(foto EPA)

Così si vive senza energia. Il populismo ha distrutto lo Sri Lanka

Francesco Radicioni

In molti nell'ultimo decennio avevano guardato al potenziale del paese, che era riuscito ad attrarre importanti investimenti dall'estero. Un capitale dilapidato da politiche demagogiche e nazionaliste

Colombo. Mentre da settimane il carburante è garantito solo ai “servizi essenziali”, Rahim continua a passare le sue giornate in fila – insieme a centinaia di altre persone – davanti a una pompa di benzina alla periferia di Colombo. “La sera lascio la mia auto qui e torno a casa in autobus, sperando che il giorno dopo arrivi almeno qualche litro”. Altri passano invece la notte in macchina, visto che anche i mezzi pubblici ormai funzionano a singhiozzo. Lungo la strada affacciata sul Golfo di Mannar, la fila di chi aspetta pazientemente il carburante si snoda per oltre due chilometri – un ripetersi di auto, camion, motociclette, tricicli a motore – mentre sull’altro lato della carreggiata ci sono le bombole del gas da cucina che attendono di essere riempite. Mentre lo Sri Lanka attraversa la peggiore crisi dall’indipendenza – “siamo in bancarotta”, ha ammesso nei giorni scorsi il governo – molti non possono far altro che muoversi per la città a piedi oppure arrancando in bicicletta sotto il sole dei tropici.

La crisi che attraversa il paese è talmente seria che anche gli aerei che atterrano a Colombo sono costretti a lunghi scali tecnici nei paesi vicini per fare rifornimento. A giugno l’inflazione ha segnato un più 54 percento rispetto a un anno fa (ma le previsioni per i prossimi mesi sono ancora più fosche) e su quest’isola di 22 milioni di abitanti iniziano anche a scarseggiare cibo e medicine. Senza carburante, il trasporto e la distribuzione dei beni essenziali procede a rilento, e anche quando poi il cibo arriva non tutti possono permettersi simili rincari al mercato. A tormentare la vita degli srilankesi ci sono anche gli interminabili blackout – 11, 12, 13 ore al giorno senza energia elettrica – che rendono impossibile per la fondamentale industria tessile del paese garantire i tempi di consegna per i più importanti brand internazionali. 

 

Nell’ultimo decennio in molti hanno guardato al potenziale dello Sri Lanka per via della posizione strategica nell’Oceano Indiano, una popolazione giovane e istruita, uno dei redditi pro-capite più alti dell’Asia meridionale. Eppure “questa crisi è il risultato del Covid e della guerra in Ucraina”, taglia corto Mahenderan, 48 anni, impiegato in una fabbrica della capitale. C’è del vero: per un paese che nel 2010 era stato messo al primo posto della lista del New York Times delle destinazioni turistiche da scoprire, gli attacchi terroristici nel giorno di Pasqua 2019 e poi la pandemia hanno rappresentato un colpo durissimo per un’industria che negli ultimi anni aveva attratto una pioggia di investimenti. Questo non basta però a spiegare perché sul paese dell’Asia meridionale grava un debito di 50 miliardi di dollari, mentre nelle casse del governo di Colombo non c’è più valuta straniera per poter importare dall’estero qualunque cosa.

“Lo Sri Lanka ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, chiedendo troppo in prestito e tassando troppo poco, mentre ha prodotto al di sotto del proprio potenziale”, sintetizzava un recente rapporto di International Crisis Group. I germogli di questa crisi erano quindi già tutti nelle promesse populiste del clan politico che per quasi vent’anni ha dominato la scena politica a Colombo. “Perché ho votato i Rajapaksa?”, si chiede uno di quelli che oggi fa ore di fila per entrare nel palazzo presidenziale occupato pacificamente dopo le proteste del weekend. “Perché costruivano infrastrutture e promettevano di tagliare le imposte”. Oggi però si sa che a gonfiare il debito dello Sri Lanka sono stati proprio le centinaia di milioni di dollari spese per tirar su porti, ferrovie, aeroporti, ma anche centri fieristici e stadi di cricket di dubbia utilità.

Subito dopo le ultime elezioni, il governo ha poi approvato un ampio taglio delle tasse che ha fatto crollare le entrate fiscali per le casse del paese. Come se non bastasse, l’anno scorso i Rajapaksa hanno tentato di trasformare l’isola in un paradiso dell’agricoltura biologica vietando l’uso dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici. Nonostante il plauso di alcune icone ambientaliste mondiali, quella scelta ha finito per devastare le piantagioni di riso e di tè per cui l’isola è famosa, costringendo il governo a promettere sussidi ai contadini. “I Rajapaksa possono anche cadere”, spiega Abbas sul lungomare di Colombo, “ma la loro politica nazionalista, clientelare e populista rimarrà radicata ancora a lungo in Sri Lanka”.

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