Ebrahim Raisi, il nuovopresidente iraniano (LaPresse)

Qui Teheran

Il governo di Raisi

Cecilia Sala

C’è molta meno voglia di accordo sul nucleare, l’Iran assapora la convenienza di non negoziare

Checkpoint e blocchi stradali, treni sospesi e i cinque aeroporti più vicini a Teheran chiusi. Ieri la cerimonia d’insediamento del nuovo presidente conservatore Ebrahim Raisi si è svolta in una capitale blindata. Il leader iraniano ha due settimane per presentare al Parlamento la lista dei suoi ministri, ma i tempi questa volta saranno rapidi: la Guida suprema, Ali Khamenei, ha lanciato un appello per una transizione veloce, il Parlamento e il governo – adesso entrambi dominati dai conservatori – andranno d’amore e d’accordo, e ci sono le emergenze, dagli ospedali al collasso all’inflazione, dai blackout continui alle proteste nelle regioni di sud-ovest dove manca anche l’acqua. Fuori dai confini tutti gli occhi sono puntati sul dicastero degli Esteri. Per ovvie ragioni, ma in questo particolare momento soprattutto perché l’accordo sul nucleare iraniano – che solo un mese e mezzo fa sembrava cosa fatta – è precipitato in uno stallo che ha prima sorpreso e poi preoccupato gli occidentali.

 

A giugno, quando si è concluso il sesto round dei negoziati, alcuni delegati europei avevano lasciato le scarpe e le camicie nelle loro stanze dell’hotel Palais Coburg di Vienna dove si tengono i meeting internazionali, convinti che nell’arco di pochi giorni ci sarebbero tornati per il round definitivo. Da fonti dell’Amministrazione Biden trapelava la fretta di chiudere prima dell’insediamento: è la prima volta che in Iran entra in carica un presidente sanzionato dal Tesoro americano, e per la delegazione americana dialogarci è imbarazzante.

 

La fretta non era solo loro, i conservatori della Repubblica islamica hanno sempre sostenuto che fidarsi dell’occidente è un errore, per questo non “sporcarsi le mani” e lasciar concludere l’accordo al governo riformista uscente conveniva e avrebbe permesso a Raisi di beneficiare della fine delle sanzioni appena insediato. Invece, il tempo è passato e non è successo nulla. È per questo che adesso, mentre ci si interroga su quale sia la strategia iraniana, se sia cambiata di recente e come, cimentarsi nel totonomi sul ministero degli Esteri non è un esercizio fine a se stesso ma utile a capire cosa abbia davvero in mente la Repubblica islamica. 

 

Adnan Tabatabai è un analista iraniano del Carpo, è consulente di istituzioni e società europee e un volto noto della Cnn e di Bbc World. “La prima cosa interessante da scoprire è se il prossimo ministro sarà un militare che non è mai uscito dalla regione oppure qualcuno che parla inglese e francese, che ha viaggiato fuori dal medio oriente per meeting internazionali e si è già occupato di negoziati sul nucleare”. Arrivati a questo punto i papabili non sono molti, ci sono i falchi come Hosseini Tash o Bagheri Kani: “La loro nomina sarebbe il segnale che per l’Iran l’accordo non è più una priorità: se Joe Biden per primo toglie le sanzioni ‘bene’, altrimenti si va avanti con l’economia di resistenza”. La posizione ufficiale della Repubblica islamica è che non si può tornare all’accordo se gli americani non si vincolano in qualche modo, se manca la garanzia che non riaccada ciò che è successo nel 2018, quando Donald Trump è uscito unilateralmente e sono tornate le sanzioni.

 

“Anche se Biden rimanesse nell’accordo finché è presidente, e non è comunque scontato visto i mal di pancia nel suo partito, la leadership iraniana si chiede: ‘E se nel 2024 vincesse le presidenziali uno come Mike Pompeo?’. Se per gli Stati Uniti non ci sono conseguenze negative nel momento in cui abbandonano il patto, prima o poi accadrà di nuovo”, dice Tabatabai. Ma, appunto, i problemi potrebbero sorgere già prima di una futuribile presidenza repubblicana. Se Biden rimuove parte delle sanzioni con un ordine esecutivo, a un certo punto il Congresso dovrà convertirlo in legge. “I democratici contrari non sono pochi – ricorda Tabatabai – Il governo di Raisi rischierebbe di ritrovarsi di nuovo con le sanzioni come è capitato a quello riformista di Hassan Rohani”.

 

Con due differenze: sarebbe la seconda volta, quindi difficilmente perdonabile. E i riformisti avevano promesso quell’accordo, mentre i conservatori lo hanno sempre bollato come una follia pericolosa – farebbero molta fatica a giustificarsi in uno scenario come quello appena descritto. Forse, per l’establishment conservatore iraniano, l’ipotesi di una figuraccia del genere è un rischio politico talmente grosso per cui vale la pena sopportare una crisi che però si scarica soprattutto sui più deboli e non certo sull’élite di cui fanno parte. “Gli occidentali sono convinti che la Repubblica islamica sia disposta a tutto. La crisi economica è profonda e reale, ma quel giudizio è comunque un giudizio avventato. L’ultimo mese e mezzo di stallo, che altrimenti sarebbe difficilmente spiegabile, lo dimostra”, dice Tabatabai. 

 

Ci sono altri fattori e incentivi da considerare, per esempio il vantaggio militare dato da una maggiore libertà di movimento, perché a luglio nei siti iraniani si sono spenti sensori e telecamere di controllo dell’Agenzia dell’Onu per il nucleare, e senza un nuovo accordo difficilmente riprenderanno a funzionare. In conclusione, Tabatabai dice il suo pronostico: “Che al ministero degli Esteri vadano i più intransigenti anti occidentali non è a mio parere l’ipotesi più probabile. Anche se l’accordo oggi non è più imprescindibile, da un punto di vista strategico non avrebbe senso essere tanto espliciti fin dall’inizio (del mandato, ndr) con le controparti. Mi aspetto piuttosto che il nuovo capo della diplomazia sia Hossein Amir-Abdollahian”. Che parla perfettamente l’inglese, è legato ai conservatori e ai pasdaran, ma è stato viceministro anche nell’ultimo governo dei riformisti. Un uomo fidato che può andar bene per qualsiasi stagione ed eventualità. Perché adesso serve tenersi le mani libere, avere un piano A e un piano B. La novità è che non si può più dare per scontato che il piano A sia l’accordo.

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