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Nuova temptation island: la gogna contro i big della Silicon Valley

Michele Masneri

L’America e la paura Tech. Un capro espiatorio da biasimare fa comodo a tutti, è come avere altri Benetton da bullizzare

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La gogna parlamentare in mondovisione è ormai un format consolidato per la Silicon valley, che col Covid non deve neanche disturbarsi a prendere l’aereo privato e andare a Washington. Così ieri collegati in videoconferenza dalla Costa Ovest, i nuovi master of the universe di quel continente sgangherato eccoli lì, apparire davanti alle solite sgangherate domande questa volta della commissione Antitrust della Camera dei rappresentanti. Presenti anzi collegati il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, quello di Amazon Jeff Bezos, il ceo di Google Sundar Pichai, quello di Apple Tim Cook. Un cast niente male per questa “Temptation island” tecno-fobica: il format, a parte la versione “Covid”, è lo stesso di due anni fa, quando Zuckerberg si presentò, da solo, in carne e ossa. Gragnuola di domande spesso farlocche che lasciano il tempo che trovano a questi colossali imprenditori-manager che appaiono contriti com’è giusto, probabilmente insinceri, dopo “rehearsal” con coach prelevati dai migliori studi legali o cinematografici. 

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La gogna parlamentare in mondovisione è ormai un format consolidato per la Silicon valley, che col Covid non deve neanche disturbarsi a prendere l’aereo privato e andare a Washington. Così ieri collegati in videoconferenza dalla Costa Ovest, i nuovi master of the universe di quel continente sgangherato eccoli lì, apparire davanti alle solite sgangherate domande questa volta della commissione Antitrust della Camera dei rappresentanti. Presenti anzi collegati il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, quello di Amazon Jeff Bezos, il ceo di Google Sundar Pichai, quello di Apple Tim Cook. Un cast niente male per questa “Temptation island” tecno-fobica: il format, a parte la versione “Covid”, è lo stesso di due anni fa, quando Zuckerberg si presentò, da solo, in carne e ossa. Gragnuola di domande spesso farlocche che lasciano il tempo che trovano a questi colossali imprenditori-manager che appaiono contriti com’è giusto, probabilmente insinceri, dopo “rehearsal” con coach prelevati dai migliori studi legali o cinematografici. 

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Come due anni fa poi non cambia sostanzialmente nulla, un po’ perché le accuse sono talmente vaghe da non poter avere risposte precise da chi guida compagnie da trilioni di dollari, un po’ perché stavolta mettere insieme Google e Amazon e Apple e Facebook annacqua ulteriormente il tutto. Le accuse sono le più diverse: Apple lucra sui fornitori delle sue app, Amazon usa i dati per combattere i fornitori, Google tende a dare risultati di ricerca che portano ad altri siti Google, Facebook preferisce comprarsi i concorrenti (come Instagram) quando non riesce a sconfiggerli. Niente di nuovo e forse niente di illegale, di sicuro non saranno quattro deputati impolverati a cambiare il corso delle cose. I parlamenti, in generale, esautorati delle loro prerogative, paiono ormai dei set cinematografici (cambiando canale, nelle stesse ore, a Roma, la Meloni indemoniata faceva fuoco e fiamme contro Salvini, e il risultato confondeva). E certo questa è un’inchiesta seria, partita l’anno scorso, e il sentimento generale è che si voglia spezzettare queste compagnie gigantiche, come prima si spezzettarono i monopoli del carbone o del petrolio o delle ferrovie. Ma oggi le forze in gioco e le tattiche paiono differenti: “Giurate voi di non utilizzare la schiavitù nella produzione dei vostri prodotti?”, chiedono i deputati americani, e i siliconvallici tutti giurano (e che dovrebbero fare?). Sono probabilmente consapevoli d’essere lì come perfetto capro espiatorio per il momento: perché fanno i soldi nonostante tutto – con la crisi si sa che Bezos, nonostante il divorzio in corso dalla moglie, ha ammassato ulteriori fantastilioni, mentre Facebook continua a essere considerata portatrice di messaggi affossa-democrazia.

   

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Insomma una Silicon Valley da biasimare fa comodo a tutti, è come avere una famiglia Benetton lì pronta da bullizzare. Loro eccoli: il cast questa volta è cambiato, si è arricchito, è un format che si evolve col tempo. Non più one-man-show ma corale. Zuckerberg nonostante sia un veterano ha la solita aria stupita-afflitta, ricevendo le domande di deputati talvolta rimbambiti (uno confonde Facebook con twitter, l’altro si impappina, tutto tende alla surrealtà come in un “Uomini e donne-Over”). Il fondatore di Facebook è impietrito nel suo monopetto (avendo fondato la sua estetica sulla felpa con cappuccio): ascolta le domande-accuse e poi dice ogni volta “congresswoman non so se porrei la domanda in questi termini”, pare Forlani alla sbarra con Di Pietro, tranne che gli manca la bavetta. Non si sa se è spaventato dalle domande o piuttosto dalla immane perdita di tempo che tutto questo comporta. Ma lui è appunto un veterano, due anni fa qui venne bersagliato da 100 deputati, 600 domande, dopo il caso “Cambridge Analytica”. Fece il suo “apology tour” e poi se ne tornò a San Francisco a macinare trilioni, come farà adesso una volta chiusa la webcam (e magari fuori campo ci sarà la moglie cinese, come negli Zoom degli esami di maturità).

   

Però, mentre sui palinsesti italiani va in scena lo psicodramma delle commissioni parlamentari (al Senato Grasso trombato, arriva il leghista Ostellari), che differenze; qui intanto l’odio anche di classe non sfiora mai neanche con l’anticamera del cervello l’idea che il profitto vada punito: mentre gliene dicono di ogni, a questi siliconvallici, tutti, democratici e repubblicani, nelle loro concioni, dicono semmai che il dolo di questi nuovi giganti è di “ostacolare il libero mercato”, il famigerato neoliberismo che da noi stiamo finalmente abolendo, nazionalizzando compagnie aeree e perfino sartorie. Il vulnus è che questi nuovi “baron robber”, come li chiama un deputato, mettano a rischio la nascita di nuovi capitalisti. D’altra parte, saran pure degli efferati monopolisti, ma lo Youtube su cui vediamo questo show parlamentare è di proprietà di Google, mentre il telefono o il computer su cui lo guardiamo è stato inventato da Apple, e l’Instagram su cui postiamo i nostri pensierini è di Zuckerberg: dunque occhio a vituperarli.

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Pare insomma tutto un rito senza senso, una di quelle trasmissioni dove ci si va a confessare, e a fare un piantino. Bezos, l’uomo più ricco del mondo, è alla sua prima apparizione tv, e pensando di essere da Diaco racconta la storia strappalacrime di quando fu adottato a 4 anni e poi di quando lasciò la finanza a Wall Street per fondare la sua società a Seattle. Alle spalle ha un’orrida libreria tipo massello massiccio, senza un libro ma con dei tragici vasi fantozziani; forse è casuale o forse è astuta mossa padronale: il risultato comunque è che il pubblico sviluppa subito una forte empatia con questi magnati: anche i ricchi piangono, quindi clamoroso autogol per chi ha messo su questa gogna prima delle vacanze (però con tecnologie eccelse, la connessione è sempre ottima, le immagini perfette: alla fine è anche un grande spot per la tecnologia made in Usa).

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