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Perché in Mali il golpe militare è un brutto colpo per Macron

Andrea de Georgio

Uno dei generali che hanno preso il potere è appena tornato da un sospetto tour di formazione in Russia. I 200 soldati italiani

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Bamako, capitale del Mali, martedì si è svegliata al suono dei kalashnikov. I colpi, cominciati nella notte di lunedì, sono continuati a rimbombare per buona parte della mattinata, provenienti dal campo di Kati, principale guarnigione dell’esercito maliano a 15 chilometri dal centro città. Qui un gruppo di ufficiali ha deciso di cavalcare l’onda di malcontento popolare che cresce da giugno nel paese, improvvisando un’azione che in poche ore ha portato, senza quasi spargere sangue (si parla di 4 morti e 11 feriti da proiettili vaganti), alla destituzione dell’intero potere esecutivo e alle dimissioni forzate del presidente Ibrahim Boubacar Keita (detto IBK), eletto democraticamente nel 2013 e riconfermato nel 2018. Il copione è quello consueto dei colpi di mano militari in Africa occidentale, e in parte rispecchia il golpe del marzo 2012 del Capitano Sanogo, che portò alla prima elezione di IBK (oltre che al vuoto di potere che permise ai jihadisti legati ad al Qaida di conquistare i due terzi settentrionali del paese): ammutinamento di una parte dell’esercito che s’impossessa del deposito centrale delle armi a Kati e marcia verso la presidenza; ministri e politici della maggioranza arrestati dai golpisti; IBK si rifugia nella sua villa, nel quartiere di Sebenikoro, dove nel pomeriggio viene prelevato dai militari insorti, che respingono una folla inferocita che cerca di introdursi nell’abitazione; sfilate di manifestanti e militari in festa, a cui si aggiungono altre guarnigioni di soldati; caos generalizzato e notizie confuse.

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Bamako, capitale del Mali, martedì si è svegliata al suono dei kalashnikov. I colpi, cominciati nella notte di lunedì, sono continuati a rimbombare per buona parte della mattinata, provenienti dal campo di Kati, principale guarnigione dell’esercito maliano a 15 chilometri dal centro città. Qui un gruppo di ufficiali ha deciso di cavalcare l’onda di malcontento popolare che cresce da giugno nel paese, improvvisando un’azione che in poche ore ha portato, senza quasi spargere sangue (si parla di 4 morti e 11 feriti da proiettili vaganti), alla destituzione dell’intero potere esecutivo e alle dimissioni forzate del presidente Ibrahim Boubacar Keita (detto IBK), eletto democraticamente nel 2013 e riconfermato nel 2018. Il copione è quello consueto dei colpi di mano militari in Africa occidentale, e in parte rispecchia il golpe del marzo 2012 del Capitano Sanogo, che portò alla prima elezione di IBK (oltre che al vuoto di potere che permise ai jihadisti legati ad al Qaida di conquistare i due terzi settentrionali del paese): ammutinamento di una parte dell’esercito che s’impossessa del deposito centrale delle armi a Kati e marcia verso la presidenza; ministri e politici della maggioranza arrestati dai golpisti; IBK si rifugia nella sua villa, nel quartiere di Sebenikoro, dove nel pomeriggio viene prelevato dai militari insorti, che respingono una folla inferocita che cerca di introdursi nell’abitazione; sfilate di manifestanti e militari in festa, a cui si aggiungono altre guarnigioni di soldati; caos generalizzato e notizie confuse.

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In Mali l’ultima crisi politica interna di una lunga serie si protrae dal 5 giugno, data della prima manifestazione anti-governativa a Bamako. Sfidando i divieti di assembramento anti Covid circa ventimila persone del movimento M5-Rassemblement des forces patriotiques hanno protestato contro la decisione della Corte Costituzionale di assegnare arbitrariamente una trentina di seggi parlamentari, contesi durante le legislative di marzo-aprile, al partito di governo. Nonostante il conseguente dissolvimento della Corte Costituzionale, la piazza, incitata da alcuni leader musulmani radicali come il sempre più influente imam wahabita Mahmoud Dicko, ha continuato a chiedere le dimissioni di IBK fino alla violenta repressione dell’11 e 12 luglio, in cui 11 persone hanno perso la vita e più di 170 sono state ferite.

 

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Il clima di crescente instabilità e l’ennesimo passo falso di un presidente delegittimato e isolato – il casus belli è stato il licenziamento del capo della guardia presidenziale e di un comandante del campo di Kati, figure finora leali alla presidenza ma in odore di ammutinamento – hanno precipitato gli eventi, spingendo i colonnelli Malick Diaw e Sadio Camara (il secondo da poco rientrato da una “sospetta” formazione in Russia) ad architettare il golpe di martedì.

 

A notte fonda, mentre i saccheggi e i colpi in aria continuavano a tenere sveglia la città, la giunta si è presentata alla popolazione, come consuetudine da queste parti, in diretta dai locali occupati della tv nazionale. I portavoce degli insorti hanno promesso una “transizione politica civile”, elezioni generali “nel più breve tempo possibile” e “il mantenimento di tutti gli impegni internazionali”, dagli Accordi di pace di Algeri del 2015 ai patti militari con le potenze straniere. Formule giudicate troppo vaghe dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale – la Cedeao/Ecowas, massima istituzione regionale che in Mali è presente da metà luglio con una missione (evidentemente fallita) di mediazione – che ha imposto l’embargo sul Mali e minaccia il dispiegamento di una forza speciale regionale per riportare l’ordine costituzionale. Una “provocazione” secondo la giunta al potere, che si dice pronta a fronteggiare assieme alla popolazione, già sul piede di guerra sui social, “ogni tentativo d’ingerenza straniera” e di contro-colpo di stato, altra costante spesso ritornante a queste latitudini.

 

L’ammonimento è rivolto, senza dubbio, anche alla Francia, ex potenza coloniale oggi sempre più in difficoltà in quello che si ostina a considerare il proprio giardino di casa. Il presidente francese Emmanuel Macron, poco prima delle dimissioni in diretta tv di IBK, si è affrettato a condannare il “tentativo di ammutinamento in corso” promettendo di “monitorare attentamente la situazione”. Stessa posizione espressa dal resto della Comunità internazionale, restia ai repentini cambi al comando. Per la Francia, però, la caduta del fidato IBK (che secondo molti giovani maliani è l’ennesimo politico-fantoccio postcoloniale) è l’ultimo smacco di una stagione segnata dagli insuccessi politici. Un crescente sentimento anti francese – legato alla recente “finta riforma” del Franco CFA, al dispiegamento in tutta la regione, dal 2014 e senza successi maggiori, della forza anti terrorismo Barkhane e ad altri dossier sensibili – anima sempre di più i movimenti sociali giovanili e spinge parte dell’élite dirigenziale delle ex-colonie africane a cercare nuovi partner commerciali, politici e militari: Cina, Russia, Turchia, India, Arabia Saudita sono solo alcune delle nuove potenze emergenti nella partita geopolitica che si sta giocando in Africa occidentale.

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Una partita strategica a cui anche l’Italia ambisce a un ruolo centrale, come ribadito dalla decisione – contenuta nel Decreto missioni del 16 luglio – d’inviare nei prossimi mesi 200 soldati delle forze speciali, 20 mezzi di terra e 8 elicotteri nell’ambito della Task Force Takuba a guida francese, fra Mali, Niger e Burkina Faso. Paesi in cui l’Italia ha recentemente aperto (Niger e Burkina Faso) o ha intenzione di aprire (Mali) nuove ambasciate. Un teatro, quello del Sahel centrale, che da martedì si preannuncia ancor più insidioso e complicato di quanto finora ipotizzato.

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