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conversazione sulle elezioni americane

Sequestrati da Trump

Paola Peduzzi con Giuliano Ferrara

Il presidente è “un’escrescenza orrenda” che ha deformato l’America, stroncato il pensiero conservatore e preso in ostaggio la nostra libertà di condividere, dissentire, essere scorretti o correttissimi. I nostri lividi e i nostri progetti per la rinascita, quando sarà

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C’è una cosa che “non mi pare acquisita, anzi che non è acquisita per niente”, dice Giuliano Ferrara, distanziatissimo come pretende il nuovo codice dei rapporti della pandemia, ed è che “con la vittoria di Donald Trump non ha perso la sinistra, non ha perso il mondo liberal. La vera tragedia americana è che ha perso il pensiero conservatore”. Partiamo da qui, in questa nostra conversazione sulle elezioni americane di domani: dalla tragedia del trumpismo, dall’“escrescenza orrenda” che ha deformato l’America, dall’“outsider della destra imbizzarrita” che ha messo sotto sequestro la nostra libertà di dissentire o di condividere, di essere scorretti o correttissimi senza finire in una rissa, soprattutto la nostra libertà di  criticare quel gran pezzo di mondo al di là dell’Atlantico senza smettere di amarlo. Ci siamo raccontati il nostro sequestro, come lo abbiamo vissuto, quali lividi si sono riassorbiti e quali invece ancora non si possono sfiorare, siamo arrivati fin sulla cima della Statua della libertà per vedere quanto è ammaccata (un pochino, ma non per sempre), e  siamo ridiscesi pensando a quali e quante saranno le nostre idee  quando il sequestro  del pensiero liberale finirà, e a come sarà il nostro amore per l’America quando non saremo più in ostaggio di Trump.  

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C’è una cosa che “non mi pare acquisita, anzi che non è acquisita per niente”, dice Giuliano Ferrara, distanziatissimo come pretende il nuovo codice dei rapporti della pandemia, ed è che “con la vittoria di Donald Trump non ha perso la sinistra, non ha perso il mondo liberal. La vera tragedia americana è che ha perso il pensiero conservatore”. Partiamo da qui, in questa nostra conversazione sulle elezioni americane di domani: dalla tragedia del trumpismo, dall’“escrescenza orrenda” che ha deformato l’America, dall’“outsider della destra imbizzarrita” che ha messo sotto sequestro la nostra libertà di dissentire o di condividere, di essere scorretti o correttissimi senza finire in una rissa, soprattutto la nostra libertà di  criticare quel gran pezzo di mondo al di là dell’Atlantico senza smettere di amarlo. Ci siamo raccontati il nostro sequestro, come lo abbiamo vissuto, quali lividi si sono riassorbiti e quali invece ancora non si possono sfiorare, siamo arrivati fin sulla cima della Statua della libertà per vedere quanto è ammaccata (un pochino, ma non per sempre), e  siamo ridiscesi pensando a quali e quante saranno le nostre idee  quando il sequestro  del pensiero liberale finirà, e a come sarà il nostro amore per l’America quando non saremo più in ostaggio di Trump.  

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La nozione non acquisita è quindi la fine del pensiero conservatore. Tecnicamente, il mondo liberal non perse alle elezioni del 2016: pur con una candidata tanto controversa come Hillary Clinton, i democratici presero quasi tre milioni di voti in più rispetto ai repubblicani. Certo, alla Casa Bianca  andò Trump, ma non ci perderemo nelle infinite discussioni sul sistema elettorale degli Stati Uniti e le sue storture: abbiamo smesso di guardare alle elezioni del 2020 con il filtro degli spettri del 2016. Quello fu il primo livido di questa tragedia americana, ed è quello che oggi deve – per forza – fare meno male. 

 
Anche tecnicamente “perse il pensiero conservatore, perse il Partito repubblicano – dice Ferrara – persero le classi dirigenti su cui poggiava l’alternanza in America, le classi dirigenti che avevano dato al paese presidenze come quella di Ronald Reagan e di George W. Bush”. Lì è iniziato il sequestro operato da Trump, che ha riguardato e riguarda più il pensiero conservatore che quello liberal, perché è sul suo stesso partito e sul suo assetto valoriale che il presidente outsider ha menato più forte. Poi nella rissa ci siamo finiti tutti, i colpi sono arrivati a tutti, di destra e di sinistra,  ma questa premessa è la ragione per cui i lividi di Ferrara e i miei sono in parte diversi, pure se tutti dolorosi e tutti subiti in questi quattro anni di sequestro  e tutti riconducibili a quell’“escrescenza orrenda”, cioè Trump, che ha deformato l’America.

  

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L’atto clamoroso dell’ascesa di Donald Trump non sono stati i centomila voti in più sparpagliati tra il Michigan, il Wisconsin e la Pennsylvania: questa è contabilità elettorale, la stessa cui ci appigliamo oggi guardando le curve dei sondaggi, e che ci fa pensare che Joe Biden, il candidato del Partito democratico, possa avere la meglio sul presidente a caccia del secondo mandato. (Come pensi che vada?, mi chiede Ferrara. Sussurro uno sfacciatissimo “a valanga per Biden”, lui mi redarguisce subito con quel suo realismo preciso che da sempre raddrizza i miei pensieri, “sarà dura, a livello nazionale il distacco è grande, ma poi ci sono i collegi elettorali, e lo sappiamo già che tutto può succedere”.  

   

I lividi blu del pensiero liberale. Trump ha distrutto il Partito repubblicano, che lo ha lasciato fare. I democratici a caccia del riscatto  sono tornati al loro “great again”, che è Barack Obama 

  

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 Ce lo siamo  sempre detti con un sorriso, l’imprevedibilità ha un fascino inarrivabile: tutto può succedere, la palla è rotonda. Ma oggi siamo mesti, ché quel “tutto” si chiama Donald Trump, e altri quattro anni di risse non li vogliamo immaginare.  “Se non ci fosse stata la pandemia sarebbe stata ancora più dura – dice Ferrara – forse finiremo per ringraziarlo, questo virus maledetto, se almeno porterà Trump via dalla Casa Bianca”).

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L’atto clamoroso di Trump, “la bomba a mano maggioritaria” che ha stravolto l’America, dice Ferrara, “è stato aver fatto tabula rasa del Partito repubblicano. C’era il Pentagono, c’era il pensiero neoconservatore, c’era una tradizione costruita, da Reagan in poi, sull’asse che avrebbe portato il paese a governare prima la fine della Guerra fredda e poi la fase successiva alla caduta del Muro di Berlino. I repubblicani erano cold warriors, Trump è risultato un pupazzo gestibile da Vladimir Putin e dalle sue politiche; i repubblicani erano interventisti, portatori sani nel mondo dell’eccezionalismo americano, e Trump è un isolazionista. Questo intendo quando dico: tabula rasa”.

     

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Quando iniziò l’ascesa di Trump, i repubblicani stessi la considerarono un’anomalia sulla quale era possibile, e anzi talvolta doveroso, sorvolare. La convention repubblicana dell’estate del 2016 fu la festa triste della nomina di Donald Trump, dimessa e arrabbiata, pure i palloncini sembravano brutti, o almeno così parevano ai repubblicani, i primi a non credere che quel candidato potesse  riuscire ad arrivare alla Casa Bianca. La festa di Trump era in realtà il funerale del Partito repubblicano ma allora  i partecipanti non se ne accorsero, perché come era accaduto qualche mese prima in occasione della Brexit, i protagonisti e agitatori della rivoluzione divorzista dall’Unione europea non credevano affatto di  vincere.  Quando poi Trump sconfisse i democratici, i repubblicani ancora tentarono di ignorare le campane a morto (voglio credere che almeno le sentissero): molti prendevano le distanze, rivendicavano un’autonomia di pensiero, di tradizione, di esperienza, contavano sulla possibilità di  governare il presidente anomalo. Quando anche questa illusione svanì, quando Trump si rivelò ancor più ingestibile di quanto si pensasse, i repubblicani scelsero di intrupparsi. Si appiattirono sul trumpismo, accettarono che l’escrescenza orrenda diventasse la prima cosa visibile dell’America, in alcuni casi ne sono diventati addirittura i cantori. Penso a Rudy Giuliani, al sindaco della New York straziata dall’11 settembre, al simbolo di una battaglia valoriale che partì sui detriti delle torri gemelle, con Giuliani e Bush e i loro megafoni: oggi Giuliani è reso irriconoscibile dal trumpismo, è deformato come deformata è l’America – credo che al solo nominarlo Ferrara senta molto male, uno dei suoi lividi.

   
 Anne Applebaum, saggista conservatrice, ha scritto un libro che si intitola “Twilight of Democracy”,  il crepuscolo della democrazia, in cui racconta la trasformazione del pensiero conservatore in occidente e denuncia le persone – molti suoi amici –  che hanno permesso questa deformazione: senza i repubblicani collaborazionisti, sostiene la Applebaum, il trumpismo non avrebbe prosperato.  Chiedo a Ferrara il perché di questa remissività: dici che il Partito repubblicano è stato spazzato via dal trumpismo, ma perché si è lasciato travolgere? “L’emersione della modalità populista americana si è prima di tutto contrapposta allo stile liberal, al linguaggio liberal, all’offerta liberal, ma la polemica contro le élite, contro le classi dirigenti imbelli, ha colpito soprattutto il Partito repubblicano. Mi chiedi perché? Perché era debole, era fragile. Il momento della caduta, quando è stato assaporato il veleno della mela e consumato il grande peccato, è stato quando i repubblicani hanno lasciato che George W. Bush fosse seppellito sotto la cattiva reputazione di presidente guerrafondaio e di guida fallimentare di un’impresa demenziale, che era quella della reazione all’11 settembre. E’ lì che i repubblicani si sono scompaginati e che sono diventati come diceva Trump in campagna elettorale nel 2016 ‘low energy’. Lì hanno perso il fondamento delle loro motivazioni: i conservatori avevano un senso quando avevano una politica di gestione valoriale di tipo ratzingeriano, con Leon Kass alla sua guida. C’era un’organizzazione compiuta, dal taglio delle tasse alla spinta orgogliosa, occidentalista, neoimperiale di espansione benigna del potere americano anche attraverso la guerra, che era stata da sempre uno strumento ambiguo: la cosa più terribile del mondo ed eppure nel Novecento l’unico vettore possibile di libertà”. Nel momento in cui i conservatori si sono arresi a quella che è diventata l’evidenza per tutti, cioè che la guerra in Iraq era stata un errore,  “hanno perso tutta la loro caratura, tutto il loro fascino e il loro carisma”. 

 
Nel 2016, gli americani invece erano a caccia del carisma, non della triangolazione meditata e ordinata di Hillary Clinton. C’era stata la crisi economica con le sue conseguenze di medio termine, quelle che si tendono a dimenticare quando si è in emergenza ma che covano sotto pelle, l’impoverimento strutturale, i lavori precari, lo scarto al contrario rispetto alle vite dei propri genitori, che per la mentalità americana e il suo sogno è più di una retromarcia o di un rallentamento: è un tradimento. Cercavano il carisma, gli americani, e non lo riconoscevano più nell’America imperialista, “ma in quella nazionalista, isolazionista, l’America great, come dice Trump”.  Naturalmente conta anche un altro fatto molto rilevante e molto doloroso – per me, questo è uno dei miei lividi che non vanno via e che se li tocchi, urlo – e cioè che il passaggio da Bush con la sua battaglia per i valori a Trump con la sua escrescenza orrenda non è stato diretto. In mezzo ci sono stati i due mandati di Barack Obama, il presidente che oggi “ci appare come un angelo”, dice Ferrara, ma che di fatto è stato colui che ha consegnato l’America a Trump. 

 
 Durante questa campagna elettorale Obama si è fatto molto sentire, ha recuperato con avanzo quel che non aveva fatto nel 2016 per Hillary Clinton. E’ intervenuto nella prima grande incertezza che è stata creata dalla pandemia a febbraio: l’esito delle primarie democratiche. Joe Biden era avanti, aveva vinto più degli altri, ma era tallonato da Bernie Sanders, che di certo era sbiadito rispetto al furore del 2016 ma che a maggior ragione cercava caparbio il suo riscatto. Diciamo Sanders ma intendiamo il mondo che gravita attorno a lui, cioè quella parte del Partito democratico che individua nell’establishment incarnato oggi da Biden e prima dalla Clinton un nemico se non proprio uguale ai repubblicani comunque molto simile. Prima che il processo delle primarie si bloccasse, Alexandria Ocasio-Cortez, la testimonial più in vista dei sandersiani oggi sulla copertina dell’edizione americana di Vanity Fair in mezzo ai fiori (anche lei corre alle elezioni del 3 novembre per confermare il suo seggio al Congresso), aveva pronunciato il necrologio della politica della moderazione sul palco di un festival pop in Texas. “I piccoli passi”, aveva detto, non sono un metodo efficace per risolvere i problemi della nazione, “essere moderati non è una posizione. E’ una mentalità nei confronti della vita, come ‘meh’”, aveva spiegato, alzando le spalle e storcendo la bocca per sottolineare questo “meh” che significava mancanza di interesse, di entusiasmo, di determinazione, di tutto. “Siamo diventati così cinici che consideriamo ‘meh’ o ‘eh’ – che consideriamo il cinismo come un atteggiamento intellettualmente superiore. E consideriamo l’ambizione come un’ingenuità giovanile quando i risultati più grandi che abbiamo ottenuto come società sono sempre stati determinati da atti ambiziosi e visionari. Ora il ‘meh’ viene quasi venerato. Ma per cosa? Davvero, per cosa?”. Di lì a poco sarebbe intervenuto Obama a dare una risposta: le liti, le spallucce, i “meh” sono rimandati a dopo le elezioni, oggi conta vincere e il candidato migliore per farlo è il mio ex vicepresidente Joe Biden.

 

Ferrara confessa che ha sentito molto male, in questi anni di botte trumpiane,  cioè quando ha avuto contezza della “distruzione sistematica realizzata in ogni fase della presidenza e in ogni atto presidenziale del ruolo guida dell’America in occidente”. E’ un livido che abbiamo in comune, in questo sequestro

 

Obama ha puntellato la campagna elettorale dei democratici, attivando un processo di rimozione del trumpismo – questa Amministrazione è un’anomalia, torniamo a com’eravamo quando il presidente ero io – che ha di fatto modulato l’offerta di Biden in una riedizione dell’obamismo. Così anche il Partito democratico si è messo a guardare indietro, a un’America great più contemporanea, ma comunque passata. Il futuro non c’è, la nostalgia invece galoppa assieme a un pensiero indicibile: l’obamismo senza Obama non è la stessa cosa. 

  
Sento questo mio livido farmi malissimo quando Ferrara parla dell’angelo Obama e dice: “Sappiamo che Obama ha creato le crepe del sistema, ha costruito le premesse per l’arrivo di Trump. Questo è indiscutibile. Queste crepe non sono state create soltanto dalla natura politicamente corretta di Obama, distante dalle ansie profonde del suo paese, non soltanto dalla sua natura simbolica perché era il primo presidente nero peraltro fortemente harvardiano, ma anche per la sua politica estera che già aveva fatto ritirare l’America dal mondo o per il pivot asiatico mai riuscito. E’ Obama che ha consegnato l’America a Trump, e Trump l’ha presa sconfiggendo quello che era considerato dai suoi un avversario implausibile, perché élitario e distante”. Ferrara ricorda anche le fratture all’interno del Partito democratico nel passaggio non riuscito da Obama a Hillary Clinton: “La base del partito non avrebbe mai accettato la gestione del potere di Hillary, non aveva accettato nemmeno che lei ne fosse la guida, e quella frattura costò molto alla Clinton in termini elettorali nel 2016, perché non era stato avviato alcun processo di ricomposizione interno”. Oggi il ticket Joe Biden e Kamala Harris è quanto di meglio si potesse trovare per tentare di levare a Trump un secondo mandato. 

  

  
“Ne penso tutto il bene possibile – dice Giuliano – E’ la soluzione ordinaria cui il Partito democratico doveva ricorrere: la scelta sandersiana non lo sarebbe stata per nulla. Certo, se i democratici fossero approdati a questa soluzione con un candidato meno anziano, meno gravato dalla sua storia, più vivace politicamente, sarebbe stato meglio. Ma ci si accorse presto che di alternative valide non ce n’erano, te lo immagini oggi un ticket Pete Buttigieg-Kamala Harris? Il pensiero giusto è stato: se vogliamo avere una chance di battere Trump dobbiamo mettere in campo l’ex vicepresidente di Obama e piazzargli accanto una persona più di razza, più di talento, più moderna, più accreditabile presso le minoranze ma con le carte in regola sul tema ‘law and order’”. Il Partito democratico riparte dall’obamismo “pur essendoci questo grande paradosso – dice Ferrara – del trumpismo come eredità dell’obamismo stesso”, ma questo dimostra “che la battaglia non è tra i liberal e Trump, anche se ovviamente loro sono gli unici che possono creare un’alternativa a Trump. La vera battaglia in America è per reimpandronirsi della tradizione conservatrice e di un pensiero conservatore solido”. Per emendare quella “grande eccezione antropologica e culturale” che è Trump intanto si riparte da Biden, “poi l’elaborazione ulteriore dovrà essere costruita. E i democratici la costruiranno gestendo la realtà, o meglio dimostrando di essere in grado di gestirla: la pandemia, l’intervento necessario dello stato nell’economia per sostenerla contro lo sconquasso del virus, le politiche per la crescita che saranno altrettanto indispensabili”. 

 
Il punto di arrivo  sarà un altro ancora e Ferrara si augura che i democratici non si accuccino dentro la politica identitaria liberal che ha portato a distorsioni enormi e inaccettabili per la mente americana “media”, come la chiama lui, sottintendendo una sfumatura che sa di normalità e di  moderazione. Pensa alla “cancel culture”, al desiderio – una furia spesso – di cancellare e annichilire tutto ciò che non rientra nel mainstream correttissimo dei liberal. Pensa a quello che noi liquidiamo come uno scivolamento a sinistra strutturale di tutto il mondo occidentale, reso ancora più visibile dalla pandemia e dall’urgenza di denaro pubblico per contenerla e chissà anche sconfiggerla, e che invece introduce degli elementi “neosocialisti” che nella mente americana media non trovano spazio. Anzi non hanno proprio alcun punto di ancoraggio. La ricostruzione politica nasce nella medietà, nel terreno comune del confronto, tra le persone “perbene” come le chiama Ferrara, quelle “che non separano le persone dai figli al confine messicano, per poi non ritrovare più le famiglie originarie, quelle che non dicono che i deputati al Congresso di origine africana vengono da dei paesi di merda, quelle che non accettano che una cosca di old boys occupi la Casa Bianca e ne faccia strame in una girandola di licenziamenti e grazie presidenziali, quelle che non vogliono una specie di governo personale privo del senso delle istituzioni, quelle che vogliono avere un Consiglio per la Sicurezza nazionale solido, quelle che vogliono una politica estera ragionevole e strutturata”. Queste persone sono certamente i liberal, ma sono soprattutto i conservatori sequestrati dal trumpismo, e pieni di lividi. Diciamo che siamo noi, i medi – liberali e moderati.

 
La sconfitta di Trump (e se invece vince?, chiedo, “non ci voglio nemmeno pensare, non è una cosa che riesco a prendere in considerazione: se Trump vince rassegniamoci alla completa desertificazione politica dell’America e non solo”) è la premessa della rinascita del pensiero conservatore e Ferrara vede nella nomina alla Corte Suprema del giudice Amy Coney Barrett un primo seme di questa rinascita. “Il mondo liberal deve accettare il fatto che Trump è stato una formidabile e nefasta eccezione nel pensiero e nel comportamento del ceto conservatore, e che l’eventuale messa a riposo della modalità populista-estremista non può significare la cancellazione di linee di divisione che preesistevano a Trump”. 

 

   
La libertà dopo il sequestro sarà tutta da elaborare e da definire,  l’ubriacatura di estremismo dovrà lasciare il posto a un dialogo costruttivo, e il pericolo è, come sempre, quello di perdere tutto il tempo a leccare ferite e impomatare lividi invece che imparare a godersi la libertà ritrovata. Ci soffermiamo ancora un po’ sulla vita da sequestrati prima di salutarci. Chiedo a Ferrara quali commentatori o intellettuali segue adesso nell’America trumpiana, dice che gli piace Ross Douthat del New York Times ma che si è anche immerso nell’antitrumpismo classico e correttissimo, che per restare al quotidiano newyorchese va dal conservatore Bret Stephens al liberal Frank Bruni, “che oggi non mi sembra più quel pazzo che mi pareva una volta, un pazzo appassionato di cucina”, dice. Se è vero che la ripartenza americana nasce nella consapevolezza della medietà e del pubblico medio, è altrettanto vero che in questi anni trumpiani ci siamo ritrovati ad abitare, da anti trumpiani, in convivenze invero bizzarre. Quando il mandato di Trump era appena iniziato, quando ancora cullavamo l’illusione che i suoi eccessi sarebbero stati perimetrati dalla presidenza e dal ruolo istituzionale ma intravvedevamo gli effetti devastanti sulla percezione dell’America da parte degli altri paesi, avevamo scherzato sul fatto che ci saremmo ritrovati ad abitare assieme a tutti gli odiatori dell’America, gli anti imperialisti e pure quelli che pensavano che lo sfacelo americano fosse iniziato proprio con quel Bush che Ferrara ama tanto. L’ironia e la voglia di scherzare si sono nel frattempo assottigliate ma oggi Ferrara dice che “la convivenza ha funzionato, perché l’aggressione di Trump era un’aggressione spettacolare ai valori di base comuni al mondo liberal e conservatore. Se uno diventa presidente e liquida tutto e tutti, dalla Nato alla tradizione militare e imperiale americana; se uno liquida il tessuto stesso del modo di considerare il funzionamento del potere, naturalmente crea allarme e si crea un esercito di nemici. Qui vale la famosa frase di Raymond Aron, che lui ha detto e non so se l’ha ripresa da qualcun altro: ‘Posso scegliermi i miei avversari, ma non posso scegliermi i miei alleati’”. La rivolta “scorretta di Trump è stata uno scombussolamento dei valori medi su cui si organizza il conflitto riguardo alle questioni dirimenti”, e quindi era inevitabile che i sostenitori di questi valori medi si ritrovassero seduti uno accanto all’altro. Per lui, che non sente l’appartenza a un partito ma è affascinato dalle idee e dai loro effetti profondi sulla politica e la cultura, la convivenza è quasi una normalità, ha attraversato il suo tempo, il nostro tempo, accompagnandosi a questa trasversalità naturale.

  
 Però Ferrara confessa che ha sentito molto male, in questi anni di botte trumpiane, in un particolare momento, cioè quando ha avuto contezza della “distruzione sistematica realizzata in ogni fase della presidenza e in ogni atto presidenziale del ruolo guida dell’America in occidente. E’ imperdonabile, è distruggere le basi su cui dovresti poggiarti”. Questo è un livido che abbiamo in comune (fa parte della categoria dei non toccabili) e ci porta dritti al colpo che, in questo sequestro, io ho patito di più. Altro che lividi: si vede il sangue. Riguarda l’amore per l’America, o meglio: continuare ad amare l’America anche se deformata dall’escrescenza orrenda del trumpismo. Non so quante volte ho posto questa domanda – ma tu l’ami ancora, l’America? – negli ultimi anni, quante risposte negative ho liquidato dicendo: allora vuol dire che non l’amavi davvero. Ho iniziato a pormi la questione la notte stessa dell’elezione di Trump (quella notte l’ho passata a casa di Ferrara a New York. Anzi, come mi è capitato altre volte nella vita, lui mi aveva salvato dalla mia disperazione chiamandomi quando si era capito che Hillary non avrebbe vinto e che era svanita la possibilità di andare a festeggiare all’auditorium col maledetto soffitto di cristallo rimasto intatto: “Ho ordinato dal miglior cinese di New York, vieni a piangere qui”) e mi sono ripromessa di continuare a rinnovare questo mio amore qualsiasi cosa fosse successa, in salute e in malattia come si dice. Sono quindi un pochino sensibile: conquistare l’amore è niente rispetto al saperlo conservare. 

 

  
Per questo non vado dritta al punto, la prendo larga: Ferrara aveva scritto, sempre all’inizio del mandato di Trump, che “quella gran gnocca della Statua della libertà” era forte e solida e che due mazzate di Trump non sarebbero state sufficienti per piegarla. Chiedo: come sta quella gran gnocca? “E’ molto ammaccata – risponde – non in maniera indelebile ma ha perso molto del suo fulgore, del suo splendore, c’è una sfiducia di base nell’esperimento americano. Il mio amico Zerlenga dice sempre che bisogna ricordarsi il giudizio di Freud sull’America, cioè che l’America è un ‘miscarriage of civilization’, un aborto spontaneo della civilizzazione. Chi non la pensa in questo modo, e io non la penso in questo modo, deve fronteggiare il fatto che siamo andati molto vicini a dare dell’America una rappresentazione simile”. In questo tempo di convivenze e mescolanze bislacche per correggere l’eccezione antropologica, Ferrara riconosce che su alcuni dossier lui potrebbe essere tranquillamente considerato trumpiano: “Il cambiamento climatico, le tasse, la deregulation, l’Iran, l’ingegneria genetica, e non è poca cosa”. Ma “non sono io che sono trumpiano, è Trump che ha usato questa piattaforma per costruire una anomalia costituzionale e per sfregiare il volto del potere americano. E’ ovvio che nel momento in cui ha fatto questo tipo di operazione, uno entra nel campo dei suoi nemici e su alcune cose cala un velo di ipocrisia e di silenzio. Anche in questo senso siamo stati sequestrati da Trump”. Ferrara si augura che con la vittoria di Biden e Harris, “se ci sarà”, “ognuno di noi potrà riprendere la propria libertà di pensiero e di visione del mondo”. 

 
Siamo tornati alla libertà riconquistata, quindi la domanda devo farla. Il tuo amore per l’America? “E’ intaccato. Trump è stato qualcosa di più di una crisi coniugale. Il mio amore è intaccato abbastanza profondamente. Forse il mio investimento era eccessivo”, ammette. Cioè, l’hai amata troppo, l’America? “Forse sì, ma questo riguarda tutte le passioni del nostro tempo, sono spesso investimenti eccessivi. Io ho sempre fatto lo spiritoso dicendo che ero l’uomo con più stati guida che ci fosse al mondo. Dopo che è crollato il primo mio stato guida, l’Unione Sovietica, ho preso come stato guida: lo stato vaticano di Ratzinger, lo stato di Israele di Sharon, gli Stati Uniti di Bush. Ho sempre avuto una nozione autoironica del fatto che l’investimento fosse eccessivo. Sapevo che erravo per eccesso, anche se non credevo fino a questo punto”. Ma quindi sei disamorato? “No disamorato no, però mi sono sentito sequestrato dentro un groviglio apparentemente politologico, che si definisce attraverso l’aritmetica elettorale di quattro stati shithole, per citare sempre il presidente, e non mi ci sono trovato bene”. Ferrara sente che sono delusa, dice che “poi comunque esiste il divorzio e si può sempre trovare un accordo”, ma da quando mi ha detto “amore intaccato” non ho smesso di chiedermi chi sia, tra noi due, più conservatore, se io che mi ostino in quest’amore per l’America o lui che aspetta la fine del trumpismo per buttarsi in una nuova avventura. Penso che tutti e due, la prossima volta, vorremo raccontarvi la storia di una rinascita.

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