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Scontro al Wsj

Opinioni contro notizie. “La vostra ansia non è un problema nostro”

Paola Peduzzi

280 giornalisti del Wall Street Journal denunciano l’inaccuratezza delle pagine degli editoriali del quotidiano. Il board editoriale risponde: non cederemo, non siamo il New York Times. L’ultimo capitolo dell’estate “che ha fatto impazzire molta gente intelligente”

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La redazione delle opinioni del Wall Street Journal ha pubblicato una nota per i lettori in cui dice: “Queste pagine continueranno a promuovere i princìpi delle persone libere e del mercato libero che sono più importanti che mai in questa stagione culturale in cui crescono conformismo progressista e intolleranza”.

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La redazione delle opinioni del Wall Street Journal ha pubblicato una nota per i lettori in cui dice: “Queste pagine continueranno a promuovere i princìpi delle persone libere e del mercato libero che sono più importanti che mai in questa stagione culturale in cui crescono conformismo progressista e intolleranza”.

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Il board editoriale del quotidiano di proprietà della famiglia Murdoch risponde a una lettera firmata da 280 dipendenti del Wall Street Journal e della compagnia “sorella” Dow Jones e spedita al ceo Almar Latour qualche giorno fa: tre pagine di esempi in cui si denuncia “la mancanza di trasparenza e di fact checking” delle pagine degli editoriali del quotidiano che non avendo rispetto per i fatti “compromette la fiducia dei nostri lettori e la nostra credibilità presso le fonti”.

 

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Il gruppo di giornalisti chiede una divisione netta tra i commenti e le notizie, propone modi perché questa divisione sia visibile e comprensibile ai lettori e rivendica l’autonomia dei fatti sulle opinioni, anzi: dei fatti accurati sulle opinioni piene di errori. Ci sono in particolare due esempi. Il primo è un articolo del vicepresidente Mike Pence, pubblicato il 16 giugno scorso e intitolato: “Non c’è nessuna ‘seconda ondata’ di coronavirus”. Pence citava dei dati che dimostravano che la minaccia di una seconda ondata della pandemia fosse “esagerata” e sosteneva che la gestione dell’emergenza da parte dell’Amministrazione Trump avesse avuto successo. Qualche giorno dopo, una giornalista del Wall Street Journal, Rebecca Ballhaus, aveva verificato i dati e aveva chiarito che quelli citati dal vicepresidente non erano corretti: la redazione delle opinioni aveva pubblicato una rettifica che riportava l’articolo della Ballhaus.

 

Ma per i firmatari della lettera la rettifica è arrivata tardi e dopo molte pressioni, quando “controllare quei numeri avrebbe richiesto nulla più di una ricerca su Google”.

 

Il secondo esempio è il commento dell’editorialista conservatrice Heather Mac Donald intitolato “ Il mito del razzismo sistematico della polizia”, pubblicato a inizio di giugno. La Mac Donald si rifaceva a uno studio del ricercatore di Harvard Roland G. Fryer Jr., che qualche settimana più tardi scrisse sul Wall Street Journal che i dati della sua ricerca erano stati “rappresentati male e usati male”.

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I 280 scrivono che “i dipendenti di colore hanno espresso pubblicamente il dolore che è stato loro causato dal commento” della Mac Donald e aggiungono: se l’azienda “è seria quando dice di voler sostenere i dipendenti di colore, come minimo deve alzare gli standard della sezione delle opinioni in modo che qualsiasi disinformazione sul razzismo non sia pubblicata”.

 

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Negli scorsi giorni, il Wall Street Journal ha dato conto della lettera pubblicandone alcune parti – il testo completo è trapelato su altri media. Nella nota per i lettori, il board editoriale dice di non voler rispondere con una lettera alla lettera dei 280 “per spirito di collegialità” e aggiunge: “In ogni caso le loro ansie non sono una nostra responsabilità”.

 

La redazione delle opinioni e quelle delle news “operano con dipendenti e direttori separati” e questa separazione “ci permette di seguire storie e di informare i nostri lettori secondo il nostro giudizio indipendente”. L’obiettivo della nota è molto chiaro: sapevamo che la cancel culture sarebbe arrivata anche qui, era inevitabile, “ma noi non siamo il New York Times”.

 

Finché la proprietà lo consentirà, dice il board editoriale, ci sarà sempre posto per le opinioni di “chi dice quello che pensa all’interno della nostra tradizione di un dibattito vigoroso e ragionato”. Soltanto così, “le nostre pagine possono offrire un’alternativa ai punti di vista progressisti e uniformi che dominano quasi tutti i media di oggi”.

   

Tenetevele, le vostre ansie conformiste, dice la redazione delle opinioni del Wall Street Journal, che ha una certa dimestichezza con queste rivolte interne, visto che l’8 giugno aveva ricevuto un’altra lettera in cui si denunciava sia un articolo dell’editor at large (ed ex direttore) Gerard Baker in cui sosteneva che le persone di colore commettono più crimini rispetto al resto della popolazione sia l’attività e le dichiarazioni sui social dello stesso Baker.

 

Allora – erano gli stessi giorni in cui scoppiava lo scandalo nella redazione delle opinioni del New York Times che ha portato alle dimissioni del direttore di quella sezione, James Bennett – il Wall Street Journal decise di spostare Baker all’interno delle Opinion, dove le regole per quel che riguarda l’attività sui social sono meno rigorose rispetto alla redazione delle News.

 

Le polemiche all’interno del Wall Street Journal in realtà vanno avanti da molto tempo, da quando c’è Donald Trump soprattutto, con liti e divisioni che hanno a che fare con la copertura del presidente – che in quanto ad accuratezza non brilla certo – e con i tormenti del mondo conservatore che vediamo anche altrove.

 

Ma in questo particolare momento il Wall Street Journal vuole segnare due differenze rilevanti rispetto al New York Times e piegare il dibattito sulla cancel culture verso una direzione precisa. La prima è la resistenza contro il cedimento, non ci pieghiamo alle pressioni e anzi non ci occupiamo proprio delle ansie di voi presunti custodi della superiorità dei fatti sulle opinioni.

 

La seconda è politica: la cancel culture è progressista e liberal, e un giornale come il Wall Street Journal deve combatterla e arginarla. E’ per questo che il board editoriale non entra nel merito delle lamentele dei 280 né degli eventuali errori commessi, anzi non vuole nemmeno rivolgersi direttamente ai 280, sarebbe dare troppo peso alle loro ansie. In questo modo la discussione sulla cancel culture ritorna lungo i binari politici soliti, o cedi o resisti, o con me o contro di me.

 

Che questo sia un successo per la libertà di dibattito sembra difficile, la libertà di pensiero non è la libertà di dire cose non verificate, ma di certo è un altro capitolo di quella che il Washington Post chiama “l’estate che ha fatto impazzire molta gente intelligente”.

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