Erbil, dopo l'attacco da parte delle Guardie della rivoluzione dell'Iran del 28 settembre (Ansa)

Nei campi del Kurdistan iracheno, dove chi scappa dalle proteste in Iran ha ancora paura

Claudia Cavaliere

Quando sono cominciate le mobilitazioni e poi la repressione da parte della Repubblica islamica, in molti hanno lasciato il paese muovendosi verso l'Iraq. Ma anche qui il Corpo delle guardie della Rivoluzione ha continuato a colpire gli oppositori in fuga

A circa cento chilometri dal confine tra Iran e Iraq, alle pendici delle maestose montagne del Kurdistan iracheno ci sono i resti di uno dei campi che hanno ospitato gli oppositori del regime iraniano del Partito democratico del Kurdistan iraniano per almeno quarant’anni. In realtà, questo campo è stato solo il più longevo: prima gli insediamenti venivano abbandonati al massimo ogni tre anni e sono stati costruiti più all’interno del territorio iracheno nel tentativo di ripararsi dai costanti attacchi iraniani. Adesso è stato nuovamente abbandonato e le persone ancora una volta sfollate nelle città circostanti. Il 28 settembre, il Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica dell’Iran ha preso di mira con 32 missili balistici e droni la scuola che nel 1995 è stata costruita nel campo: i bambini in quel momento erano nel cortile, 15 sono stati feriti e 9 persone sono morte. “Quando la nostra base è stata colpita negli ultimi mesi, posso dire sia stato il peggiore attacco in decenni. I missili l’hanno squarciata attraversandola dall’alto verso il basso. Gli attacchi in precedenza erano esecuzioni mirate anche per le strade d’Europa, poi sono stati condotti con mortai e missili, ora ci sono anche i droni. La cosa diversa adesso è che le armi sono più precise e loro ne hanno di ogni tipo. Ma quelle armi adesso sono anche più distruttive e noi siamo più scoperti. Le persone del posto hanno paura, non tutti hanno lasciato l’area, ma tutti sono spaventati”, racconta al Foglio Karim Farkha Poor, membro della segreteria del Partito democratico del Kurdistan iraniano.

All’interno del perimetro della base si vedono ancora i murales dei fondatori e martiri del partito; ci sono i volti delle combattenti assassinate in quel luogo e si vedono i resti di quella che somigliava a un’organizzazione per ministeri dell’attività di partito: gli uffici per le politiche sociali, per le politiche giovanili, per le politiche femminili. “I nostri leader sono stati uccisi da un regime creato con sangue e paura perché chiedevano la libertà, di avere un ruolo democratico all’interno del nostro paese in cui le varie comunità possano vivere insieme e un Kurdistan federale. Noi siamo curdi e in Iran non possiamo studiare la nostra lingua, non possiamo essere ministri, avvocati o ricoprire incarichi pubblici e ci uccidono perché chiediamo di cambiare”, aggiunge Poor.

 

L’Iran ha accusato i gruppi paramilitari dell’opposizione iraniana di essere responsabili della violenza nelle città lungo il confine nord-occidentale con l’Iraq. In risposta, ha scatenato un’altra ondata di bombardamenti che i gruppi considerano anche un tentativo di distogliere l’attenzione dalle proteste. Mentre in Iraq ci sono circa duemila membri del Partito democratico del Kurdistan, in Iran sono diverse centinaia di migliaia: “Abbiamo sentito la responsabilità di scendere per strada e abbiamo chiesto alle persone di scioperare in oltre settanta città. Negli ultimi 43 anni gli iraniani sono stati portati alla fame, sono stati messi in carcere, sono stati uccisi. Il regime cerca di spaventarci, di dire che queste rivolte sono fomentate dall’estero, ma sono gli iraniani che si stanno opponendo. La Repubblica non è più la stessa da quando Mahsa Amini è stata uccisa, la differenza più grande adesso è che le persone hanno smesso di avere paura, mentre il regime ha cominciato ad averne”, ha detto Amanj Zibaee, vicerappresentante del Partito democratico del Kurdistan iraniano. 

Quando sono cominciate le proteste e poi la repressione da parte della Repubblica islamica, in molti hanno lasciato l’Iran, alcuni per non tornarci dopo che le Guardie della rivoluzione hanno iniziato ad andare di porta in porta per arrestare i manifestanti antigovernativi, mentre altri hanno scelto di unirsi ai gruppi di opposizione. Sotto gli alberi che si incontrano sulla strada che porta al campo abbandonato, si vedono gruppi di combattenti del Partito democratico del Kurdistan in tradizionali abiti color cachi fermati da una cintura legata in vita che imbracciano AK-47, le armi che hanno in dotazione per scopo difensivo. Dopo anni di divisione, molti dei gruppi di opposizione in Iraq sono in trattativa per unirsi e presentare un fronte comune e più efficace, cosa che secondo loro potrebbe giovare al più ampio movimento antigovernativo in tutto l’Iran. Così come hanno fatto – dopo sedici anni divisi e un nome molto simile – il Partito democratico del Kurdistan iraniano e il Partito democratico del Kurdistan in Iran, rispettivamente Kdpi e Kdp-Iran. Intanto dal governo centrale di Baghdad, incarnato da partiti sostenuti dall’Iran che vogliono la chiusura delle basi e il disarmo dei combattenti, il nuovo primo ministro Mohammed Shia’ al Sudani ha chiesto ai gruppi di opposizione iraniani di rinunciare alle armi, mentre il governo del Kurdistan iracheno si muove tra il sostegno alla solidarietà curda e il non voler mettere a rischio i loro rapporti con l’Iran. “Quello del Kurdistan iracheno è un piccolo governo che è buono con noi. Ha già i suoi problemi anche con Baghdad e quello del regime iraniano è un potere enorme”, dice Karim Farkha Poor.

 

Dalla montagna del Rojalat – la regione curda occidentale dell’Iran – dopo un lungo e faticoso viaggio, è arrivato Paiman, un veterinario di ventotto anni che era nelle strade di Mahabad per prestare soccorso ai manifestanti feriti, prima di ricevere moltissimi proiettili nel corpo ed essere ridotto in fin di vita dalla polizia. Alcuni sono ancora bloccati vicino a organi vitali: ginocchia, stomaco, cuore. Gli serve un’operazione, ma nel Kurdistan nessun ospedale è specializzato e soprattutto nessuno nel governo può darne il consenso per non compromettere le relazioni col governo centrale né indispettire il vicino Iran. “La comunità internazionale fa delle dichiarazioni, ma non è questo il modo giusto di fare le cose  – dice Paiman –. Tra le persone che sono rimaste in Iran ci sono donne e ragazze che affrontano ogni genere di sopruso, anche la violenza sessuale in prigione, e quando tornano a casa a volte si tolgono la vita. Non ne parliamo neppure in famiglia, perché non sta bene farlo e preferiamo tenerlo nascosto, ma sta succedendo”. 

 

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