(foto EPA)

Lula ha preso al balzo la palla della rivolta dell'8 gennaio

Maurizio Stefanini

Che Brasile può nascere dalle ambizioni del presidente e del giudice de Moraes. Coppia di diversissimi

L’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro cerca di scagionarsi. L’attuale presidente Lula cerca invece  di prendere la palla al balzo dopo i fatti dell’8 gennaio a Brasilia. E in mezzo a loro c’è il giudice del Supremo tribunale federale (Stf) e presidente del Tribunal superiore elettorale (Tse) Alexandre de Moraes che sta diventando l’uomo più potente del Brasile. Così si possono sintetizzare al momento gli sviluppi di quello che il ministro della Giustizia Flávio Dino ha definito “la Capitol Hill” brasiliana, ma che si conferma in realtà sempre più come qualcosa di molto differente. E non solo perché a Brasilia non ci sono stati morti ma ci sono stati molti più arresti, come ha osservato lo stesso Dino. E non solo perché con Trump che non aveva ancora passato i poteri nel 2021 la transizione a Washington poteva effettivamente essere bloccata, mentre con Lula già insediato e Bolsonaro in vacanza in Florida tutta la buriana di Brasilia si configura soprattutto come una manifestazione degenerata. Anche degenerata male, visti i gravi danni provocati al patrimonio artistico  custodito nei palazzi del potere.

In particolare, mentre Trump non ha mai preso veramente le distanze e anche il Partito repubblicano americano nel suo complesso resta ambiguo, dopo che tutti i dirigenti di partito della sua coalizione avevano condannato, l’ho ha fatto anche Bolsonaro. L’ultima volta lunedì, di fronte a diversi sostenitori che si trovavano davanti al suo alloggio in Florida. “Mi dispiace per quello che è successo l’8 gennaio, una cosa incredibile”. “Nel mio governo, le persone hanno imparato cos’è la politica, hanno conosciuto i poteri costituiti, hanno iniziato ad apprezzare la libertà”.  Queste dichiarazioni sono arrivate pochi giorni dopo che il giudice de Moraes aveva appunto autorizzato un’indagine su Bolsonaro per presunta istigazione alla criminalità, a seguito di una richiesta del pubblico ministero a proposito di un video  in cui l’ex-presidente metteva in discussione il risultato delle elezioni dopo l’aggressione.

 

Già sono 39 le persone formalmente incriminate in Brasile presso il Stf per i fatti dell’8 gennaio, e anche se un terzo dei 1.800 arrestati sono stati liberati “per motivi umanitari”, gli altri due terzi restano in carcere. Tornato apposta in Brasile dalle vacanze in Florida per discolparsi, è stato arrestato sabato anche Anderson Torres: ex-segretario alla Sicurezza del Distretto federale per sei giorni, destituito per l’inazione della polizia di fronte alla presa dei palazzi del potere; ma prima ancora ministro della Giustizia di Bolsonaro, in quanto tale ritenuto responsabile per un documento ritrovato in casa sua con un piano per invalidare le elezioni. In effetti quel piano non è mai stato attuato, e Torres spiega che era una mera ipotesi messa tra i documenti da scartare in attesa di “venire trinciato”. Adesso il Tse ha dato al presidente tre giorni di tempo per dare spiegazioni sul “documento golpista”: non in questo caso de Moraes, ma con una sentenza del giudice Benedito Gonçalves. Lo stesso Gonçalves ha sollecitato il Stf a consegnare al Tse il documento, che servirebbe a dimostrare la supposta intenzione di Bolsonaro di dare un golpe, in modo da potergli erogare almeno otto anni di inabilitazione politica. 

Il punto, però, è che più che Bolsonaro o Torres, che stavano in Florida, l’8 gennaio a mettersi in mezzo sono stati i militari. Già si sapeva, in realtà, che l’esercito in un primo momento aveva impedito alla polizia di arrestare i manifestanti accampati davanti allo stato maggiore. Ma il Washington Post  ha riportato due anonimi testimoni secondo i quali lo stesso comandante dell’esercito generale  Júlio César de Arruda avrebbe detto a Dino “non arresterete le persone qui”. Lula non sembra avere intenzione di toccare Arruda, come ha difeso il ministro della Difesa  José Múcio, che viene dal bolsonarismo, e che pure aveva detto di lasciar perdere i manifestanti.  
Lula ha rimosso  40 militari che lavoravano nella residenza presidenziale, ma ha deciso di lasciare le cariche più importanti.  Può bastare, per ora, che perdano la quantità di incarichi anche ministeriali che avevano avuto con Bolsonaro.  Ma già per sfiducia verso i troppi bolsonaristi che c’erano Lula al momento delle proteste aveva deciso di non ricorrere ai servizi di quel Gabinete de segurança institucional da Presidência da República (Gsi) che è l’intelligence del Presidente, e  ha dovuto pentirsene.     

 

Fonti del ministero pubblico federale riportate dal sito “O Antagonista” anticipano che comunque il documento trovato a casa di Torres non potrebbe portare all’arresto di Bolsonaro perché non è firmato. Ma secondo la stampa brasiliana Lula eviterebbe in ogni modo di far arrestare l’ex presidente, per non dargli la stessa aureola di martire che Bolsonaro ha riservato a se stesso. Anzi, il fatto che Lula parli di “matti” piuttosto che di “terroristi” come fa invece il suo partito farebbe intendere che non vuole infierire neanche sui manifestanti. Ma in compenso, tra le palle al balzo che Lula ha colto c’è quella della Empresa Brasil de Comunicação (Ebc): società statale creata nel 2007 da cui dipendono Tv Brasil, otto stazioni radio, l’agenzia di stampa Agência Brasil, l’agenzia di notizie audio Radioagência Nacional e il portale Ebc. Insomma, Rai e Ansa assieme. Venerdì sera la dirigenza è stata dunque destituita, con decreto, per il modo in cui aveva trattato i fatti dell’8 gennaio. E direttrice è stata designata Kariane Costa, sindacalista che con Bolsonaro era stata cacciata dalla stessa Evc.
Mentre la maggior parte dei media brasiliani si riferiva ai sostenitori di Bolsonaro come “vandali” o “golpisti”, i media pubblici continuavano infatti a definirli “manifestanti”, e il giorno dopo l’assalto Tv Brasil ha trasmetto dichiarazioni del senatore Flávio Bolsonaro, figlio dell’ex presidente, che il Partito dei lavoratori (Pt) di Lula ha definito “provocazione”. Ma già il primo gennaio per decreto Lula aveva istituito sia  una Procura nazionale dell’Unione per la Difesa della democrazia con potere di giudicare chi divulga “disinformazione sulle politiche pubbliche”  sui social e  sui media; sia un dipartimento per la promozione della libertà di espressione con il  compito di “proporre e articolare politiche pubbliche per promuovere la libertà di espressione, l’accesso all’informazione e combattere la disinformazione e i discorsi di odio su Internet”. Sicuramente le notizie false e l’odio sui social sono un problema anche in Brasile, sicuramente le reti bolsonariste sono pesantemente infettate dal bannonismo, ma vedendo quel che succede con altri governi di sinistra latino americani da cui Lula non prende le distanze è stato facile denunciare un possibile “ministero della Verità” orwelliano. Che adesso si salda all’epurazione dei media resa possibile dai fatti dell’8 gennaio. 

 

Su tutto, appunto, il protagonismo di de Moraes, che dopo aver suscitato un aspro dibattito durante la campagna elettorale ha ispirato a una testata certo non sospettabili di simpatie verso i trumpismo come il New York Times un articolo dai toni allarmati, fin dalla domanda del titolo: “per difendere la democrazia, il Supremo tribunale del Brasile non sta andando forse troppo lontano?”. 54 anni, docente associato presso la facoltà di Giurisprudenza all’Università della natia San Paolo, già membro di quel Partito della Socialdemocrazia Brasianas (Psdb) che fu il più coerente avversario di centro-destra di Lula,  nel 2002 Segretario della Pubblica Sicurezza dello Stato di San Paolo, malgrado sospetti di corruzione e controversie dal 12 maggio 2016 al 22 febbraio 2017 fu ministro della Giustizia proprio in quel governo di Michel Temer nato dopo la destituzione della delfina di Lula Dilma Rousseff per impeachment, e poi proprio da Temer fu nominato “ministro” (cioè giudice) del Stf: peraltro, con dure critiche del Pt.  

E la prima cosa che fece fu denunciare i presunti “atteggiamenti criminali” dei movimenti di sinistra, giustificando la violenza della polizia. Da ricordare che si è espresso contro la legalizzazione dell’aborto e dell’eutanasia e ha pure difeso l’inasprimento delle pene per i minorenni. Insomma, un personaggio dal sapore bolsonariano, che però con Bolsonaro si scontrò sulla sua gestione negazionista del Covid, ordinando al ministeri della Salute di “ripristinare integralmente la divulgazione quotidiana dei dati epidemiologici sulla pandemia”. Il 20 agosto 2021 Bolsonaro ne chiese l’impeachmernt, che fu respinto dal Senato. Invece, il 16 agosto 2022 de Moraes ha aggiunto alla sua carica l’altra di giudice presidente del Tse. Stf e Tse hanno poteri che vanno oltre quelli di organi simili come Corte Suprema americana o Corte costituzionale italiana, e de Moraes ne sta approfittando all’eccesso. Già dall’aprile del 2020 aveva iniziato a scatenarsi contro i materiali online. All’inizio, semplicemente contro articoli ritenuti diffamatori di magistrati. E il  19 marzo 2022 aveva ordinato addirittura la sospensione di Telegram, accusandola di aver ripetutamente omesso di bloccare gli account che diffondevano disinformazione. In campagna elettorale  ha imposto multe a piattaforme online che non rimuovevano contenuti giudicati falsi, ha fatto rimuovere video di campagna elettorale, ed ha dato 9 anni di carcere a un deputato che lo aveva attaccato (anche se il giorno dopo Bolsonaro lo indultò). Dopo le elezioni, ha multato il partito di Bolsonaro di 4,3 milioni di dollari per aver presentato una denuncia per brogli da lui giudicata falsa. Dopo l’8 gennaio ha semplicemente vietato tutte le manifestazioni in Brasile. Fino a nuovo ordine: suo.