(foto EPA)

Vucic dice di volere l'Ue, ma russizza la Serbia

Luciana Grosso

Il voto del 3 aprile e l’ambiguità sull’Ucraina. Quanto scivola la democrazia a Belgrado

Il prossimo tre aprile si vota in Serbia e le elezioni appaiono come un intrico di voti, strategie, e complessi equilibri in cui la politica locale si intreccia con quella europea e con la crisi ucraina. Per capire perché occorre schiacciare il tasto indietro veloce e tornare al giugno 2020 quando la  Serbia votava per rinnovare il Parlamento.  Le elezioni che si svolsero in modo inusuale, perché per i seggi corsero  solo i partiti della maggioranza uscente. Le opposizioni decisero di boicottare per protesta contro il fatto che quelle sarebbero state elezioni regolari e il loro risultato sarebbe stato inficiato dalla strettissima presa del governo e del presidente Aleksandar Vucic sui media, trasformati in un’unica e fitta rete di propaganda. Successivamente l’Osce ha dimostrato che le opposizioni avevano ragione: non fu un voto regolare.   

Le elezioni si svolsero comunque e con un’affluenza bassa (48 per cento). A vincere, con più del 60 per cento, fu la coalizione di maggioranza chiamata  “Insieme possiamo fare tutto”, un cartello elettorale dietro il quale si trovava una creatura politicamente composita, che andava dai monarchici ai nostalgici del comunismo, dal movimento dei contadini a quello dei pensionati e che era guidata dal Partito progressista serbo, lo stesso del presidente Vucic, un partito populista di destra. Al gruppo andarono 188 seggi su 250; gli spiccioli restanti furono assegnati d alcuni piccoli partiti terzi che  aderirono subito alla maggioranza di governo, creando l’unicum di un parlamento del tutto privo di opposizione. In quell’occasione però, il presidente Vucic, resosi conto della poca presentabilità agli occhi europei del suo Parlamento, promise che la nuova  aula sarebbe rimasta in carica il tempo minimo per la gestione dell’emergenza sanitaria e che dopo due anni, si sarebbe tornati al voto. 

Il tre aprile vedrà i serbi votare  per varie elezioni locali, incluse quella per il sindaco di Belgrado, per le elezioni presidenziali, alle quali corre il presidente uscente Vucic (in carica dal 2017) e per le previste elezioni parlamentari anticipate. A questo giro le opposizioni parteciperanno eccome, galvanizzate dalle vigorose proteste ambientaliste sorte attorno al progetto di miniera di Litio che sarebbe dovuto sorgere vicino alla città di Loznica. Ma, nonostante questo, lo scenario non appare cambiato: i sondaggi per le presidenziali danno Vucic al 45 per cento, trenta punti in più del suo sfidante più temibile, il centrista ed ex diplomatico  Zdravko Ponoš. Stessa cosa vale per il parlamento: i sondaggi danno il Partito progressista al 50 per cento, mentre la coalizione delle opposizioni centriste e liberali è data  al 15. 

Anche l’occupazione dei media da parte dei politici di maggioranza non appare migliorata e lancia segnali pessimi per la libertà di stampa. Su questo crinale sottile, oggi, cammina la democrazia serba: quella di un paese che non ha mai davvero chiuso i conti con la guerra nei Balcani e con il nazionalismo, che ha problemi di razzismo interno nei confronti delle minoranze albanesi, che ha visto  la vitalità della  democrazia scendere negli anni della presidenza Vucic sotto i livelli di guardia (la Freedom House la considera solo ‘parzialmente libera’, collocandola al 64imo posto su 100 nella classifica dei paesi democratici). In queste settimane La Serbia si ritrova anche costretta dalla guerra in Ucraina a uscire dalla sua ambiguità: quella di un paese che aspira a entrare nell’Ue ma che ha interessi e affinità con la Russia di Vladimir Putin. 

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