venti di rivoluzione

L'effetto Kazakistan preoccupa i paesi vicini. Regimi e non

Davide Cancarini

Autoritarismo e corruzione. Le repubbliche dell’Asia centrale temono le proteste, economiche e politiche

Il caos che si è scatenato in Kazakistan è stato seguito con grande attenzione, e timore, dai vicini regionali del gigante centro asiatico. Ciascuno di essi ha infatti i propri grattacapi interni, legati più o meno direttamente alla gestione politica autoritaria o populista e a quella economica basata su corruzione e clientelismo portata avanti dai vari regimi dell’area.

 

Un primo passo concreto per cercare di disinnescare sul nascere possibili rischi di tensioni l’ha compiuto l’Uzbekistan. Con una mossa passata sottotraccia, il presidente Shavkat Mirziyoyev ha deciso di interrompere l’esportazione di gas naturale e di rinviare l’aumento dei prezzi del carburante, annunciato nel corso del 2020. Il leader di Tashkent, che dal 2016 sta cercando di portare avanti una politica economica di apertura verso l’esterno a suon di privatizzazioni e misure per attrarre investimenti internazionali, è ben conscio della fragilità del contesto uzbeco. Con 35 milioni di abitanti l’Uzbekistan è il colosso demografico dell’Asia centrale ma deve fare i conti con una serie di debolezze strutturali come la disoccupazione e le difficoltà nell’approvvigionamento energetico. Nonostante sia ricco di gas naturale, il paese ha infatti sempre avuto difficoltà a bilanciare l’elevato consumo interno con i contratti di esportazione. La famiglia di Mirziyoyev è inoltre in più occasioni finita in passato sotto i riflettori per aver ricevuto decine di milioni di dollari di fondi sottratti al fondo sovrano nazionale, una pratica che in altri contesti dell’area è ancora più presente.

 

Come in Turkmenistan, dove Gurbanguly Berdymukhammedov, che guida un regime paragonabile per chiusura a quello della Corea del Nord, detiene un controllo assoluto sulla sfera politica e quella economica. Il paese è il quarto detentore al mondo di riserve di gas naturale ed è un partner energetico chiave per la Cina (tramite un gasdotto che attraversa il Kazakistan). Il Turkmenistan, che ha solo cinque milioni di abitanti, potrebbe sopravvivere senza patemi semplicemente mettendo a frutto le rendite energetiche. Ma una gestione politica scellerata e profondamente corrotta tutta  nelle mani della famiglia dell’autocrate di Ashgabat e totalmente isolazionista sul fronte esterno condanna i turkmeni a una miseria senza fine. Ma talmente forte è la presa sulla realtà domestica che è quasi impossibile, al momento, che uno scenario kazako si ripeta in Turkmenistan.

 

Il tour degli autoritarismi centro asiatici si conclude in Tagikistan, membro della Csto, (l’organizzazione del trattato di sicurezza collettiva che ha inviato truppe in Kazakistan) e guidato da uno dei leader più longevi del mondo post sovietico, Emomali Rahmon, al potere da quasi 30 anni. La situazione economica è a tal punto disastrata che il paese è uno dei primi al mondo per dipendenza dalle rimesse inviate dall’estero, che oscillano intorno a un valore pari al 30 per cento del pil. Se i migranti economici tagichi hanno come meta preferita la Russia, anche la Cina ha una fortissima influenza sulle leve economiche del paese. Il 50 per cento del debito estero di Dushanbe è infatti in mani cinesi, indebitamento monstre legato anche alla realizzazione, da parte dell’italiana Webuild, della Diga Rogun, la più alta del mondo e opera fondamentale per il soddisfacimento del fabbisogno interno di energia elettrica. Il sistema bancario e finanziario del paese è completamente sotto il giogo della famiglia di Rahmon che non ha alcun interesse a introdurre riforme, considerando anche che l’emigrazione in cerca di lavoro di milioni di giovani tagichi riduce i rischi di sollevazioni interne. Dal punto di vista politico, Rahmon sta preparando il terreno per una successione dinastica che nei suoi piani dovrebbe far salire al potere il figlio, poco più che trentenne ma che ha già compiuto una carriera tanto stellare quanto poco sorprendente.

 

Passando al Kirghizistan, esso è conosciuto a livello internazionale con la definizione che dà un’idea parziale della realtà interna: “unica democrazia dell’Asia centrale”. Anch’esso membro della Csto e anch’esso responsabile dell’invio di truppe in Kazakistan, negli anni recenti il paese ha registrato le maggiori turbolenze, con rivoluzioni che si sono susseguite a ritmo continuo, nel 2005, 2010 e 2020. L’ultima in ordine cronologico ha portato al potere il populista Sadyr Japarov, leader imprevedibile che come prima mossa ha deciso, da un lato, di impedire alle compagnie straniere di realizzare grandi progetti minerari nel paese e, dall’altro, di scontrarsi con la società canadese Centerra Gold Inc. Fino a pochi mesi quest’ultima gestiva l’impianto aurifero di Kumtor che da solo pesa per quasi il 9 per cento del pil complessivo del Kirghizistan. Sulla base di pretesti ambientali, Japarov ha sottratto alla compagnia la gestione della miniera, di fatto mandando un messaggio di totale inaffidabilità ai mercati internazionali. In modo simile al Tagikistan, anche il Kirghizistan è molto fragile dal punto di vista economico, avendo nelle rimesse dall’estero una linfa vitale e nella Cina il suo principale creditore estero. 

 

Sulla base dei grandi elementi di fragilità che accomunano i diversi paesi centro asiatici, i leader dell’area hanno vissuto con grande apprensione quanto accaduto a inizio 2022 in Kazakistan. E’ molto improbabile, d’altro canto, che da questa apprensione derivino contromisure concrete per ovviare almeno a qualcuno dei problemi interni delle Repubbliche regionali. Sicuramente non in Turkmenistan o Tagikistan – troppo granitici nella loro chiusura – o Kirghizistan – per la troppa fragilità – con qualche spiraglio di apertura che potrebbe invece registrarsi in Uzbekistan. Mirziyoyev, oltre a mantenere intatto il suo potere autoritario, punta infatti a fare dell’Uzbekistan il leader regionale sul fronte diplomatico e ad affermarsi come serio e autorevole interlocutore a livello internazionale. Un ruolo che mal si concilierebbe con proteste che giocoforza, dal suo punto di vista, andrebbero represse con durezza.
 

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