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L’altra partita presidenziale

Giuseppe De Filippi

Trump contro Biden sul campo da golf. Ma il tycoon è l’imbroglione al comando, e batterlo è una scommessa

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Fa tutto di malavoglia, con una cattiva disposizione, con un continuo sottofondo rabbioso. Vale per la politica, per le elezioni presidenziali vinte e per quelle cui si accinge, vale per il business e anche per il golf. Perché qui si vuole parlare di golf e di Donald Trump e pure, un po’, di Joe Biden. Tema spremuto, ma mai abbastanza, grazie alla fortunata condizione in cui si trova da decenni la politica americana, e cioè a quella circostanza ideale per noi politologi istintivi che permette di mettere a confronto presidenti, vicepresidenti e altri top rank dell’Amministrazione perché tutti giocano a golf. Prerogativa degli Stati Uniti, perché in nessun altro paese ad alta densità golfistica esiste questo livello di confrontabilità sperimentale tra leader politici attraverso la prova delle 18 buche. Non succede nel Regno Unito, e neanche in Irlanda (dove davvero giocano a golf tutti). Non succede in Sud Africa, in Corea del sud, in Australia, e nei tanti altri paesi pieni di appassionati. Sono stati gli americani a fare del golf uno sport presidenziale e di tutti i cittadini, in una gigantesca operazione di marketing di massa partita negli anni 50, con un lavoro preparatorio già negli anni 30, e mai più fermata.

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Fa tutto di malavoglia, con una cattiva disposizione, con un continuo sottofondo rabbioso. Vale per la politica, per le elezioni presidenziali vinte e per quelle cui si accinge, vale per il business e anche per il golf. Perché qui si vuole parlare di golf e di Donald Trump e pure, un po’, di Joe Biden. Tema spremuto, ma mai abbastanza, grazie alla fortunata condizione in cui si trova da decenni la politica americana, e cioè a quella circostanza ideale per noi politologi istintivi che permette di mettere a confronto presidenti, vicepresidenti e altri top rank dell’Amministrazione perché tutti giocano a golf. Prerogativa degli Stati Uniti, perché in nessun altro paese ad alta densità golfistica esiste questo livello di confrontabilità sperimentale tra leader politici attraverso la prova delle 18 buche. Non succede nel Regno Unito, e neanche in Irlanda (dove davvero giocano a golf tutti). Non succede in Sud Africa, in Corea del sud, in Australia, e nei tanti altri paesi pieni di appassionati. Sono stati gli americani a fare del golf uno sport presidenziale e di tutti i cittadini, in una gigantesca operazione di marketing di massa partita negli anni 50, con un lavoro preparatorio già negli anni 30, e mai più fermata.

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Nel Trump golfista c’è il disprezzo per le regole e, forse più sottilmente, anche per il gioco in sé. La cattiva disposizione, il sottofondo rabbioso. Sposta la palla con opportuni calcetti con cui si trae d’impaccio, o la avvicina alla buca, e conta i colpi come gli pare a lui

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E in un campo da golf i presidenti o gli aspiranti tali si svelano anche quando, come fa Trump, cercano di affermare, la propria sicurezza, l’attitudine vincente, la capacità di cogliere successi e di superare le difficoltà. Bugie, ovviamente, ma interpretate da ciascuno a suo modo. Mostrandosi oltre le nostre aspettative. Ma a tanto disvelarsi corrispondono anche vari e complessi livelli di lettura. Anche per Trump, uomo di poche sfumature, il golf crea situazioni in cui forse neanche lui sa di essersi cacciato, costringe a scelte che non vorrebbe fare, induce compromessi da cui poi non sa venir fuori, smaschera il tronfio in noi e fa emergere concretezza e umiltà. Al Trump golfista è stato dedicato, dal giornalista sportivo Rick Reilly, un libro di acuta e informata politologia. Un successo, centrato fin dal gioco di parole nel titolo, con cheat al posto di chief, sulla sua attitudine a imbrogliare, a non rispettare le regole del golf (forse la Costituzione più antica del mondo, nata a metà del 700 e poi affidata a due corti costituzionali, una in Scozia e una negli Stati Uniti, con la seconda frutto di una specie di scissione, e a vari parlamenti, tra cui, per noi, quello della federazione europea e a ulteriori autorità locali).

 

Commander in Cheat, How Golf Explains Trump” è uscito nel 2019 prendendo spunto da una fantastica balla raccontata da Trump e cioè l’asserita vittoria in 18 campionati di circolo. Possibile, per un ottimo giocatore, ma impossibile per lui. In qualche caso la vittoria presunta consisteva nel comprare il campo o realizzarlo da zero, fare il primo giro inaugurale e proclamarsi in questo modo, per mancanza di rivali, campione del club andando poi a incidere su una targhetta di ottone, da lasciare a perenne memoria, il proprio nome nei locali sociali. Insomma una trovata meno che bambinesca. Un’altra volta la vittoria è avvenuta, come dire, per corrispondenza (come per le modalità di voto che ora lo stesso Trump sta contestando preventivamente in vista delle presidenziali). Il campionato del club di turno si giocava davvero, e c’erano vari iscritti tra i quali molti ben superiori a Trump, ma lui ha trovato la soluzione dicendo di non poterci essere perché aveva impegni altrove e che però avrebbe fatto un giro regolare in un altro campo e comunicando poi telefonicamente un risultato, 73 colpi per 18 buche, roba da giocatore di livello quasi professionistico, con cui, in quello che ora contesterebbe come un voto per posta, si è aggiudicato, contro ogni regola, la vittoria a distanza e un’altra placchetta di ottone.

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C’è disprezzo per le regole e, forse più sottilmente, anche per il gioco in sé. La malavoglia, la cattiva disposizione, il sottofondo rabbioso, restano il punto di partenza. E forse, con il golf, sono aumentati, quegli atteggiamenti negativi, da qualcosa che Trump non afferra in pieno. Perché il golf, fuori dalla patina snobistica (che in Usa non c’è o è limitata ad alcuni club) è qualcosa di stranamente antico. E’ un gioco di pastori, è arcaico. E’ fatto di bastonate a una palla, e bastava un bastone da pecoraio e un sasso un po’ più tondeggiante. E ha un ritmo ripetitivo che, pensa un po’, rimanda ai cicli vitali. Il primo colpo di ogni buca è una nascita, la palla viene fuori da una condizione inespressa e cominciano varie peripezie, per finire poi, be’, sottoterra. E poi ricominciare alla buca successiva. Ed è un odissea, un percorso epico: si parte da un luogo sicuro, si percorrono strade prima conosciute e poi sempre più sorprendenti, ci si perde o si perde la fiducia in sé stessi, si viene tentati dalle sirene e bisogna resistere alla vanità (prova a passare quel lago con un colpo da 200 metri invece di aggirarlo prudentemente…), per poi ritrovare la via e ritrovarsi e tornare nel luogo sicuro, in cui, a discapito dei presenti, si dà il via al racconto della propria epopea (perché il golfista, purtroppo, è un gran raccontatore e non resiste al desiderio di descriversi come un Ulisse). Trump vorrebbe il poema epico, ma non vuole fare la fatica di viverlo prima, e finisce, disprezzando in realtà il golf come disprezza tutto, per ridurre l’odissea a una targhetta col suo nome sopra. Ho vinto io e tanto vi basti.

 

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Essendo arcaico il golf è prima un gioco, cronologicamente prima, e poi uno sport. Non c’è contraddizione né preferenza per uno o l’altro termine nell’antica saggezza golfistica. Il gioco è parola antica, rimanda a uno spazio chiuso dominato dalle regole. Lo sport è una cosa ottocentesca, igienica e ricreativa, adottata da tutti, democrazie e dittature, per il miglioramento della salute pubblica o per lo sviluppo delle masse. Lo sport si può fare, appunto, per sport, perché si pensa che faccia bene in sé, anche solo per partecipare. Il gioco invece è tremendamente serio e si gioca per vincere (o per perdersi). E’ infantile e torbido assieme. E’ apprendimento (nei giochi formativi dei bambini) oppure perdizione (quello si è rovinato col gioco). Le regole sono il gioco, non rispettarle semplicemente non ha senso oppure non è consentito, e finisce molto male, se siete al tavolo del poker. Il fascino dello spazio dominato dalle regole, del microcosmo o del labirinto costruito dagli uomini e non dalla natura, è molto più potente della redenzione salutare in terra promessa dallo sport. Trump è fissato col golf, ma non gioca a golf, perché tende a non rispettarne le regole e quindi distrugge il concetto stesso di gioco. Potremmo dire che lo fa per sport, anche se usando quasi sempre il cart, la macchinetta, si priva anche della parte sportiva, della camminata, e due passi in più magari gli farebbero bene. I racconti su Trump imbroglione in campo sono un florilegio. La regola base del golf è che non si deve modificare nulla del campo come si trova e della palla come si trova. Vuol dire che se tra la mia palla e l’obiettivo c’è un ramo non posso staccarlo e se la mia palla è in una posizione scomoda non posso spostarla. Il resto lo fa la serie dei numeri interi da 1 in avanti con cui si contano i colpi. Trump rompe, secondo varie testimonianze, entrambe le regole, sia quella fondamentale sia quella numerica. Sposta la palla con opportuni calcetti, con cui si trae d’impaccio, o la avvicina alla buca quando gli fa comodo, sempre con spostamenti irregolari. E conta i colpi come gli pare a lui, tralasciando all’occorrenza qualche unità da sommare (a golf vince chi tira meno colpi). Quel giro in 73 colpi di cui parlavamo sopra, che gli fece avere un’altra delle vittorie nei campionati di circolo, pare che fosse, secondo il racconto di altri presenti scovati dai segugi della stampa americana, a contarli tutti e tenendosi pure ottimisti, un giro in 82 colpi.

 

Sono stati gli americani a fare del golf uno sport presidenziale e di tutti i cittadini. Un’operazione di marketing partita negli anni 50. 

Che poi neanche gioca male. E per un uomo della sua età e della sua stazza ha sicuramente capacità superiori alla media e una insospettabile agilità. Ha inventato un suo personale stile, di una certa efficacia. Nel golf il movimento con cui si colpisce la palla è una specie di firma, di codice identificativo, come nella vita lo è la voce o il modo di camminare. Ognuno ha il suo e anche da lì si vede qualcosa del carattere. Trump sostiene di giocare in modo naturale, ma è una bugia. Che svela lui stesso come tale, perché sostiene di aver letto e riletto uno dei libri fondamentali della tecnica golfistica, quello classico scritto dal grande campione Ben Hogan. E comunque il movimento del golf è fondamentalmente e notoriamente innaturale (tranne rarissimi casi al mondo che nascono con la predisposizione) e quello di Trump è particolarmente costruito, tra errori e compensazioni. Il suo swing è stato analizzato da maestri professionisti. Da loro ricaviamo che commette subito un errore all’inizio del movimento, portando indietro il bastone lungo una curva troppo interna ma poi riesce a compensare nella ridiscesa e a arrivare sulla palla con un discreto impatto, anche grazie a una sorprendente rapidità nel girare i fianchi e spostare il peso sulla gamba sinistra. Insomma: si complica la vita ma viene salvato da una buona ripetitività di questo movimento sghembo, che ne fa un giocatore abbastanza regolare. Non sufficiente, certo, per riuscire a giocare, come lui sostiene, con 2,8 di handicap, ma, come si diceva, certamente migliore di molti suoi coetanei. L’handicap, nel golf, corrisponde al numero di colpi attesi in più rispetto a quelli che tirerebbe il giocatore impeccabile in un determinato campo. Quindi Trump sostiene di chiudere 18 buche, mediamente, con 2 o 3 colpi in più rispetto al giro compiuto senza errori. Del tutto incredibile e d’altra parte l’handicap viene deciso in base agli score, ai risultati, attestati da un marcatore che controfirma il foglietto con i conteggi buca per buca. E Trump, come per le dichiarazioni dei redditi, non ha mai prodotto o svelato queste carte.

 

Biden è metodico, ripetitivo, un po’ indebolito dalle vicende passate, incapace di fare il colpo a sorpresa, ma affidabile

E veniamo a Joe Biden. Ha cominciato a giocare con buona frequenza abbastanza tardi, dopo i cinquant’anni, ma, prendendo lezioni da professionisti e applicandosi in modo più metodico, è riuscire ad arrivare a un handicap a una sola cifra, ovvero minore di dieci. Il single digit, la cifra unica dell’handicap è una delle tante piccole fissazioni da golfista, ma di Biden non sono attestate vittorie in campionati (ricordiamo che si tratta comunque di gare di circolo, nulla a che fare con il vero golf agonistico o con quello professionistico) e quindi nessuna targhetta in ottone appesa vicino al bar del club. Ora ha anche ridotto qualità e quantità del gioco per ragioni di età e forse di salute. Lo swing era abbastanza canonico, senza molta potenza ma con buona regolarità. E l’interpretazione del golf era ed è per Biden tipicamente quella della socialità e quindi niente gare, magari ritagliate su misura, o sfide para-agonistiche, rifuggendo quindi dal ridicolo, ma partite tra amici. Che poi gli amici fossero Barack Obama e altri nomi ai vertici dell’Amministrazione testimonia, come se ce ne fosse bisogno, che è un uomo di establishment. Tra amici, nelle partitelle, le regole si possono rendere un po’ elastiche, un occhio chiuso per uno e stiamo pari, rendendo il gioco più fluido e riducendo le occasioni di litigio. Ecco, al massimo Biden può indulgere in questo tipo di violazione, concordata e amichevole, delle regole. Non pretende di vincere usando metodi scorretti contro una moltitudine di partecipanti a una gara. Si accontenta della sua partita e se Obama, di cui è stato vicepresidente, deve tirare un colpo finale per imbucare da un metro di distanza, e spesso si sbagliano anche quelli, Biden è il tipo che, con fair play, gli dà il colpo per effettuato e imbucato, senza farlo davvero tirare. Come andrebbe un match tra i due? Forse Trump non accetterebbe, perché vuole sempre e solo giocare alle sue condizioni. E non potrebbe neanche mandare lo score complessivo per corrispondenza, perché nelle partite a due si gioca dando un punto ogni volta a chi tira meno colpi nella singola buca. Uno con un po’ di contorcimenti, l’altro con uno swing un po’ da ragioniere, alla fine, se proprio fossero costretti a sfidarsi in campo, rivelerebbero un gioco simile, basato sulla regolarità: nulla di spettacolare ma pochi errori. Sarebbe una partita noiosa, ma istruttiva. Simile a quella che giocheranno per la presidenza: uno ad arrotolarsi su sé stesso per correggere errori iniziali del suo stile e pronto a dare il classico calcetto alla palla ingiocabile, l’altro metodico, ripetitivo, un po’ indebolito dalle vicende passate, incapace del colpo a sorpresa ma affidabile quando si tratta di non sbagliare.

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