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Popolo & sovrano

Le ciance sulla monarchia inutile e costosa smentite dalla storia e dal look di Carlo

Marco Ubezio

Accusata di essere antistorica rappresentazione di lusso e iniqui privilegi, la casa reale ha però l'appoggio delle classi popolari, senza contare che il suo bilancio di rappresentanza nel 2021 ammontava a 90 milioni di sterline, contro i 109 dell'Eliseo e i 224 del Quirinale

"Provi lei a vivere con il salario di un minatore!", la frase non è attribuita a un leader bolscevico ma a Giorgio V, che così redarguiva il capo della confindustria britannica che si contrapponeva al sindacato dei minatori durante il grande sciopero dell’aprile 1926.

  

Per intenderci negli stessi giorni in cui la cicogna recapitava a Casa Windsor un fagottino di riccioli biondi che avrebbe preso il nome di Elizabeth Alexandra Mary. Potrebbero bastare le parole del nonno della “Regina infinita” per rispondere a quelle cicliche e un po’ stanche contumelie della gauche caviar contro l’istituzione monarchica, accusata di essere antistorica rappresentazione di lusso e iniqui privilegi. Parole tornate a farsi sentire, con scarso per non dire assente tatto, anche in occasione della dipartita dell’augusta sovrana. A differenza dei proclami dei benpensanti, la luna di miele tra le classi popolari e la monarchia britannica non si è mai interrotta e dura, ininterrottamente, da oltre cento anni.

  

Proprio a Giorgio V, uomo poco carismatico ma decisamente accorto, si deve l’invenzione della Ditta, il nome con cui, per primo nella storia, apostrofò la famiglia reale. Il sovrano letteralmente riplasmò una dinastia con radici tedesche, sostituendo l’ingombrate nome di Sassonia Coburgo Gotha, la casata da cui proveniva Alberto, principe consorte di Vittoria, con il rassicurante nome di un vecchio castello merlato, Windsor appunto. Correva l’anno 1917. In seguito, annusando molto prima di altre teste coronate l’aria che tirava nell’Europa del primo dopoguerra, comprese che per non fare la fine dei cugini Romanov c’era bisogno di sfamare il popolo, che faceva fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Scelse la sua famiglia e la storia gli avrebbe dato ragione.

 

La gente aveva bisogno di una Camelot in cui credere, un sogno in cui rifugiarsi per fuggire da una quotidianità che aveva il sapore del surrogato del burro e del pane nero. E al popolo affamato aveva dato in pasto tutte quelle ritualità condite da fiocchi, diamanti e velluti che durante il suo regno erano state rispolverate da un passato più mitologico che vero. A distanza di un secolo, il solido appoggio delle classi popolari alla monarchia trova ancora plastica rappresentazione nella paccottiglia regale (dalle ceramiche per il tè ai cavatappi) di cui sono disseminate le case britanniche o negli street party a base di junk food che hanno affollato le periferie povere del Regno durante il giubileo, mentre qualche naso arricciato verso la veneranda istituzione si ritrova, al massimo, nelle a Chelsea o Hampstead.

 

Quanto poi ai supposti privilegi e al lusso di cui si circonderebbe la corte, basterebbe forse ricordare quando Carlo, ancora Principe di Galles, si presentò a un evento pubblico con la tasca della giacca vistosamente rammendata e le suole delle scarpe forse anche più consumate. Passando ai nudi numeri sul costo della Ditta, si può dire che a guadagnarci siano i contribuenti britannici e non solo per il ritorno economico derivante dai flussi turistici attratti dall’iconografia della monarchia; il Tesoro amministra il patrimonio storico della Corona (Crown Estate) che comprende un ingente patrimonio immobiliare i cui frutti, annualmente qualche miliardo di sterline, sono incamerati dal governo e vengono restituiti alla Corona per le sue attività istituzionali solo in una minima frazione, posto che il bilancio di rappresentanza della Ditta ammontava, nell’anno 2021, a meno di 90 milioni sterline. Per intenderci, il bilancio dell’Eliseo è di 109 milioni di euro e quello del Quirinale, pur congelato dall’avvento di Mattarella, ammonta a 224 milioni. I castigatori dei privilegi farebbero meglio a guardare altrove.

 

Infine una menzione speciale la merita chi, anche prima della scomparsa di Elisabetta, si è spinto a vaneggiare la necessità di una rinuncia la trono di Carlo in favore del figlio William o, addirittura, una sua diseredazione per mano materna. Si tratta di pronunciamenti che, oltre che gratuitamente irriguardosi verso il nuovo sovrano, trovano anche un ostacolo di non trascurabile nella costituzione vivente del Regno Unito. Non a caso l’unica volta in cui il Regno si confrontò con l’abdicazione di un sovrano, nei giorni convulsi della rinuncia al trono di Edoardo VIII, si dovette passare per una legge ad hoc del Parlamento che ratificasse la decisione del Re, votata in una notte a Westminster e dai Parlamenti degli altri reami del Commonwealth.

 

A discapito di queste argute prese di posizione, Re Carlo III è oggi saldamente sul trono e, ne siamo abbastanza certi, saprà dimostrare di far funzionare la macchina dell’istituzione anche con meno risorse di quelle che sono state ad appannaggio della madre. Con quei taschini rammendati e quelle suole consumate che, meglio di mille inutili cicaleggi, sono il segno della cifra dell’uomo ancor prima di quella del sovrano.

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