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L’Europa alla finestra

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Gli europei sono risentiti con Trump ma dipendono da lui, vogliono salvare l’accordo con l’Iran ma conoscono i pericoli. Chi è il nemico più nemico? La parola agli esperti (Poi c’è un campanello che non suona più, per fortuna)

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Molti in Europa citano una frase che l’Alto rappresentante Josep Borrell, il capo della diplomazia dell’Unione europea, disse un anno fa in un’intervista: “Comunque la guardi, c’è un disaccordo assoluto tra gli Stati Uniti e l’Europa. E’ un divorzio sui valori”. La relazione transatlantica era già in crisi, Angela Merkel invitava i colleghi europei a rimboccarsi le maniche e ad agire senza dare più l’America per scontata, l’iniziale idillio tra Donald Trump e il presidente francese Emmanuel Macron, sancito dagli alberelli piantati insieme nel giardino della Casa Bianca (sono morti), era già svanito e si litigava su molte cose, dal ritiro statunitense dall’accordo di Parigi sul clima e da quello con l’Iran sul nucleare ai dazi.

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Molti in Europa citano una frase che l’Alto rappresentante Josep Borrell, il capo della diplomazia dell’Unione europea, disse un anno fa in un’intervista: “Comunque la guardi, c’è un disaccordo assoluto tra gli Stati Uniti e l’Europa. E’ un divorzio sui valori”. La relazione transatlantica era già in crisi, Angela Merkel invitava i colleghi europei a rimboccarsi le maniche e ad agire senza dare più l’America per scontata, l’iniziale idillio tra Donald Trump e il presidente francese Emmanuel Macron, sancito dagli alberelli piantati insieme nel giardino della Casa Bianca (sono morti), era già svanito e si litigava su molte cose, dal ritiro statunitense dall’accordo di Parigi sul clima e da quello con l’Iran sul nucleare ai dazi.

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Le cose non sono migliorate, anzi: la fiducia reciproca è pochissima. Per questo oggi molti citano Borrell e la sua frase sul divorzio annunciato, così come sottolineano che, all’indomani del blitz americano che ha ucciso il generale iraniano Qassem Suleimani, Borrell abbia insistito a invitare il ministro degli Esteri di Teheran, Javad Zarif, a Bruxelles per tenere aperto il dialogo e soprattutto per tenere vivo l’accordo sul nucleare, ormai boccheggiante. Così la domanda ha iniziato a correre veloce: non è che l’Europa detesta più Trump di quanto possa detestare l’Iran? Il giornalista di Politico Matthew Karnitschnig ha messo a tema la questione, levando il punto interrogativo e spiegando “perché gli europei odiano più Trump dell’Iran”: a furia di sfidare l’Europa, di trattarla come una scroccona che approfitta della generosità americana, Trump è diventato un rivale da cui prendere le distanze, scrive Karnitschnig elencando tutte le reazioni europee e inquadrandole nella logica della sfiducia.

 

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In realtà, lo scoramento europeo nei confronti di un’America che vuole di continuo mettere alla prova l’alleanza non riguarda tutti. O meglio, i leader europei sono tutti un po’ sfiduciati, ma non per questo sono disposti a rinunciare alla relazione transatlantica. Basta guardare alla dichiarazione congiunta di lunedì di Merkel, Macron e Boris Johnson, che hanno evitato di criticare il raid di Trump contro Suleimani. Anzi: Germania, Francia e Regno Unito hanno sottolineato “il ruolo negativo giocato dall’Iran nella regione, in particolare dalla forza al Quds sotto il comando del generale Suleimani”. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si è subito allineata, contraddicendo le posizioni di Borrell molto comprensive nei confronti di Teheran. “E’ molto importante per me dire chiaramente che le origini della crisi vanno ricercate nelle forze vicine all’Iran”, ha ricordato lunedì la von der Leyen. Gérard Araud, che è stato ambasciatore francese a Washington e ha conquistato persino una tosta come Maureen Dowd – la columnist del New York Times lo ha intervistato nell’aprile scorso, mentre Araud faceva i bagagli portando a casa le bozze del memoir in arrivo e la collezione di Tintin, facendogli fare “Alexis de Tocqueville apposta per me” – ha scritto in un commento sul Point che l’Europa ha le stesse preoccupazioni americane sull’Iran, dalle aspirazioni nucleari al sostegno al terrorismo. “Possiamo pensarla come vogliamo su Trump e sull’uccisione di Suleimani, ma non dimentichiamo che il dato di base che ha portato l’America a rifiutare l’accordo sul nucleare era stato il comportamento aggressivo dell’Iran”. Araud cerca di ristabilire il rapporto causa ed effetto, dicendo che lo scontro non è inevitabile e che anzi a questo devono lavorare gli europei: ad aiutare l’America a gestire le conseguenze dello strike che ha ucciso Suleimani.

 

Ma l’Europa è in grado di dare questo sostegno? E soprattutto: vuole farlo? Molti trumpiani paragonano l’Europa ai democratici americani che, per usare un’espressione di Nikki Haley, ex ambasciatore all’Onu di Trump e considerata una ragionevole, “stanno piangendo la perdita di Suleimani”. Abbiamo posto la domanda a tre esperti, allargando lo sguardo dalla crisi attuale a quella più generale che ha ovviamente a che fare con la famosa (e famigerata e frusta) voce-unica-della-Unione-europea sulle faccende internazionali.

 

L’Ue ferita ma speranzosa

Allora, l’Europa odia più Trump dell’Iran?, abbiamo chiesto a Steven Erlanger, uno dei nostri interlocutori preferiti perché racconta il mondo da tanti anni sul New York Times con uno sguardo assieme spietato e carezzevole: “Se devo essere onesto, non so dire che temperamento rappresenti ‘l’Unione europea’ – dice Erlanger – E’ ferita dall’indifferenza di Trump e dalla sua competizione e dai suoi tentativi di far deragliare l’accordo sul nucleare iraniano, ma rimane chiaramente dipendente dagli Stati Uniti, e quindi speranzosa. Alcuni in Europa di certo detestano Trump più dell’Iran ma credo che l’Ue sia in fondo molto consapevole dei pericoli posti dall’Iran, sia in termini di terrorismo in Europa sia per il suo sostegno a gruppi come Hamas e Hezbollah, o al presidente siriano Assad”. E di Josep Borrell che ci dice? “Fin qui tutto bene. E’ una persona adulta, riconosce i limiti del proprio ruolo, anche se non li sopporta, e mi piace la sua impazienza. Può essere molto schietto per un diplomatico e non vorrà farsi nemici a Washington, cosa che invece temo abbia fatto Federica Mogherini”, Alto rappresentante nell’ultimo mandato concluso a ottobre. Per quanto riguarda la politica estera europea, “l’Ue non è un attore reale in questa crisi – dice Erlanger – I paesi della Nato vogliono proteggere le proprie truppe in Iraq e non vogliono concedere spazio allo Stato islamico. Ma oltre a chiedere la de-escalation, il dialogo e la conferma dell’impegno a mantenere l’accordo sul nucleare come hanno fatto Borrell e la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, l’Europa non può fare molto altro. Vorrebbe essere un interlocutore, ma questo è anche il sogno di Macron, quindi tanto per cominciare l’Ue dovrebbe mettere in prigione Macron”.

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La politica estera Ue, senza illusioni

Judy Dempsey è una delle massime esperte delle mosse dell’Ue in giro per il mondo, se ne occupa sia per l’istituto Carnegie, sia sul blog Strategic Europe, di cui è caporedattrice. Alla domanda se l’Ue avrà mai una politica estera comune, risponde: “Al momento non è possibile”. Il problema sta nel fatto che i 28 stati membri, o 27 ancora non sappiamo bene come contarli, non hanno una percezione comune della politica estera. “Ognuno vede le minacce e gli obiettivi secondo le proprie necessità. Per avere una politica estera comune bisognerebbe delinearla secondo un minimo comune denominatore, e già decidere quale sia è complicato”. Molto dipenderà dal ruolo che i grandi paesi europei decideranno di giocare. Se Francia e Germania inizieranno a lavorare insieme sulle loro prospettive, se l’Italia raggiungerà una stabilità politica e se la nuova coalizione spagnola reggerà, allora ci potrebbe anche essere una politica estera comune, ma c’è bisogno anche del sostegno dei paesi del nord. “Tuttavia credo che se Francia e Germania iniziassero a lavorare a stretto contatto, gli altri paesi li sosterrebbero perché ciascuno può aprire un dialogo con diversi gruppi di stati membri. Quello che succede nell’Ue rispecchia la situazione della Nato dove esiste una coalition of the willing, forse per avere una politica estera più robusta, creare delle coalitions of the willing di gruppi di paesi europei che condividono obiettivi e minacce comuni potrebbero essere una soluzione”.

 

Ursula von der Leyen parlando di una Commissione geopolitica ha voluto far capire che avrebbe portato avanti quello che Jean-Claude Juncker aveva iniziato: rendere la Commissione più politica, anche in politica estera, e l’Iran è la prima prova. “La Commissione non può essere più politica perché dipende dagli stati membri. Può essere politica per quanto riguarda il commercio, l’energia, la concorrenza, ma in fatto di sicurezza, difesa e politica estera no, perché segue le direzioni degli stati membri”, che seguono ognuno una propria direzione e una propria logica. Juncker sosteneva che fosse necessario iniziare a parlare con una voce sola e siamo ancora lontani dall’obiettivo. “Una politica estera forte non è possibile perché le nazioni sono divise sugli interessi strategici e sulle minacce. Per l’Italia le minacce vengono dalla Libia e dall’immigrazione. Anche per Grecia e Spagna vengono dall’immigrazione, ma per la Francia e la Gran Bretagna vengono dal terrorismo e dal fondamentalismo e per i paesi del nord dalla Russia”. Le voci sembrano essere troppe e poco inclini a cantare tutte insieme: “Se c’è una mancanza di direzione da Bruxelles allora i paesi possono accumulare ancora più influenza e portare avanti i propri interessi”.

 

Un po’ di fiducia per Borrell

Che cosa vuol dire “Commissione geopolitica?” Lo abbiamo chiesto a Susi Dennison dello European Council on Foreign Relations (Ecfr): “Per me vuol dire che la Commissione può mettere insieme i differenti aspetti del potere europeo nell’interesse di tutti gli stati membri. Vuol dire anche che l’Europa come attore in politica estera non dipende soltanto dal suo potere diplomatico, ma ha un suo peso nelle organizzazioni internazionali”. L’ambizione piace un po’ a tutti, ma è nella pratica che l’idea di una commissione geopolitica piace un po’ meno ai paesi membri, “nessuno stato è disposto a sacrificare il proprio controllo e le singole capacità di avere un suo ruolo sulla scena globale”. Al di là delle difficoltà, per Susi Dennison, un’Ue forte in politica estera servirebbe davvero e la situazione in medio oriente lo dimostra, è una questione che riguarda tutti, “ma il problema anche qui rimane sempre la volontà degli stati di emergere, dei leader che davanti al proprio pubblico vogliono mostrare che ciò che è stato realizzato è stato fatto da loro e non da Bruxelles”. Eppure secondo i sondaggi, Ecfr ne ha realizzati molti durante le elezioni europee, i cittadini dicono di essere a favore di una maggiore cooperazione europea, la paura di non andare avanti sta tutta a Bruxelles. Per sbilanciarsi su Josep Borrell è ancora troppo presto, dice la Dennison che però si fida della sua promessa di voler rendere la politica estera dell’Ue più forte, più incisiva: “Ha buoni rapporti con i ministri degli Esteri per la sua esperienza da ministro degli Esteri in Spagna e questo è motivo di ottimismo”. Ma secondo lei, l’Ue odia più Trump dell’Iran? “Non credo. I dati dei nostri sondaggi dicono che la preoccupazione nei confronti delle mosse di Trump è tanta, ma sul fatto che l’alleato numero uno dell’Unione europea sia l’America non ci sono dubbi”. L’uccisione di Suleimani non ha portato nuovi screzi e divergenze nelle relazioni transatlantiche, gli europei ci sono rimasti male che Donald Trump non li abbia avvisati, “ma c’è allo stesso tempo la consapevolezza e il desiderio di tutte le parti europee e dei politici di continuare a lavorare con gli Stati Uniti, ma enfatizzando come sempre il proprio ruolo, tenendo l’accordo con l’Iran al centro”.

 

Un po’ di sfiducia per Borrell

La Commissione von der Leyen che si vuole “geopolitica” si ritrova a fare i conti con una crisi geopolitica enorme senza avere le idee chiare su cosa fare. Ieri la presidente ha convocato una riunione straordinaria del suo collegio per mettere al lavoro tutti i commissari sulla questione Iran. Molti sono rimasti stupiti dal piglio della von der Leyen nel dare istruzioni a Borrell. E’ stata la presidente della Commissione, e non l’Alto rappresentante, ad annunciare formalmente la convocazione di una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dell’Ue per domani. E’ stata sempre la von der Leyen a indicare che la priorità di Borrell nei prossimi giorni è salvare l’accordo sul nucleare. “Nel medio termine, tu non risparmierai sforzi per dialogare con tutti i partecipanti al fine di salvaguardare l’accordo nucleare iraniano”, ha detto la presidente della Commissione rivolgendosi direttamente all’Alto rappresentante. Poi c’è il ruolo sempre più importante che si sta ritagliando Charles Michel in politica estera. Il presidente del Consiglio europeo ieri ha affiancato l’Alto rappresentante per un incontro con Fayez al Serraj sulla Libia e ha annunciato che sabato sarà a Istanbul e al Cairo per incontrare il turco Recep Tayyip Erdogan e l’egiziano Abdel Fattah al Sisi. Il “borrellismo” sull’America è finito prima ancora di cominciare?

 

Brexit drama, la seconda stagione

I negoziati per la seconda fase del divorzio del Regno Unito dall’Unione europea inizieranno il 1° marzo. David Henig, un esperto di commercio internazionale che ha lavorato per il governo britannico, dice che le trattative inizieranno con i servizi finanziari, poi si passerà alla pesca (siamo prontissime: sappiamo anche la differenza tra un eglefino e un merluzzo) e alla protezione dei dati; l’ultima parte riguarda la gestione dell’Irlanda del nord, ed è molto complicata (ne abbiamo avuto già un assaggio). La lista non è completa, ci sono altri dossier, e le aziende inglesi che operano nel settore aerospaziale, delle auto, chimico, dei cibi e delle bevande, dei prodotti farmaceutici hanno già fatto sentire la propria voce sull’obiettivo inglese di liberarsi il più possibile dagli orpelli regolamentativi dell’Ue. “Dealignment” sarà una delle parole che sentiremo citare più spesso (è più comprensibile di “backstop”, almeno) assieme al mantra europeo che è “level playing field”, cioè “parità di condizioni”. La von der Leyen è arrivata ieri a Londra per la sua prima visita, accolta da una serie di ritratti sui giornali che ricordano i suoi anni londinesi di musica e feste e di una certa leggerezza nel non chiudere mai per bene la porta di casa. In un’intervista allo Spiegel di questa settimana, la presidente della Commissione europea ha detto che il “Brexit drama è già ora una lezione amara per tutti quei populisti che fantasticano sull’uscita dall’Ue”. Nel discorso alla London School of Economics (che aveva frequentato per un anno come studente) ha ricordato i pilastri principali dell’approccio europeo: non c’è free trade senza free movement, questo è quel che dice l’Ue da tre anni. Voglio un accordo “con zero dazi, zero quote, zero dumping” in modo da garantire una “protezione dei dati e una sicurezza condivisa”, ha detto la von der Leyen. Il premier Boris Johnson ha ribadito: massima collaborazione, ma vogliamo un accordo di libero scambio, non un allineamento. La seconda stagione del Brexit drama sarà se possibile ancora più complessa della prima dal punto di vista tecnico, ma almeno a Londra questa volta c’è una maggioranza solida e i negoziatori potranno negoziare per davvero.

 

Il Fmi chiude l’ufficio ad Atene

Capisci che è finita quando non c’è più nemmeno un campanello cui attaccarsi, e per una volta questa è una buona notizia. Il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, ha annunciato che il Fondo monetario internazionale chiuderà il suo ufficio ad Atene nei prossimi mesi, “la collaborazione continuerà”, ma la Grecia ora è un paese che è venuto fuori dalla supervisione del Fondo: il sorvegliato speciale è libero. E può anche dire ai greci che i “cattivi” se ne andranno, la fase delle imposizioni è finita, si torna sui mercati e si prova a rinascere. Con un unico obiettivo: che non ci sia più bisogno di suonarlo, quel campanello.

 

Ritratto di famiglia con Butina

La vita di Maria Butina, la ragazza russa arrestata a Washington nel 2018 con l’accusa di spionaggio, è cambiata molto dopo il suo ritorno in Russia. Sapevamo che negli Stati Uniti aveva creato non pochi guai, aveva stretto un’amicizia strettissima con l’oligarca Aleksander Torshin che le aveva permesso di entrare in contatto con l’Nra (National rifle association), di avere rapporti con alcuni rappresentanti del Partito repubblicano americano e di spingersi fino a un passo da Donald Trump. Qualcuno sosteneva che Butina fosse proprio arrivata dentro allo Studio ovale durante un incontro tra il capo della Casa Bianca e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, ma è stato appurato che la ragazza rossa che spuntava nella foto ricordo dietro alla stretta di mano tra i due non era lei. La missione di Maria doveva essere quella di creare dei canali di comunicazione secondari tra il Cremlino e il presidente americano e, dopo il suo arresto, Mosca ha scatenato una campagna social in favore della ragazza con l’hashtag #freemariabutina, l’hashtag con il volto della ragazza appariva come immagine di profilo di diversi account ufficiali, Twitter e Facebook, di personaggi russi. Nel maggio scorso aveva fatto scalpore un video in cui la Butina chiedeva dei soldi per pagare il suo avvocato e Maria Zacharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, era intervenuta per dire che Mosca avrebbe fatto il possibile. A ottobre è tornata in Russia, dove è stata accolta in aeroporto, chiamata a parlare nelle università, ma Maria sembrava non avere più voglia di fare la vita di un tempo, basta con le associazioni, con gli oligarchi e basta con le armi. Così è ributtata su Instagram dove festeggia “il ritorno alla vita”: foto in treno verso il villaggio siberiano di Kulunda, “il posto in cui sono cresciuta, l’ultima volta ci sono stata cinque anni fa… che strana sensazione”. Maria e i gatti. Gattini ovunque. Maria in abito sportivo. E soprattutto Maria e la neve, neve che scende a rallentatore sui suoi capelli rossi. I fucili, veri o finti, di un tempo non si vedono. Maria Butina vuole dirci che è tornata in famiglia, magari solo per un po’.

(ha collaborato da Bruxelles David Carretta)

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