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Non così speciale

Come vanno i negoziati per l’accordo commerciale tra Londra e Washington? Non bene. Ecco perché

Paola Peduzzi

Un libro sulla nostalgia e uno studioso spiegano perché l’affinità tra Johnson e Trump non è poi così fruttuosa

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Milano. Quando le cose vanno male con l’Europa, Londra guarda oltreoceano, e cerca là rassicurazioni. Lo ha fatto anche quest’estate, perché uno degli strumenti di compensazione più forti che ha il Regno Unito riguardo alla Brexit è l’accordo commerciale bilaterale con gli Stati Uniti: il divorzio con l’Unione europea ha senso se si trovano nuovi partner, insomma. In questo senso Boris Johnson, premier inglese, e Donald Trump, presidente americano, sono sulla carta i partner più affiatati: condividono il disprezzo nei confronti dell’Europa e si sono scambiati più volte frasi di sostegno reciproco – si ammirano l’un l’altro, sostiene l’ex ambasciatore inglese a Washington, Kim Darroch, che però non ha un buon rapporto con nessuno dei due perché si è dovuto dimettere per via di un’indiscrezione acida nei confronti di Trump e non ha avuto alcuna copertura da Johnson. Al di là dell’affiatamento però, la trattativa tra Regno Unito e America per l’accordo commerciale non sta andando bene. Il tour negoziale di agosto non ha portato ad alcun risultato concreto e molti addetti ai lavori sostengono che ora gli incontri siano in pausa perché si aspetta di capire che cosa ne sarà della presidenza Trump al voto di novembre. In ogni caso, quel che doveva essere un negoziato rapido e sostenuto da tutti non stava rispecchiando le aspettative.

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Milano. Quando le cose vanno male con l’Europa, Londra guarda oltreoceano, e cerca là rassicurazioni. Lo ha fatto anche quest’estate, perché uno degli strumenti di compensazione più forti che ha il Regno Unito riguardo alla Brexit è l’accordo commerciale bilaterale con gli Stati Uniti: il divorzio con l’Unione europea ha senso se si trovano nuovi partner, insomma. In questo senso Boris Johnson, premier inglese, e Donald Trump, presidente americano, sono sulla carta i partner più affiatati: condividono il disprezzo nei confronti dell’Europa e si sono scambiati più volte frasi di sostegno reciproco – si ammirano l’un l’altro, sostiene l’ex ambasciatore inglese a Washington, Kim Darroch, che però non ha un buon rapporto con nessuno dei due perché si è dovuto dimettere per via di un’indiscrezione acida nei confronti di Trump e non ha avuto alcuna copertura da Johnson. Al di là dell’affiatamento però, la trattativa tra Regno Unito e America per l’accordo commerciale non sta andando bene. Il tour negoziale di agosto non ha portato ad alcun risultato concreto e molti addetti ai lavori sostengono che ora gli incontri siano in pausa perché si aspetta di capire che cosa ne sarà della presidenza Trump al voto di novembre. In ogni caso, quel che doveva essere un negoziato rapido e sostenuto da tutti non stava rispecchiando le aspettative.

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Sui rapporti tra Johnson e Trump e quindi sullo stato della special relationship si è scritto molto: le due leadership appaiono simili, anche nei disastri, come dimostra la gestione della pandemia. “L’età della nostalgia”, saggio di Marta Dassù ed Edoardo Campanella, spiega bene le ragioni culturali di questa similitudine. I due autori spiegano che “nostalgia e nazionalismo si combinano” e creano fratture profonde in occidente, con esiti non del tutto scontati. Se è vero che c’è un’affinità tra Johnson e Trump e la loro visione nostalgica del mondo, allo stesso modo la costruzione di un’anglosfera coesa incontra molte difficoltà, perché la politica della nostalgia porta a un ripiegamento su se stessi che esclude tutti e tutto, anche le “special relationship”. “L’agenda britannica – scrivono Dassù e Campanella – sottolinea l’esigenza di controllo nazionale ma difendendo il sistema multilaterale, a partire dal libero scambio (l’ambizione dichiarata di Boris Johnson sarebbe anzi di trasformare la Gran Bretagna nel pivot del commercio globale); l’agenda di Trump è invece un’agenda unilateralista e almeno in parte protezionista, nel nome dell’America first”. La nostalgia che pure è un collante potente per Johnson e Trump e le loro posture nei rispettivi paesi a livello internazionale diventa un ostacolo.

 

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Thomas Wright, ricercatore della Brookings Institution e autore del magazine Atlantic, studia da tempo i rapporti tra Londra e Washington e non vede tra Trump e Johnson nulla di più che un’affinità personale. Il Regno Unito, scrive Wrright, vuole guardare il mondo fuori dall’Unione europea come un’opportunità per commercio e alleanze, mentre gli Stati Uniti sono più propensi nei confronti della “deglobalizzazione, della competizione tra grandi potenze e di trade-off dolorosi”. Pure se Trump ideologicamente sostiene la Brexit, la “special relationship” non va affatto bene, anzi secondo Wright è al suo minimo: all’inizio si pensava che il problema fosse la freddezza con l’ex premier britannica Theresa May ma con Johnson, a parte le effusioni formali, le cose non sono migliorate. Il negoziato commerciale serviva ai brexiteer e a Trump per mostrare all’Ue che l’alternativa c’era ed era anche promettente, ma la distanza sulla questione dell’agricoltura e sui dazi è grande e i toni sono diventati molto più secchi anche tra i negoziatori. A metà agosto, il Wall Street Journal che flirta con entrambi i leader e le loro strategie, chiedeva: com’è che l’accordo commerciale non c’è ancora? Secondo il quotidiano, ci si è persi nei dettagli e non si guarda al beneficio complessivo – in termini di scambi e di equilibri geopolitici – di un accordo, ma i negoziati a questo servono: ai dettagli. Così come il divorzio tra Regno Unito e Ue ha incontrato molte difficoltà (eufemismo), così anche la “special relationship” vista da vicino non è poi così speciale.

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