare riforme per aumentare produttività e competitività, comprese quelle socialmente e politicamente più dolorose. 

 

Quel che ci si aspetta dall’Italia. L’elenco delle raccomandazioni della Commissione è pubblico: “Spostare la pressione fiscale dal lavoro, in particolare riducendo le agevolazioni fiscali e riformando i valori catastali”; “attuare pienamente le passate riforme pensionistiche” (tornare alla Fornero); “garantire che le politiche attive del mercato del lavoro e le politiche sociali siano efficacemente integrate” (riformare il reddito di cittadinanza); “migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione” e “ridurre la durata dei processi”; “affrontare le restrizioni alla concorrenza” (altre liberalizzazioni); “favorire la ristrutturazione dei bilanci delle banche”, e altro ancora. Senza dimenticare la necessità assoluta per l’Italia di “perseguire politiche di bilancio volte a conseguire posizioni di bilancio a medio termine prudenti e ad assicurare la sostenibilità del debito”. Draghi dovrebbe inserire tutto questo (con tappe e calendari precisi) nel piano nazionale di ripresa e resilienza e presentarlo a Bruxelles il più rapidamente possibile (in teoria già nella seconda metà di febbraio, anche se la scadenza è fine aprile). Il discorso di Draghi che circolava di più ieri a Bruxelles era il suo intervento all’Università Cattolica dell’11 ottobre 2019 su “policy making, responsabilità e incertezza” tutto incentrato su “conoscenza, coraggio e umiltà”. 

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La visione dell’Europa di Draghi. C’è un altro discorso di Draghi che inizia a circolare a Bruxelles, quello all’Università di Bologna del 22 febbraio 2019: contiene la sintesi del suo pensiero sul futuro istituzionale della zona euro. Ne aveva già parlato negli anni precedenti, per esempio nel 2015, superata la fase acuta della crisi del debito sovrano: “Deve esserci un salto di qualità nella convergenza istituzionale” per passare “da un sistema di regole e raccomandazioni per le politiche economiche nazionali a un sistema di ulteriore condivisione di sovranità all’interno di istituzioni comuni”. Il salto di qualità è un salto federale su politica di bilancio e riforme strutturali con istituzioni comuni in stile Bce (anche se Draghi ha sempre evitato di usare la parola “federale” per ovvie ragioni politiche). Il discorso di Bologna può diventare molto rilevante in vista del dibattito che si aprirà nel corso dell’anno su quando e come riattivare il Patto di stabilità e crescita. La questione non è solo quando tornare al 3 per cento del deficit: le regole fiscali attuali della zona euro andranno aggiornate, se non interamente riformate. Le questioni poste da Draghi nel suo discorso a Bologna saranno centrali: “Le regole, se applicate con discrezionalità, perdono di credibilità”. Al contempo servono “istituzioni (che) dispongano di flessibilità nel perseguimento dei loro obbiettivi”.

 

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Gli equilibri nuovi. L’arrivo di Draghi al Consiglio europeo (in realtà il ritorno: vi sedeva come presidente della Bce) è destinato a modificare i rapporti di forza tra i 27. I due pesi massimi nel consesso dei capi di stato e di governo sono Angela Merkel e Emmanuel Macron. La cancelliera tedesca è la decana ed è la più rispettata. Il presidente francese si impegna per dimostrare di non essere da meno. Dentro il Consiglio europeo quel che conta di più è l’autorevolezza. Ci si può agitare e dimenare molto, alla fine della discussione è il più autorevole che si impone. Merkel ne è maestra. Nel 2012, l’allora premier italiano Mario Monti le tenne testa  sull’unione bancaria. “Draghi potrebbe essere in grado non solo di cambiare l’Italia, ma anche il modo in cui funziona l’Ue”, ha scritto Pierre Briançon su Barrons. “La presenza di un peso massimo incontestato negli incontri dei capi di stato e di governo cambierà l’equilibrio di potere dell’Ue a lungo dominato dal duo franco-tedesco” con Draghi destinato a essere “una delle voci più autorevoli al tavolo dei leader”. L’Italia “diventa fortissima sul piano europeo”, ci conferma un diplomatico brussellese. Semmai a Bruxelles la preoccupazione è quanto (ed eventualmente per quanto tempo) Draghi sarà forte a Roma.

 

L’ordine globale. Alexander Stubb quando ci parla di Draghi lo chiama per nome. L’ex primo ministro finlandese, ex presidente della Bei  e oggi direttore della School of Transnational Governance dell’Eui di Firenze lo ha conosciuto per la prima volta a   crisi finanziaria appena iniziata. “Ho avuto il privilegio di lavorare con lui ai tempi della crisi, sono sempre stato un suo sostenitore, come lo sono stato di Mario Monti. Due Super Mario per la dedizione, la professionalità nelle istituzioni italiane ed europee”. Ci dice Stubb che se lui stesse cercando qualcuno per risolvere una crisi in qualsiasi paese del mondo, non esiterebbe a chiamare Draghi, “parafrasandolo: I will do everything it takes to have Mario to help me out. Dalla prospettiva di un grande amante dell’Italia e di un europeista, credo sia una  scelta importantissima”. Draghi sembra un nuovo tassello di un mondo che torna in ordine, che esce lentamente dalla sbornia nazionalista e trumpiana. Sembra un altro segnale di ricomposizione, come Joe Biden alla Casa Bianca. “Se il mondo sta davvero tornando in ordine è presto per dirlo. Abbiamo il vizio di iperazionalizzare il passato, iperdrammatizzare il presente e sottostimare il futuro. Credo che la pandemia ci abbia portati a un momento in cui il mondo passato sia messo in discussione, ma probabilmente ci aspettano altri anni di crisi, di tensioni sociali e scommesse. L’Europa ha il Recovery che una cosa importante e un’occasione da non sprecare. Le sfide sono molte e ci sono motivi di ottimismo. Biden e Draghi non credo siano il segno di un ritorno dell’ordine e della stabilità, ma  è meglio gestire con loro questi tempi di trasformazione”. Ci sono due cose a cui badare e da distinguere, dice Stubb: la visione d’insieme e il rumore quotidiano. “La visione d’insieme è la grande notizia: è arrivato Mario Draghi. Il rumore quotidiano ci dice che ci sono tantissime sfide da affrontare, malcontenti da gestire, proteste. E’ parte della democrazia”. 

 


Sullo slogan whatever it takes sapete tutto, ma ci piace molto la frase subito dopo: “E credetemi, sarà abbastanza”


 

Il côté francese. “L’euro ha attraversato una crisi esistenziale estremamente profonda ed è sopravvissuto grazie a Mario Draghi. Il suo mandato è stato coronato dal successo. Certo, è stato un successo collettivo al quale hanno contribuito diversi fattori, a partire dalle decisioni politiche di alcuni stati membri dell’Ue, ma è innegabile che la Bce guidata da Draghi abbia avuto un ruolo fondamentale per salvare l’unione monetaria”. Per Nicolas Véron, economista francese, cofondatore del think tank brussellese Bruegel e ricercatore presso il Peterson Institute for International Economics di Washington, è un’ottima notizia l’arrivo di Draghi a Roma: non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa. “Draghi è stato un eccellente comunicatore nei confronti dei mercati. E’ riuscito a far passare determinati messaggi e a creare delle percezioni collettive fra gli investitori che hanno contribuito al successo della sua politica. A più riprese, nel corso della crisi attraversata dall’euro, la sua leadership individuale e la sua capacità di persuasione e strategica hanno fatto la differenza”. Ieri mattina, l’ambasciatore francese in Italia, Christian Masset, ha pubblicato sul suo account Twitter una foto della sua scrivania, dove troneggiavano i tre principali quotidiani italiani che annunciavano la salita di Draghi al Colle. Uno scatto da cui traspare il gradimento della diplomazia parigina. “Draghi conosce bene la Francia e c’è un legame forte con Parigi, attraverso un certo numero di personaggi chiave a lui connessi nel mondo parigino. La prossimità tra l’ex presidente della Bce e la Francia riflette più in generale la vicinanza culturale tra le élite italiane e francesi”, ci dice Véron, prima di aggiungere: “Questa prossimità è stata sicuramente uno degli elementi chiave del successo di Draghi alla Bce, ma lo è stata anche la capacità di creare un’adesione presso l’opinione pubblica in Germania all’inizio del suo mandato, per mezzo di un lavoro molto approfondito attraverso i media tedeschi”. Con Christine Lagarde, attuale presidente della Bce, c’è un rapporto di fiducia. “Lagarde ha contato molto su Draghi. E’ di dominio pubblico che Draghi le abbia dato molti consigli su come operare, ed è qualcosa di positivo visto che Lagarde ha molta esperienza politica, ma non altrettanta come banchiere centrale”.

 

Il côté tedesco. “Non ho capito il perché di una crisi scoppiata nel mezzo di una pandemia ma di Draghi posso dire che non ha solo grandi competenze ma è anche dotato di non comuni doti diplomatiche”. Marcel Fratzscher deve anche lui, come molti europei, controllare l’entusiasmo. “Su Draghi quasi non riesco a essere oggettivo”, dice il presidente dell’Istituto tedesco per la ricerca economica di Berlino (Diw). L’apprezzamento non si limita a quanto fatto per salvare l’euro nella tempesta finanziaria: la loro frequentazione era anche personale. Oggi Fratzscher è uno degli economisti più in vista in Germania: di scuola keynesiana, è ascoltato e rispettato anche dai non pochi colleghi seguaci della dottrina ordoliberale. Fratzscher ha guidato per undici anni la divisione Analisi politiche internazionali della Bce, lavorando per almeno due alle dipendenze di Draghi. “Spero non gli manchi l’appoggio della politica”, ha aggiunto Fratzscher. Il colpo di scena italiano coincide con l’avvio di un dibattito quasi rivoluzionario in Germania: è stato Helge Braun, ministro (Cdu) alla Cancelleria a lanciare la proposta: le “regole d’oro” del Fiscal Compact per il pareggio di bilancio devono essere stralciate dalla Costituzione tedesca. Per Fratzscher “noi tedeschi siamo ossessionati dall’idea dei debiti mentre questa è una proposta logica”, tanto più che fra transizione energetica, transizione digitale e passaggio all’industria 4.0 la Germania avrà bisogno di “un piano di massicci investimenti pubblici nel prossimo decennio”, al pari degli altri paesi europei. Gli investimenti in debito non sono negativi se finalizzati a produrre ricchezza. “L’aspetto centrale è semmai quanto un governo debba pagare di interessi”, ha poi sottolineato, ricordando che oggi quelli pagati da Berlino sono vicini allo zero. “Ma non è stato Draghi a far scendere gli interessi come molti credono in Germania: sono gli effetti ancora non superati della crisi finanziaria”, ci ha detto. Fratzscher ha concluso il suo intervento con una nota di ottimismo: se gestiremo bene la crisi, “saremo all’inizio di un nuovo umanesimo”.

 

Il libro. “Mario Draghi, l’artefice” è un libro uscito proprio mentre Mattarella annunciava che avrebbe convocato l’ex presidente della Bce. Una magnifica coincidenza, un tempismo invidiabile. I giornalisti di Bloomberg che lo hanno scritto, Jana Randow e Alessandro Speciale, hanno ripercorso “la vera storia dell’uomo che ha salvato l’euro”, dal “Mario, è fatta”  con cui Jean-Claude Trichet comunicò a Draghi che sarebbe diventato presidente della Bce, al senso di smarrimento allo scadere del suo mandato, in cui tutti a Bruxelles e Francoforte si sono domandati “E adesso?”. Adesso deve formare un governo in Italia, Christine Lagarde che ha scritto la prefazione del libro dice che gli elementi che contraddistinguono il suo amico Mario sono  tre: intelligenza, integrità e leadership. Caratteristiche fondamentali, ma, secondo Alessandro Speciale, che su Bloomberg ha raccontato la Bce, ciò che porterà Draghi all’Italia sarà “una grande rete di conoscenze che gli permettono di partire con una dote di fiducia e di credibilità in Europa che effettivamente nessun altro ha. Draghi è una figura ascoltatissima”. Le attese sono tante e altissime, deve fare una troika a casa sua, cioè nostra, e magari il termine “tecnico” gli starà un po’ stretto. “Draghi – ci dice Speciale –  ha dimostrato di avere forte istinto politico al Tesoro e anche alla Bce, quando ha creato consenso, ha costruito maggioranze, ha  trasformato  le idee in policy, in cose concrete che accadono veramente”. Anche qui ci sarà da creare una maggioranza, cercare consenso, certo Roma non è Francoforte. “Draghi è una persona che pratica l’arte del possibile, il compromesso per lui serve per far accadere le cose, non è un concetto  al ribasso. Bisognerà vedere se quello che funzionava bene nel mondo della finanza funzionerà anche nell’agone della politica italiana”. 

 

A proposito di “whatever it takes”: sullo slogan del 2012 sapete tutto, ma quel che ci piace di più è ciò che Draghi disse subito dopo la celebre frase. Faremo tutto quello che ci è possibile, certo, ma soprattutto: “Believe me,  it will be enough”. “Credetemi, sarà abbastanza”. E’ questa oggi la nostra stella. 


(hanno collaborato David Carretta da Bruxelles, Mauro Zanon da Parigi, Daniel Mosseri da Berlino)

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