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Molti ministri libici sono filoturchi e vogliono cacciare i nostri soldati

Daniele Ranieri

I militari italiani in Libia non piacciono ad Ankara che vorrebbe mandarli via (o almeno fuori dall’aeroporto)

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Roma. Di Maio arriva di nuovo a Tripoli, come a dicembre, a febbraio e a fine giugno. A metà luglio c’era andata il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, assieme con il capo dell’Aise Gianni Caravelli e a inizio agosto il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, di nuovo con Caravelli. Arriva in un brutto momento, nella capitale libica il ministro dell’Interno, Fathi Bashagha, è stato sospeso perché incoraggiava le proteste di piazza contro il premier Fayez al Serraj e queste faccende politiche talvolta finiscono per essere risolte dalle milizie armate invece che nei corridoi.

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Roma. Di Maio arriva di nuovo a Tripoli, come a dicembre, a febbraio e a fine giugno. A metà luglio c’era andata il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, assieme con il capo dell’Aise Gianni Caravelli e a inizio agosto il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, di nuovo con Caravelli. Arriva in un brutto momento, nella capitale libica il ministro dell’Interno, Fathi Bashagha, è stato sospeso perché incoraggiava le proteste di piazza contro il premier Fayez al Serraj e queste faccende politiche talvolta finiscono per essere risolte dalle milizie armate invece che nei corridoi.

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L’ultimatum a Bashagha scadeva ieri sera, speriamo bene. Ma è un brutto momento in particolare per gli italiani perché il nuovo ministro della Difesa libico, Ali Namroush, è molto filoturco e vorrebbe che il contingente dei soldati italiani presente in Libia lasciasse il paese. È una questione che mette sotto pressione il governo italiano. L’Italia schiera circa trecento uomini in Libia a Misurata, a presidiare un ospedale militare dentro il compound dell’aeroporto. E’ una presenza che dura dal 2016 e nel corso dell’ultima guerra civile i militari italiani sono rimasti chiusi dentro gli edifici dell’ospedale mentre a poche centinaia di metri cadevano le bombe del generale Haftar – se si vanno a vedere le foto satellitari si legge la scritta cubitale “Italy” tracciata dai soldati sul tetto dell’ospedale in modo che i bombardieri non sbagliassero bersaglio.

 

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Quell’aeroporto però è un luogo strategico per i turchi, perché da lì – e da un altro aeroporto che però è in mezzo al deserto, al Watiyah – passano i rifornimenti militari che la Turchia manda in Libia. La presenza degli italiani è comunque una presenza occidentale e in qualche modo osserva tutto questo traffico e il ministro Namroush non vede l’ora che gli italiani abbandonino la posizione. A fine luglio, come sgarbo, diciassette soldati italiani destinati all’ospedale di Misurata sono stati rispediti indietro perché “sprovvisti di timbro sul passaporto”, mentre altri soldati italiani destinati a Tripoli e anch’essi senza timbro sono stati fatti passare. Messaggio chiaro. I libici (e i turchi) vorrebbero che gli italiani si trovassero un altro posto se proprio vogliono restare e offrono una sistemazione dentro la città di Misurata. Ma un conto è stare dentro le mura del compound dell’aeroporto, che offrono sicurezza (è lì che le forze speciali americane e inglesi avevano la loro base durante la campagna contro lo Stato islamico, nel 2016) e un altro conto sarebbe stare in mezzo alla città: non c’è la stessa garanzia di sicurezza. Misurata è un luogo più sicuro di altri posti della Libia, ma è pur sempre Libia e lo Stato islamico ogni tanto riesce ancora a colpire. La faccenda oltre a essere molto pratica ha tutto un suo valore simbolico: la nostra importanza in Libia è al minimo, sono i turchi che adesso chiedono e ottengono – del resto hanno protetto Tripoli e hanno vinto la guerra civile contro Haftar – mente i ministri italiani tentano di sistemare i singoli dossier che considerano più importanti.

  

L’Interno segue l’immigrazione, la Difesa negozia per quel che riguarda la presenza dei soldati italiani e Di Maio, che nel settembre 2019 aveva trasferito alla Farnesina il Commercio internazionale, si prepara ad annunciare possibili occasioni in Libia – sempre con il permesso dei turchi. Nel viaggio di oggi oltre a incontrare Serraj il ministro andrà anche al capo opposto del paese per parlare con Aguilah Saleh, a Tobruk, come a dicembre era andato a parlare anche con il generale Haftar. In teoria questa doppia tappa, oggi come a dicembre, dovrebbe servire a sfoggiare equidistanza. In pratica a voler essere equidistanti in Libia si finisce per non contare per nessuna delle due parti.

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