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Contro gli euroapocalittici

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Ecco quel che non capisce chi ripete ogni momento che l’Europa è destinata al fallimento. Storia di un matrimonio, di una terra contesa e di un vecchio cartone che ci parla di noi

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Resistente quanto l’Europa c’è soltanto la convinzione dell’imminente morte dell’Europa. E’ un’altra cosa che accomuna il continente e la cancelliera tedesca, questo: l’imminente morte (politica) di Angela Merkel va a braccetto con quella dell’Unione europea. In questi giorni di grandi feste da Recovery, dopo l’apnea di quattro giorni di negoziati (e di occhiaie tremende), siamo andate a riprendere articoli e analisi dei giornali internazionali di una decina di settimane fa, nel mezzo della pandemia da coronavirus. Abbiamo contato parecchie analisi del tipo: ora viene giù l’Europa, ecco il punto di rottura dell’Europa, incombe il collasso dell’Europa. Era accaduto anche in passato, quando è stata rifiutata la Costituzione europea nel 2005, durante la crisi finanziaria nel 2009, all’arrivo dei migranti nel 2015 e con la combo Brexit-Trump nel 2016. I commentatori inglesi sono da sempre i più catastrofisti (alcuni scommettono da tempo sul collasso europeo: così la Brexit diventa salvezza): nel 2012, il Centre for Economics and Business Research, centro studi britannico, stimò le probabilità della fine dell’eurozona al 99 per cento, definendo “politicamente impossibile” la sua sopravvivenza. La pandemia, improvvisa e globale, ha fatto tremare anche gli animi più solidi: frontiere chiuse, regole interne saltate, ogni paese membro pronto a badare a sé prima che a chiunque altro, paese o Unione europea. Quell’innegabile egoismo degli inizi ha però generato un’ambizione di salvezza collettiva che oggi vale 2.640 miliardi di euro – mai visto prima. Ma che cosa alimenta questo persistente catastrofismo?

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Resistente quanto l’Europa c’è soltanto la convinzione dell’imminente morte dell’Europa. E’ un’altra cosa che accomuna il continente e la cancelliera tedesca, questo: l’imminente morte (politica) di Angela Merkel va a braccetto con quella dell’Unione europea. In questi giorni di grandi feste da Recovery, dopo l’apnea di quattro giorni di negoziati (e di occhiaie tremende), siamo andate a riprendere articoli e analisi dei giornali internazionali di una decina di settimane fa, nel mezzo della pandemia da coronavirus. Abbiamo contato parecchie analisi del tipo: ora viene giù l’Europa, ecco il punto di rottura dell’Europa, incombe il collasso dell’Europa. Era accaduto anche in passato, quando è stata rifiutata la Costituzione europea nel 2005, durante la crisi finanziaria nel 2009, all’arrivo dei migranti nel 2015 e con la combo Brexit-Trump nel 2016. I commentatori inglesi sono da sempre i più catastrofisti (alcuni scommettono da tempo sul collasso europeo: così la Brexit diventa salvezza): nel 2012, il Centre for Economics and Business Research, centro studi britannico, stimò le probabilità della fine dell’eurozona al 99 per cento, definendo “politicamente impossibile” la sua sopravvivenza. La pandemia, improvvisa e globale, ha fatto tremare anche gli animi più solidi: frontiere chiuse, regole interne saltate, ogni paese membro pronto a badare a sé prima che a chiunque altro, paese o Unione europea. Quell’innegabile egoismo degli inizi ha però generato un’ambizione di salvezza collettiva che oggi vale 2.640 miliardi di euro – mai visto prima. Ma che cosa alimenta questo persistente catastrofismo?

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Le tre ragioni del catastrofismo. Jeremy Cliffe, direttore delle pagine internazionali del magazine inglese NewStatesman ed ex dell’Economist, ha cercato di spiegare “la convinzione dell’Europa fragile”, come la definisce lui, “che caratterizza soprattutto la copertura dei media in lingua inglese”. Cliffe ha evidenziato tre ragioni di questo catastrofismo. La prima: un fraintendimento dell’impresa europea stessa. “L’Ue ha meno poteri rispetto a uno stato federale e più responsabilità di un’organizzazione internazionale”, ha scritto Cliffe, e questa “forma ibrida” porta molti analisti a “malinterpretare le funzioni e la dimensione dei poteri europei”. La seconda: i catastrofisti applicano all’Ue “standard che vengono risparmiati ad altre entità politiche”. Cliffe fa un paragone con l’America dove, durante la pandemia, gli stati si litigavano i rifornimenti sanitari e gli stati più ricchi contestavano gli aiuti a quelli più deboli. Eppure nessuno parlava del collasso della federazione americana (del suo presidente, semmai). La terza: i catastrofisti ignorano una domanda importante, questa: le tante pressioni sull’Ue stanno cambiando l’Ue? Durante la crisi dell’eurozona, si parlava dei “breaking point” molto più dei cambiamenti strutturali che furono fatti per contrastare la rottura, “e che hanno cambiato per sempre l’Ue”. La stessa cosa è avvenuta in questi mesi, Cliffe è convinto che i catastrofisti “non imparano mai” e che alla prossima crisi ricominceranno, perché nessuna rivoluzione è mai abbastanza per i “doomer”. Eppure, è accaduto qualcosa di impensabile.

 

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La lettera degli economisti. Il 20 marzo scorso, sette economisti – sei tedeschi e un austriaco – pubblicarono una lettera su molti giornali europei chiedendo uno sforzo straordinario per un’emergenza straordinaria. L’ha ricordato su Twitter Moritz Schularick, professore di Economia all’Università di Bonn, che è uno dei firmatari della lettera. “Quando avevamo proposto a marzo che l’Europa doveva stare unita – ha scritto Schularick – e mobilitare risorse fino a un miliardo di euro, la reazione in Germania fu: è impossibile. Be’, eccoci qui”. Gran parte dell’urgenza è stata generata proprio dalla Germania, propria dalla regina dell’impossibilità di un debito comune, la cancelliera Merkel. E poi è diventata irresistibile.

 

Orbán, su tutta la linea. Index era un sito di notizie indipendente fino a poche settimane fa. E’ rimasto un sito, ma ha perso la sua libertà da quando il suo “barometro dell’indipendenza”, un grafico che tutti i giorni segnava il grado di indipendenza della testata, non ha iniziato a muoversi da “indipendente” a “in pericolo”. Lo schema è sempre lo stesso, un magnate sostenitore del primo ministro Viktor Orbán ha acquistato il 50 per cento di Indamedia, la società che vende la pubblicità a Index, e questo magnate ha iniziato a fare qua e là un po’ di aggiustamenti. L’ultimo è stato ieri, quando il direttore Szabolcs Dull è stato licenziato dopo aver detto che i giornalisti della sua testata erano sottoposti a pressioni crescenti. Se n’è andato con una dichiarazione: “Quel che è accaduto nelle ultime settimane mi ha convinto ancora di più che l’Ungheria ha bisogno di un sito di notizie in cui il contenuto e chi fa parte del personale non sono legati a poteri esterni furtivi, una fonte di notizie in cui l’unico obiettivo è informare i lettori, dove non vi è alcun intento politico o economico superiore non riconoscibile. Dove il nostro lavoro è libero e indipendente”. Una nuova vittoria dell’orbanismo e della sua democrazia illiberale che si aggiunge a una settimana di successi. Il primo ministro ungherese in effetti è tra i più soddisfatti dell’accordo concluso a Bruxelles. Avrà i soldi senza alcuna condizionalità sullo stato di diritto e rimanendo dentro al Partito popolare europeo, che non riesce a decidere se e come espellerlo. Il suo sostegno in Ungheria continua ad aumentare, anche grazie al pluralismo che non esiste più, Index era un piccolo affaccio sulla normalità e sui valori europei, ma il licenziamento di Dull indica che anche quella partita ormai l’ha vinta Orbán. Il premier ungherese dopo la fine delle negoziazioni europee ha detto: “Sette anni fa ho fatto la stessa cosa. L’esperienza è importante”.

 

L’amore pazzo per la Groenlandia. Lo scorso anno di questi tempi Donald Trump diceva di voler comprare la Groenlandia, che in effetti sarebbe un affare su cui in tanti hanno posato la loro attenzione, anche i cinesi. Trump twittava foto della Trump Tower in Groenlandia, diceva che sarebbe stata presto americana, ma quando i danesi hanno tentato di spiegargli che l’isola non si vende ed è dei groenlandesi, anche la regina Margherita, che parla poco e appare ancora meno, aveva tentato di spiegare al capo della Casa Bianca che si trattava di un’idea senza senso e così Trump, sentendosi offeso, aveva cancellato il suo viaggio a Copenaghen previsto per il 2 settembre. Il rapporto tra le due nazioni era rimasto piuttosto freddo, la premier danese Mette Frederiksen aveva definito la proposta di Trump “assurda” e Trump aveva definito la sua risposta “antipatica”. Tutto era rimasto immobile, i due si erano voltati le spalle e non erano più tornati sulla questione né su nessun’altra questione, fino a ieri, quando il segretario di stato americano Mike Pompeo è andato a Copenaghen per incontrare il suo omologo, la premier e i rappresentati degli Esteri della Groenlandia e delle Isole Faroe, per parlare della pandemia, della ripresa economica dell’Artico e anche di Cina, vero motivo del tour europeo di Pompeo. Tutti si sono stretti la mano e hanno concordato che le ambizioni territoriali sono finite e i due paesi sono pronti a recuperare i loro rapporti. Gli Stati Uniti hanno anche riaperto il loro consolato in Groenlandia, sono pronti a dire che l’idea di Trump è acqua passata, che si riparte, ma dimenticare quel territorio di due milioni di chilometri quadrati non è semplice, per gli Stati Uniti è strategico, sia per le sue risorse energetiche sia per la sua posizione. Anche russi e cinesi la guardano con attenzione: la Groenlandia non è in vendita, ma ci sono tanti compratori.

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L’amore pazzo per le Milf. C’è un film che sta dividendo la critica francese. E non perché i critici non riescano a stabilire se il lungometraggio in questione sia bello o brutto, interessante o banale, divertente o tedioso. Ma perché giornalisti e chi si occupa di cinema non riescono a dire se “Milf” di Axelle Laffont sia un omaggio alla libertà delle donne o un’accozzaglia di stereotipi sessisti. Qualcuno ci vede dell’amore e qualcuno della volgarità, qualcuno l’ha interpretato come un film spiritoso, altri come la solita commedia che diverte soltanto gli uomini. Noi non lo abbiamo visto e non possiamo ancora esprimerci nel merito, ma mentre la Francia è ancora intenta a discutere, il film è del 2018, gli Stati Uniti sono impazziti per “Milf” che è arrivato in pochissimo tempo al quinto posto delle classifiche di Netflix (in Italia è secondo). Gli americani ne vanno pazzi, c’è da dire che vanno pazzi anche per il polacco “365 giorni” (lo abbiamo visto e possiamo esprimerci: guardate altro!), e questo forse non è un bene per il film francese. Ma sembra proprio che gli Stati Uniti non riescano a resistere a quello che viene dall’Europa, i rapporti franco-americani saranno pure compromessi, ma il marchio parigino, seppur su un lungometraggio che parla di quattro belle madri in vacanza, li sta facendo impazzire. Dev’essere l’estate, o la superiorità delle donne francesi o forse che l’Europa non è brutta, scroccona e infida come la descrive il presidente americano.

 

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Sposarsi sul confine nord. Camilla Oyjord voleva sposarsi, aveva fissato la data, comprato il vestito, mandato gli inviti e organizzato il catering. Ma Camilla è norvegese e il suo promesso sposo, Alexander Clern, è svedese, quindi uno che non può circolare in Europa perché il suo paese ha scelto una via alternativa contro la pandemia di cui pochi si fidano. Dobbiamo rimandare, ha detto lui. Non ci penso proprio, ha detto lei: sposiamoci nel bosco al confine. Camilla ha detto poi che in realtà la sua proposta all’inizio era una battuta, ma poi gli amici le hanno detto che aveva avuto un’idea geniale, e allora si è presa sul serio. Così qualche giorno fa c’è stato il matrimonio, nella regione di Holebekk, nella parte sud-orientale della Norvegia, al confine con la Svezia. In mezzo a un bosco del nord Europa, la norvegese e lo svedese si sono sposati, a dividerli c’era un nastro bianco, la linea di confine, che i due sposi hanno oltrepassato dopo essersi promessi amore per sempre. Gli invitati non hanno potuto fare lo stesso: per loro il nastro bianco è rimasto, a controllare c’erano due poliziotti che hanno chiesto di poter partecipare perché dovevano controllare che il confine non fosse violato. Hanno brindato anche loro.

 

Mentre tutta l’Europa era impegnata a far la guerra, la Seconda, in Spagna nasceva il primo lungometraggio d’animazione a colori. Doveva per forza essere una questione di tempo, di interessi e di possibilità, un cartone animato a colori non era la priorità delle nazioni in guerra, ma poteva essere una curiosità per la Spagna di Franco nel 1945. Il cartone si chiamava Garbancito de la Mancha, ed era la storia di un bambino orfano che va a spasso per la Spagna rurale con una capra e una spada grandissima che gli serve per liberare i suoi concittadini da esseri malefici come streghe e giganti. Garbancito era il bambino spagnolo, l’icona dell’infanzia franchista, coraggiosa e patriottica. Ma finito il franchismo, Garbancito si era perso e per quanto si sapesse della sua esistenza e si raccontasse della bellezza del primo lungometraggio d’animazione a colori in Europa, nessuno lo ha più visto, se non in qualche copia di pessima qualità. La storia ci riporta a quella relazione complicata con gli Stati Uniti, perché il prode bimbo spagnolo e la sua capra erano finiti in un magazzino polveroso fuori New York dove un giorno un collezionista ha visto la pellicola, l’ha comprata e si è subito reso conto di essere davanti a uno dei più antichi personaggi dell’infanzia, il primo a colori in Europa. Ha alzato il telefono e ha chiamato la Filmoteca Española: “Pronto mi chiamo David e ho qualcosa che potrebbe interessarvi”. La chiamata suona quasi minacciosa, ma a Madrid hanno gioito nell’accogliere la notizia. Garbancito era finito a New York per quel gusto tutto europeo che appartiene agli americani, che anche se si sentono sempre più lontani amano tutto ciò che viene dalla nostra costa dell’Atlantico, che negli anni Cinquanta si erano fatti inviare la pellicola per doppiarla in inglese. Alla fine Garbancito è rimasto negli Stati Uniti ed è tornato soltanto adesso, pronto a farsi restaurare e a raccontare un po’ come era una parte di Europa di tanti anni fa.

 

Ora che l’Ue ha tirato fuori la sua spada di Garbancito per sconfiggere le streghe e i giganti dell’apocalisse, ci chiediamo come verrà raccontata questa storia un giorno, e chissà se Trump sarà anche lui una strega o un gigante da combattere. Quasi speriamo possa diventare un cartone a colori, che possa finire in un magazzino polveroso fuori New York e tornare fuori per raccontare a tutti di quella volta in cui l’Unione europea ha dato una lezione ai catastrofisti.

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