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L'analisi

Chi stringe d'assedio Macron

Stefano Cingolani

Anche l’élite non è più compatta intorno a le Président. Il risiko del capitalismo francese e lo sguardo alla destra italiana

Quando nel 2017 entrò nell’arena, o meglio si mise “En marche”, lo chiamarono “il cocco dei media e dei poteri forti”. La luna di miele è finita da tempo con il popolo e con l’élite, ma uno schiaffo così sonoro Emmanuel Macron non se lo aspettava. Ha tenuto duro e ha fatto approvare la riformina delle pensioni (appena due anni in più per un paese invecchiato e con un debito pubblico vicino al 120 per cento) ricorrendo a un escamotage del tutto lecito, ma inusuale, che assomiglia al voto di fiducia iper-sfruttato in Italia. Poi ha invitato al dialogo sociale. Senonché il Medef, il sindacato degli imprenditori, invece di ringraziarlo gli ha risposto picche. “Siamo pronti a negoziare, ma non in cento giorni come ha proposto il governo. C’è bisogno di tempo”, ha replicato con un tweet il presidente Geoffroy Roux de Bézieux, ex marine delle forze speciali combattente in Africa e Libano, diventato industriale nel vasto campo dei telefonini. I patron sono sempre loro, con buona pace di Monsieur le Président? ll calendario delle promesse macroniane è fitto: la riforma dei licei professionali deve essere chiusa entro l’estate, il “patto dalla vita al lavoro” entro fine anno per integrare la legge sulle pensioni, insomma c’è molto da fare se si ha voglia, e il governo promette di intervenire in mancanza di un’intesa tra le parti sociali. Le organizzazioni sindacali sono sul piede di guerra, il Medef si sta dividendo sulla scelta del nuovo presidente e non è in grado di prendere decisioni impegnative. In ogni caso, non è potente come l’italiana Confindustria, non ha strutture territoriali, non possiede giornali né altri media, tutela interessi spiccioli, non fa politica in modo diretto. Tuttavia Macron non si deve guardare solo dall’estremismo gauchiste e da Marine Le Pen; la morsa del dissenso interno si stringe insieme a quella della collera. Tutti si stanno riposizionando, come e attorno a chi non è chiaro, ma che stia avvenendo dal vertice alla base, questo è ormai certo. Per la verità, Macron non ha mai unito il capitale, semmai lo ha diviso tra un’ala riformatrice e uno zoccolo duro conservatore che, orfano della destra repubblicana, è in cerca d’autore oscillando tra chi vuol cavalcare la ribellione e chi punta alla “normalizzazione” dell’estrema destra, qualcosa di molto simile a quel che sta accadendo in Italia. Forse per questo riaffiorano i fremiti che si ripetono a fasi alterne almeno dal 1870 quando la Francia che tanto aveva fatto per l’unità d’Italia si sentì tradita dai “cugini” savoiardi che assaltarono Roma e travolsero gli zuavi papalini. La storia torna sempre a chiedere il conto. 

 

Macron non ha mai unito il capitale, semmai lo ha diviso tra un’ala riformatrice e uno zoccolo duro conservatore ora in cerca d’autore

 

Sul futuro della Francia, sulla sua collocazione in Europa e di qui sul rapporto con l’Italia che va a destra, oggi si divide anche la classe dirigente. Tutti si chiedono cosa succederà dopo Macron, visto che il presidente non può più essere rieletto e non ha eredi. Di qui al 2027 c’è un lungo triennio, quindi è presto per il toto candidati, le elezioni europee della prossima primavera saranno il punto di svolta, ma lo scossone impresso dalla tensione sociale si fa sentire anche nei circoli che contano, come le mitiche cene al club del Siècle, il più influente e trasversale, dove si mangia male ma si incontra bene, o in quel ceto davvero molto francese dal quale escono manager e alti funzionari di stato. Occorre stare attenti ai facili paragoni. A Parigi il vero potere forte è quello presidenziale, al quale fa capo un capitalismo di stato più esteso di quello italiano o tedesco, che spazia dai settori strategici come energia e difesa all’automobile (lo stato è l’azionista principale della Renault, ma ha anche un pacchetto strategico nel gruppo Stellantis dopo l’Exor di Elkann e la famiglia Peugeot). In Italia il potere economico è più articolato e dagli anni 90, quando sono entrati in crisi i partiti di massa, è più forte di quello politico. Tuttavia non bisogna dimenticare che anche l’assetto tradizionale transalpino è ormai scosso alle radici. I gollisti appaiono in via d’estinzione, così come il partito socialista, dunque i protagonisti che si sono alternati al potere dal 1958 con la vittoria di Charles de Gaulle fino alla presidenza Sarkozy hanno lasciato il posto a soggetti e movimenti in parte nuovi (Macron, Mélenchon, Zemmour, i gilet gialli, nuovi potenziali Poujade). In fondo l’unico partito forte dotato di una sua continuità storica è ormai quello lepenista, il Front National che oggi si chiama Rassemblement National. Nella destra moderata ci sono almeno sette partiti e partitini compreso quello chiamato “Caccia, pesca, natura e tradizione”. A sinistra almeno cinque. Il centro è egemonizzato da En Marche ribattezzato Renaissance, una formazione del tutto personale, centrata su Macron. Attorno a lui nel 2017 si era stretto un nucleo che metteva insieme l’alta finanza (i Rothschild), il lusso (in particolare Bernard Arnault), imprenditori rampanti nelle telecomunicazioni (Xavier Niel), grandi giornali e tv. Una scelta che ha spiazzato e tagliato fuori il residuo dei partiti storici. I francesi che conoscono “il laboratorio italiano” fanno il paragone con quel che è successo negli anni 90, cioè le operazioni parallele che hanno portato Silvio Berlusconi al governo e Romano Prodi a sfidarlo, entrambe concepite da nuclei di interessi industriali e bancari. Tuttavia ci sono forti differenze, la più importante delle quali è la tenuta del sistema istituzionale francese, più solido di quello italiano e per molti versi più impermeabile ai venti della politique politicienne. Ma fino a quando?

Il nocciolo originario è rimasto attorno a Macron, anche se è meno duro di un tempo. Arnault appare freddo (è la sua natura) ma leale, François Pinault non dà certo problemi. Tanto meno L’Oréal passata di madre in figlia: Françoise Bettencourt Meyers ha ereditato da Liliane un terzo del gruppo ed è diventata la donna più ricca del mondo, anche se lei preferisce il pianoforte e la lettura. I signori del lusso macinano profitti a man bassa, pagano bene i loro dipendenti, assumono e non licenziano, continuano a espandersi nel mondo intero, sono fiori all’occhiello del modello francese. Macron ha puntato molto sull’industria high tech, ha favorito start up, ha accompagnato l’espansione di nuovi imprenditori rampanti come Niel, il patron di Iliad, al suo fianco nel preparare la sua prima campagna presidenziale e pronto a sfidare Orange anche con una guerra dei prezzi che ha replicato in Italia.

 

Il nocciolo originario gli è rimasto attorno, anche se meno duro di un tempo. Arnault è freddo ma leale, Pinault e L’Oréal non danno problemi

 

A gennaio, il capo dello stato aveva invitato a pranzo i dirigenti dell’azienda nucleare pubblica Orano, dell’impresa di apparecchiature elettriche Schneider, il gruppo di software Dassault Systèmes, quello informatico Capgemini e il gigante dei cosmetici L’Oréal. Temi: la sfida americana, l’accorciamento della catena di valore, il rimpatrio di settori produttivi. Vasti progetti prima che le pensioni scatenassero una nuova jacquerie. Nel suo viaggio in Cina ai primi di aprile, Macron ha portato con sé la solita corte di patron e “pédégé” (il capo azienda in Francia è per lo più presidente e direttore generale), in rappresentanza di una cinquantina di grandi marchi tra i quali Danone, EDF, L’Oréal, Veolia, Airbus, le Club Med, Safran, Orano, BNP Paribas. Il presidente si è dato da fare anche per Dassault. Un contratto definito storico è stato firmato due anni fa con gli Emirati Arabi Uniti per 80 caccia Rafale nuovi di zecca ai quali si aggiungono 12 elicotteri Caracal sviluppati dalla Aerospatiale, il tutto per 16,6 miliardi di euro. Poco prima erano stati piazzati alla Croazia 12 Rafale già usati; ora Macron si è detto disponibile a fornire i velivoli francesi della Dassault anche all’Ucraina. Il presidente non ha nulla da temere dalle grandi banche: BNP Paribas le è sempre stata vicina, Société Générale si tiene fuori dalla politica, ma è comunque “istituzionale”, la Lazard che ha lanciato e sostenuto Vincent Bolloré e fa concorrenza ai Rothschild, ha fumato il calumet della pace reclutando l’ex consigliere presidenziale Philippe Englebert che si occupava delle questioni industriali all’Eliseo. Quanto ai media, il Figaro, il primo quotidiano nazionale, tradizionalmente conservatore e vicino ai gollisti, è controllato dal gruppo Dassault, non è pro, ma non è neanche contro, si copre con il detto di Pierre-Augustin de Beaumarchais stampato sotto la testata: “Senza la libertà di criticare non c’è lode genuina”, ed è sempre governativo. Le Parisien è di LVMH (Arnault). Nel capitale del Monde, oltre al gruppo spagnolo Prisa (El Pais), al polo d’indipendenza che comprende giornalisti, lettori, azionisti storici, ci sono Xavier Niel, Matthieu Pigasse, ex Lazard che si definisce socialista di mercato, e il magnate ceco Daniel Kretinsky. La vera minaccia viene da Bolloré, il grande nemico.

 

La vera minaccia viene da Bolloré, il grande nemico. Dopo l’uscita di scena di Sarkozy, anziché mediare con il nuovo Eliseo, s’è messo di punta

 

L’uscita di scena di Nicolas Sarkozy ha privato l’uomo d’affari bretone del suo principale referente politico, ma anziché mediare con il nuovo padrone dell’Eliseo s’è messo di punta. Ha cercato di creare una Fox francese che desse spazio a una politica e una cultura decisamente reazionaria: CNews, per la quale lavorava Éric Zemmour, s’è fatta spazio, è il secondo canale di sole notizie 24 ore su 24, con un’audience che resta nel recinto dell’estrema destra. La sua influenza sulle elezioni presidenziali del 2002 è stata un flop: Bolloré ha sostenuto Zemmour, tuttavia non è riuscito a scalzare Marine Le Pen dalla leadership a destra e dal secondo posto nella scacchiera politica del paese; anzi, alla fine paradossalmente ha contribuito alla conferma di Macron, sia pur indebolito nei consensi. Sconfitto in politica, s’è consolato con gli affari, strappando a Lagardère la casa editrice Hachette nonostante fosse sceso in campo contro di lui niente meno che Arnault, sollecitato da Sarkozy e ben visto da Macron. Ora l’Unione europea sta per decidere se autorizzare e a quali condizioni la fusione tra Hachette ed Editis, il ramo editoriale di Vivendi che diventerebbe il più grande gruppo francese e uno dei primi in Europa. Bolloré nel frattempo ha venduto, per aumentare le proprie munizioni e concentrasi sui media, la logistica nazionale e quella africana (porti e società di trasporti), anche se mantiene molti interessi estesi in Costa d’Avorio, Camerun, Nigeria, piantagioni e miniere che non fanno certo piacere ai colossi francesi del petrolio e dell’uranio (Total e Orano).

 

A destra cresce un sottofondo: perché non fare come l’Italia? Marine potrebbe diventare Giorgia? Lei dice di sentirsi più vicina a Salvini

 

Resta aperta la campagna d’Italia che non è stata certo trionfale per Bolloré: stoppato nella scalata a Mediaset (ne possiede tuttora il 23,2 per cento) dai governi (anche di centrosinistra), dalle authority e dalla magistratura che ancora indaga, ha dovuto ingoiare una perdita di tre miliardi di euro in Telecom Italia (oggi Tim). Non ha intenzione di mollare, ma non si capisce il suo progetto. Il proconsole Arnaud de Puyfontaine ha lasciato il consiglio d’amministrazione per tenersi le mani libere e tutti si chiedono come userà i diritti di voto legati al pacchetto del 27 per cento che ne fa il primo azionista della compagnia di telecomunicazioni. Secondo alcuni analisti, Bolloré gioca anche in Italia una carta politica, gli equilibri sono cambiati e senza dubbio si sente più affine a Giorgia Meloni; tuttavia avrà sempre contro Silvio Berlusconi e, di default, Matteo Salvini. Sotto l’insegna della italianità Giancarlo Giorgetti è disposto ad appoggiare l’opa del fondo americano Kkr insieme alla Cdp. Insomma, un insieme di calcoli sbagliati potrebbe portare a una ritirata dall’Italia senza nemmeno compensare le perdite. Nel frattempo è aperta la successione, papà Vincent il 16 febbraio 2022, giunto alla soglia di 70 anni, ha deciso di lasciare le redini ai figli Yannick e Cyrille, ma senza fretta nonostante il primo abbia 42 e il secondo 36 anni. Sarà ancora il padre a dire l’ultima parola sui dossier ancora aperti, tuttavia le insidie a Macron non verranno solo da Bolloré. E allora da chi altri nel variegato mondo del capitale? 

 

Il presidente ha un pessimo gradimento popolare, il peggiore mai assegnato a un capo dello stato; anche se vuol mostrare mano ferma, le leve del comando vacillano. Ha commesso errori tattici, rifiutando la ricerca del consenso, soprattutto il governo non è in grado di tenere sotto controllo la spesa pubblica, il debito sale, c’è rischio di downgrading perdendo le due A e questo preoccupa il mondo finanziario. La destra moderata, di tradizione gollista, si sta sbriciolando. Intanto, cresce un ron ron di sottofondo: perché non fare come l’Italia? Marine potrebbe diventare Giorgia? Lei dice di sentirsi più vicina a Salvini, eppure se vuole davvero conquistare il potere dovrà presentarsi più simile a Meloni. Siamo solo ai primi passi di un lungo cammino, ma una certa tentazione affiora anche nella comunità degli affari. L’antisemitismo allontana gran parte dell’alta finanza, è più permeabile il tessuto dei piccoli e medi industriali. Famiglie storiche come i Michelin e i Peugeot che non si piegarono né a Vichy né ai nazisti non guardano certo con piacere all’estrema destra. Quanto alle imprese pubbliche, i cui vertici vengono scelti passando per l’Eliseo, sono attente a non schierarsi finché non si capisce dove tira il vento. Tutto il mondo è paese nel capitalismo di stato. C’è tempo, d’accordo, e questi processi sono lenti in particolare in paesi che non amano cambiare. Le elezioni europee la prossima primavera saranno, scrive il Figaro, un nuovo duello tra Macron e Le Pen, nel quale entra anche il rapporto con il governo di Roma. Il messaggio presidenziale inviato da figure vicine, il ministro degli interni, il rampante Gérard Darmanin, e il capo del partito macroniano Stéphane Séjourné, è chiaro: mai come in Italia, jamais jamais. Ma attenzione, il mitico rifondatore della destra estrema, Jean-Marie Le Pen, giace sul letto di dolore; e se il suo partito non si chiama più Front, bensì Rassemblement, cioè raggruppamento, coalizione, un motivo c’è. Il nome Le Pen divide non unisce, però l’erede si è presentata un anno fa alle presidenziali con lo slogan “votate me, non mio padre”, “dimenticate il mio programma e considerate la donna che sono”. E’ arrivata seconda al primo turno, ma non lontana da Macron. La “de-diabolisation” è cominciata, anch’essa è en marche.

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