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Le ragazze di Minsk

Anna Zafesova

“Nessuna ve la darà più”, urlano le rivoluzionarie contro Lukashenka che non hanno più paura dei poliziotti

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“Nessuna ve la darà più”, scandiscono canzonatorie le manifestanti di fronte ai poliziotti, gettando in faccia ai maschi con i volti mascherati e i manganelli in mano il rifiuto più antico e più temuto, quello della derisione e del disprezzo. Nel terzo weekend di manifestazioni oceaniche in Bielorussia sono state di nuovo le donne a guidare le piazze, a sfidare i cordoni della polizia antisommossa, novelle Lisistrate che agitano cartelli come “Il patriarcato è finito”.

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“Nessuna ve la darà più”, scandiscono canzonatorie le manifestanti di fronte ai poliziotti, gettando in faccia ai maschi con i volti mascherati e i manganelli in mano il rifiuto più antico e più temuto, quello della derisione e del disprezzo. Nel terzo weekend di manifestazioni oceaniche in Bielorussia sono state di nuovo le donne a guidare le piazze, a sfidare i cordoni della polizia antisommossa, novelle Lisistrate che agitano cartelli come “Il patriarcato è finito”.

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La loro bionda leader Maria Kolesnikova si avvicina fino quasi a sfiorare gli scudi degli agenti, esibendo un dolcissimo sorriso e alzando le mani unite a cuoricino, quello che ormai è il suo marchio di fabbrica nel trio delle Grazie che hanno sfidato il dittatore alle elezioni del 9 agosto scorso. Le sue seguaci intanto circondano i poliziotti, ridono, strillano come scolarette scappate dalla lezione, spuntano fuori da tutte le parti, gli vanno incontro, li spintonano, agitano bandiere, cartelli e fiori.

 

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Non hanno paura dei poliziotti, anzi, sono loro a cercare il contatto fisico in un abbraccio morbido che gli agenti preferiscono fuggire, rompendo i ranghi tra le risate delle donne, che li accerchiano per poi sparpagliarsi, in una coreografia caotica che ricorda una danza popolare, o un gioco di quelli che in questa parte d’Europa si facevano un tempo la notte di san Giovanni, nei prati intorno ai falò. Lo rifanno una volta, due, dieci, e nell’iconografia di questa rivoluzione impossibile entra l’immagine degli uomini armati che scappano dalle donne in bianco che scandiscono con voci squillanti lo slogan di Alexei Navalny: “Il potere qui siamo noi”. Uno slogan coniato dal leader dell’opposizione russa per le piazze anti Putin, ma che nelle piazze anti Lukashenka si può ritradurre come “women power”.

  

La rivoluzione in Bielorussia ha un volto di donna, per parafrasare il titolo del primo romanzo-documento che rese celebre Svjatlana Alexievich, perché anche il nome bielorusso più famoso nel mondo è quello di una donna, e la premio Nobel convocata dalla magistratura per aver aderito al comitato dell’opposizione è un simbolo della protesta quanto la pensionata 83enne Nina Baginskaya, che sfida gli Omon, i picchiatori più duri della polizia, o le attiviste che denunciano le percosse e gli stupri subiti durante l’arresto. Tra le tante sorprese della rivolta della docile Bielorussia le ragazze sono la sorpresa più bella, in tutti i sensi: giovani e meno giovani, vestite prevalentemente di bianco, pettinate e truccate, giacche di buon taglio e camicie di lino con i ricami rossi geometrici della tradizione, sorridenti e fiere, e tutte con in mano l’arma del rivoluzionario del Duemila, lo smartphone col quale postare su Instagram il look della protesta. Il potere a Minsk sono loro, non solo perché a sfidare il dittatore nelle urne sono state tre donne – la frontrunner Svjatlana Tikhanovskaya, che ha corso al posto del marito in carcere, Veronika Tsepkalo, avatar del marito costretto all’esilio, e Maria Kolesnikova, capa della campagna elettorale di un altro candidato arrestato, Viktor Babariko – ma anche perché è la rivoluzione del nuovo contro il vecchio, e nulla la riassume meglio delle ragazze che fanno rotolare le zucche davanti alla residenza del presidente, un’antica usanza popolare per respingere un corteggiatore venuto a noia.

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Perché Putin può anche cascare nel delirio geopolitico di Lukashenka sulla Nato che sta per annettere la Bielorussia alla Polonia (storia cui può credere solo l’autore dell’unico Anschluss del XXI secolo), ma per la Bielorussia è una rivolta contro il suo autoproclamato “batka”, padre, è non solo un 1989, ma anche un 1968 a scoppio ritardato. Chi ragiona per stereotipi faticherà a ritrovare nelle bielorusse per strada le “ragazze dell’est” che l’immaginario popolare vuole soltanto in cerca di mariti occidentali, e nemmeno le “babushke” contadine distrutte dalla fatica.

  

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Nel mondo postsovietico il 99 per cento delle donne lavora, come hanno lavorato le loro madri e nonne. Sono ingegneri, giudici, professoresse e medici. Sono quelle che reggono un paese dove le donne sono sempre state più numerose degli uomini, falciati da rivoluzioni, guerre e gulag, un mondo dove la parola “casalinga” suona esotica e le donne che mantengono i mariti non sono una rarità. Le loro madri hanno accettato il maschilismo sovietico per cui, come dice Lukashenka, “la politica è roba da maschi”, ma le millennial bielorusse sono scese in piazza con cartelli come “Sasha, il sessismo ti ha rovinato”.

  

  

“Sasha” Lukashenka è del resto il leader misogino per eccellenza, il dittatore che ha lasciato al villaggio natio a mungere le mucche la moglie Galina e che ha tirato su da solo un figlio – il 15enne Kolya che lo affianca in questi giorni con un mitra in mano – di cui si ignora il nome della madre, alla quale l’ha strappato per renderlo il suo delfino, da crescere in mezzo ad armi e mazze da hockey. E’ l’autoproclamato “padre” di un paese che paragona a una amata che “non si può cedere a nessuno”, in una specie di teorizzazione del femminicidio, in quel sogno del paranoico che crede che la massima virtù femminile sia la docilità. Ha anche lui le sue “bimbe”, che gridano in piazza “sei il nostro padrone”, e hanno i volti cupi, scavati dalla fatica e dalla miseria, i capelli bruciati dall’acqua ossigenata e i denti rovinati delle donne sovietiche, e sembra quasi impossibile che siano le madri e le sorelle delle leggiadre creature che colpiscono con i fiori gli elmetti dei poliziotti, come delle fate capaci di trasformare i rospi in principi azzurri. Quella bielorussa è anche una rivolta generazionale. Mandare le donne all’avanguardia può essere stata una mossa mediatica intelligente, in questa rivoluzione senza leader e senza partiti, dove gli slogan e i programmi nascono su anonimi canali Telegram e nelle chat di mutuo soccorso. Ma la gioia scatenata delle ragazze che invadono le strade in un carnevale liberatorio non può non essere autentica, non è nata nelle provette degli spin doctor, come sono autentici i guidatori maschi che frenano cortesi e le conducenti dei tram (dai tempi del “Maestro e Margherita” in Urss i tram li guidano le femmine) che bloccano la carreggiata mentre sporgono la V di vittoria dal finestrino.

  

A vedere la fanciulla che scende per le strade di Minsk con un vaporoso abito da sposa e il cartello “voglio sposare uno che protesta” può sembrare che i maschi siano latitanti, e la Libertà sulle barricate sfida il macho in divisa con il manganello. La tradizione oblomoviana del maschio sul divano, troppo preso da depressioni e dubbi esistenziali per passare all’azione, in realtà viene smentita da numerosi eroi della protesta, dagli hipster in bicicletta che pedalano contro la dittatura, ai dj che vengono arrestati per una canzone di dissenso in piazza e diventano subito un graffito a Minsk, ai direttori di teatri, ambasciatori e primari che vengono licenziati per aver solidarizzato con la rivolta. I poliziotti che gettano le divise nel cassonetto davanti a una telecamera sono i più cliccati, mentre il premio di quelli più originali va agli operai dei giganti industriali bielorussi in tuta blu ed elmetto da manifesto, una specie umana e sociale che sembrava sparita dalla politica dai tempi dei cantieri di Danzica di Lech Walesa. Quella bielorussa è una protesta trasversale, che non conosce divisioni gender e di classe, che fa scendere in piazza la capitale come le cittadine di provincia, è una rivolta popolare, una “rivoluzione democratica”, come ha ricordato Svetlana Tikhanovskaya al Parlamento europeo, rifiutando di iscrivere l’opposizione di cui è diventata volto e leader nella visione manichea “filorussa-antirussa” che rischia di far cadere la Bielorussia nella morsa della “geopolitica” del Cremlino.

  

Le donne però non sono solo state quelle che, dopo i primi giorni di scontri sempre più violenti, che sembravano un preludio inevitabile a una repressione brutale e definitiva, hanno ridato fiato e fantasia a una rivoluzione pacifica e fragile, volgendo a loro favore il pregiudizio maschilista di un mondo che non ritiene che le femmine siano un avversario pari. Sono lo scudo umano di una protesta che altrimenti sarebbe già finita con le ginocchia e le costole rotte nei mini lager di Lukashenka. Ma sono soprattutto la leggerezza e l’ironia, due armi contro le quali la dittatura non può molto. Putin può aver deciso, suo malgrado, di appoggiare il fallimentare presidente bielorusso, perché nelle semplici equazioni del Cremlino un leader che perde le elezioni e soccombe alla piazza si difende sempre, perché qualunque movimento verso una maggiore democrazia è un movimento che si allontana dalla Russia putiniana e si avvicina all’odiata Europa. Del resto, anche lui è un autocrate senza first lady, che ha fidanzate segrete e figlie nascoste dal segreto di stato, mentre trascorre il suo tempo libero giocando a hockey con soli maschi, tra cui il dittatore bielorusso. E’ un mondo di uomini che odiano le donne, dove la femmina è sinonimo di debolezza, e venire derisi dalle femmine è l’insulto supremo.

 

Lukashenka ha mostrato che nulla lo convincerà a mollare il potere. Ma un “padre” della nazione deve mostrarsi forte, invincibile, inscalfibile. Se ogni domenica viene ridicolizzato dalle donne che lo chiamano “scarafaggio”, se ogni settimana i suoi poliziotti scappano dalle dame in bianco bielorusse che promettono di non dargliela mai più, se tutti i giorni il suo popolo, dai conduttori televisivi alle conducenti di tram, si ribella a lui e soprattutto non mostra di avere paura – e quando le femmine sono piene di coraggio, anche i maschi si vergognano a mostrare tentennamenti – il valore di Lukashenka come partner scende sotto zero, e anche un maschilista come Putin potrebbe forse decidere all’ultimo momento di non passare alla storia come quello che ha mandato i carri armati contro una rivoluzione di ragazze.

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