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Charlie Hebdo, resa in cinque atti

Giulio Meotti

Si apre il processo sulla strage dei vignettisti. “Gli assassini possono reclamare una vittoria postuma?”

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Philippe Lançon, gravemente ferito durante l’attacco dei fratelli Kouachi nei locali di Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, ancora convalescente partecipa a una serata dove incontra Michel Houellebecq. I due hanno una breve conversazione. Houellebecq conclude sussurrando: “Sono i violenti che vincono”. “Charlie Hebdo, libertà o morte”, titolava ieri l’editoriale del Figaro. A prima vista, sì, la battaglia è persa, scrive il quotidiano francese. L’islam politico, di pari passo con la sinistra culturale, “avanza sotto la maschera dei diritti umani e della lotta contro la discriminazione”. Buona parte della stampa francese accoglie il processo su Charlie Hebdo che si apre domani con una sensazione di ripiegamento e di resa. “Il mio sfortunato cliente sarà la libertà e temo che nel medio termine sia una causa persa”, ha detto al settimanale Point l’avvocato di Charlie Hebdo, Richard Malka. “I fratelli Kouachi e quelli che li hanno armati hanno vinto, sì… Chi pubblicherebbe oggi le caricature di Maometto? Quale giornale? In che pièce teatrale, in che film, in che libro si osa criticare l’islam?”.

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Philippe Lançon, gravemente ferito durante l’attacco dei fratelli Kouachi nei locali di Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, ancora convalescente partecipa a una serata dove incontra Michel Houellebecq. I due hanno una breve conversazione. Houellebecq conclude sussurrando: “Sono i violenti che vincono”. “Charlie Hebdo, libertà o morte”, titolava ieri l’editoriale del Figaro. A prima vista, sì, la battaglia è persa, scrive il quotidiano francese. L’islam politico, di pari passo con la sinistra culturale, “avanza sotto la maschera dei diritti umani e della lotta contro la discriminazione”. Buona parte della stampa francese accoglie il processo su Charlie Hebdo che si apre domani con una sensazione di ripiegamento e di resa. “Il mio sfortunato cliente sarà la libertà e temo che nel medio termine sia una causa persa”, ha detto al settimanale Point l’avvocato di Charlie Hebdo, Richard Malka. “I fratelli Kouachi e quelli che li hanno armati hanno vinto, sì… Chi pubblicherebbe oggi le caricature di Maometto? Quale giornale? In che pièce teatrale, in che film, in che libro si osa criticare l’islam?”.

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L’avvocato di Charlie: “Chi pubblicherebbe oggi le caricature di Maometto? In quale pièce, film o libro si osa criticare l’islam?”

Domani quattordici sospetti complici degli islamisti francesi dietro gli attacchi alla rivista satirica e a un supermercato ebraico a Parigi andranno finalmente a processo. Diciassette persone rimasero uccise durante quei tre giorni di sangue che avrebbero segnato l’inizio di un’ondata di violenza islamista che avrebbe lasciato oltre 250 morti. Dei quattordici imputati, tre saranno processati in contumacia e potrebbero essere deceduti. Si ritiene che Hayat Boumedienne, la moglie di Amedy Coulibaly, e i fratelli Mohamed e Mehdi Belhoucine, si siano recati in aree della Siria sotto il controllo dello Stato islamico poco prima degli attacchi di Parigi. Sul banco degli imputati ci sarà Ali Riza Polat, che avrebbe aiutato le cellule a trovare armi e munizioni. Negli ultimi mesi “sono stati sventati diversi attentati”, ha appena detto Jean-François Ricard, procuratore antiterrorismo francese. L’ex ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve al Parisien dice che “la violenza ha messo radici nel cuore della società”, teme “il rischio di una conflagrazione” e definisce il comunitarismo “un veleno lento e fatale”, indicando “coloro che l’hanno dimenticato, in particolare all’interno della sinistra”. La sua famiglia politica.

 

“Charlie Hebdo vive ancora minacciato di morte; ciò che rappresenta, la libertà, è agli arresti domiciliari; la Francia è paralizzata non appena compare la parola ‘islam’ e il mondo politico e i media hanno celebrato Charlie e poi preso le distanze”, scrive sul Point Étienne Gernelle. “Il reato di blasfemia non è ancora nel codice penale, ma è stato interiorizzato e la Francia – come altri paesi occidentali del resto – difende meno la sua libertà di espressione, scegliendo spesso di inchinarsi al sempre più lungo corteo degli ‘offesi’”. Parlando al Figaro, l’ex giornalista di Charlie Hebdo, Zineb El Rhazoui, regolarmente minacciata di morte, punta il dito contro chi accusava la rivista di islamofobia: “Ricordo tutti coloro che hanno contribuito all’isolamento e alla discesa di Charlie agli inferi. Hanno una responsabilità morale per il destino riservato a Charlie. E’ normale che cinque anni dopo questo orribile crimine, questa orribile battuta d’arresto per la libertà di espressione e per la cultura francese, ci sia ancora un ‘collettivo contro l’islamofobia’ in Francia? E’ normale che cinque anni dopo questo attacco devo continuare a camminare con uomini armati nel cuore di Parigi?”.

 

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I giornalisti che “capiscono” i terroristi, “non avrai il mio odio” che diventa una caricatura, la “marcia contro l’islamofobia”, il caso Mila

Anche il settimanale Marianne in edicola osa chiedere: “I fratelli Kouachi possono vantare una vittoria postuma? Sì”. Cinque anni e cinque atti di capitolazione, scrivono.

  

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Primo atto. “Charb” e i suoi colleghi sono morti da appena sei giorni quando la scrittrice Virginie Despentes, oggi uno dei nomi più blasonati della letteratura femminile nell’Esagono, sull’Inrockuptibles scrive: “Sono Charlie e i ragazzi entrati con le armi. Quelli che avevano appena comprato un kalashnikov al mercato nero e avevano deciso, a modo loro, l’unico a loro disposizione, di morire in piedi anziché in ginocchio […] Li ho amati nella loro goffaggine quando li ho visti con le armi in mano seminare il terrore gridando ‘abbiamo vendicato il Profeta’”. Non una parola sulla sorte dei vignettisti, giornalisti e impiegati di Charlie assassinati per aver ironizzato sull’islam. Secondo atto. Il 17 novembre 2015, quattro giorni dopo gli attacchi al Bataclan, il giornalista Antoine Leiris che ha perso la moglie nel concerto scrive: “Non avrai il mio odio”. Diventerà, scrive Marianne, lo “slogan informale nei circoli progressisti”. Mantenere la calma, non cedere alla stigmatizzazione, non odiare, in nome dei valori umanisti. Nobile intento. Ma portata all’estremo fino a diventare una caricatura, “la fede di Leiris ha impedito non solo l’indignazione ma anche una lucida analisi della situazione”. Terzo atto. Il direttore di Mediapart, Edwy Plenel, sei giorni dopo la strage tiene un incontro nella periferia di Parigi con… Tariq Ramadan. E accusa Charlie di “guerra ai musulmani”. Quarto atto. Nel 2019 la svolta della “marcia contro l’islamofobia”. Uno slogan che esce dalla cerchia delle associazioni religiose salafite “per riunire la quasi totalità delle leader politici di sinistra”. Besancenot, Hamon, Jadot, Mélenchon: tutti hanno firmato l’appello per la “marcia contro l’islamofobia”, durante la quale si urla “Allahu akbar”. Quinto atto, l’ultimo. “Possiamo criticare l’islam senza temere per la propria sicurezza?”, si chiede Marianne. E’ il caso Mila e pone una serie di domande fondamentali. Nel gennaio scorso, questa ragazza di sedici anni ha risposto a insulti omofobi sul suo account Instagram criticando l’islam. Minacciata di morte, Mila fugge dalla scuola ed è posta sotto la protezione della polizia. “Da parte dei partiti politici di sinistra, delle organizzazioni femministe e delle associazioni Lgbt, c’è il silenzio radio: quando gli aggressori sono musulmani la parola d’ordine è ovviamente chiudere gli occhi e coprirsi le orecchie”.

 

  

Con lo “spirito di Charlie” che arretra e la “cancel culture” che avanza in parallelo ai taglialingue islamisti, in tribunale sembra esserci finita la libertà di espressione, questa sconosciuta.

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