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Un Recovery plan culturale

Giuliano Da Empoli

Sette idee per superare l’Euronoia, mettere il cuore laddove c’è pura razionalità e infrangere un tabù radicato nella costruzione europea: quello della neutralità identitaria

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In questa pagina troverete l’anticipazione di un paper sull’Europa che sarà pubblicato sui “Quaderni di Civita” a cura dell’Associazione Civita. Questa è una versione riadattata per il Foglio.

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In questa pagina troverete l’anticipazione di un paper sull’Europa che sarà pubblicato sui “Quaderni di Civita” a cura dell’Associazione Civita. Questa è una versione riadattata per il Foglio.

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Molti oggi sono convinti che sia arrivata l’ora di un New Deal europeo, ma è bene ricordarsi che il New Deal originale, quello di Franklin Delano Roosevelt, non fu fatto solo di politiche economiche e sociali, ma anche di un’azione politica e culturale. E’ questo mix di politiche e di politica, di sostanza e di simboli che, attraverso la mobilitazione di energie intellettuali e creative e il ricorso alla radio e alle più sofisticate tecniche di marketing dell’epoca, ha permesso a Roosevelt di sconfiggere i nazional-populisti del suo tempo. Ecco perché, se davvero vogliamo far fare un passo avanti all’Unione e sconfiggere i sovranisti antieuropei di oggi, accanto al Recovery Plan finanziario abbiamo bisogno di un Recovery Plan culturale dell’Europa.

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L’obiettivo del presente documento è di delineare i contorni che un’iniziativa del genere potrebbe assumere se gli organi comunitari decidessero di imboccare questa strada. Le proposte individuate non costituiscono una lista esaustiva delle misure da adottare per andare in questa direzione: molte altre piste possono essere esplorate. Ma hanno tutte in comune l’idea che, oltre al tabù della mutualizzazione del debito, sia arrivato il momento di infrangere un tabù forse ancor più radicato nella costruzione europea così come l’abbiamo conosciuta finora: quello della neutralità identitaria.

Sulla base di questo principio, la cultura e l’identità appartengono alle nazioni, mentre l’Europa è il luogo della razionalità pura, che si limita ad affrontare problemi pratici svuotandoli il più possibile di ogni contenuto emotivo. Questo ha permesso di creare nel corso dei decenni una fitta rete di interconnessioni materiali tra gli stati del continente, ma non ha permesso l’emersione di un vero demos europeo: un popolo unito da valori e sentimenti comuni.

   


La battuta d’arresto del sovranismo non deve ingannare: serve una ricostruzione sul piano materiale ma anche emotivo


   

Al contrario, ne ha attivamente scoraggiato la formazione, ricoprendo tutte le questioni legate all’Europa di un velo di noia altamente dissuasivo nei confronti di chiunque non fosse un addetto ai lavori. In politica, si sa, la noia è il delitto perfetto. Se riesci a rendere un argomento così noioso che tutti se ne disinteressano, poi puoi fare quello che ti pare. E così è stato, per l’Europa, almeno fino a Maastricht e in parte fino ai nostri giorni.

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Il risultato della strategia dell’Euronoia è sotto gli occhi di tutti: una macchina poderosa, ma senz’anima, che presidia bene o male il terreno della razionalità, ma abbandona completamente alle nazioni, e ai nazionalisti, il campo delle emozioni e dei sentimenti. Gli unici che parlano in modo appassionante dell’Europa, oggi, sono i suoi nemici. Se i pro europei vogliono essere in grado di contrastare la loro visione, la prima cosa da fare è smettere di essere noiosi.

Ecco perché la costruzione europea non è un lavoro solo per i politici, ma anche per gli scrittori, per i registi, per i creatori di videogiochi. Quando hanno chiesto a Adam Price, il creatore di “Borgen”, cosa l’avesse spinto a scrivere una serie tv sulla politica danese, quello ha risposto che voleva rendere umano e appassionante un processo misterioso e noiosissimo. E’ ciò di cui avrebbe bisogno l’Europa per prendere in contropiede i nazional-populisti: qualche serie tv fatta bene in più e qualche convegno sul multilateralismo in meno.

     


L’Europa ha bisogno di un gigantesco autoritratto collettivo: se crea polemiche tanto meglio, è il dibattito che crea i sentimenti 


    

1. Un autoritratto dell’Europa del XXI secolo

Il primo elemento di un possibile New Deal culturale potrebbe essere ripreso direttamente dal modello originale di Franklin Delano Roosevelt. Lanciato nel 1935, il Federal Writer’s Project è nato con lo scopo di aiutare gli autori a sopravvivere durante la Grande Depressione, ma anche di creare “un autoritratto dell’America”. Accanto al programma dedicato agli scrittori, il Federal Project Number One ha poi previsto politiche analoghe in favore delle arti, della musica e del teatro.

Perché non immaginare oggi un programma analogo per scrittori, artisti, musicisti, registi e videomaker europei? Un programma che, anziché essere neutro sul piano dei contenuti, si prefigga l’obiettivo di realizzare un gigantesco autoritratto collettivo del nostro continente? E’ proprio di questo che ha bisogno l’Europa oggi. Di una mobilitazione di energie creative che provochino anche cortocircuiti inattesi. Moltiplicare i punti di vista e i racconti, ricominciare ad affrontare la costruzione europea in una chiave trasgressiva è l’unico modo di estrarre i dibattiti dal loro tedio mortifero per iniziare a rimettere in discussione l’egemonia culturale che i nazional-populisti sono riusciti ad imporre negli ultimi anni.

   

2. Una fabbrica di memi per l’Europa

Come fare in modo che, anziché restare confinati nei comunicati stampa dei commissari e nelle relazioni ai convegni, le idee e le iniziative europee raggiungano un pubblico più vasto? L’idea largamente diffusa, che il nuovo ecosistema dell’informazione, basato in larga misura su internet e i social network, sia intrinsecamente favorevole alle tattiche incendiarie dei nazional-populisti presenta alcuni elementi di verità, ma non può essere una scusa per rinunciare a combattere quella che l’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione Josep Borrell ha definito come “una battaglia delle narrazioni”. Nel 2015, la Commissione ha preso atto per la prima volta dell’esistenza di una guerra dell’informazione di livello globale, creando una task force incaricata di combattere le fake news e le operazioni di disinformazione qui prendono di mira l’Europa. In quattro anni, questa struttura ha svolto un ruolo importante, ma puramente difensivo. E’ indispensabile che sia ora affiancata da un’azione più proattiva, che promuova la competitività dell’Unione europea sul piano della battaglia delle narrazioni, all’interno, nei confronti dell’opinione pubblica continentale, così come sulla scena globale.

   


Ci vuole una struttura che contrasti l’egemonia delle narrazioni nazional-populiste, una “Radio Londra” per l’Ue del XXI secolo


    

Contrariamente alle loro apparenze ruspanti, i nazional-populisti sono diventati maestri nell’arte di utilizzare i big data per moltiplicare l’impatto dei loro messaggi. Ancora una volta senza cadere nelle tecniche più manipolatorie dei nazional-populisti, l’idea che l’Europa debba essere in grado di comunicare direttamente (non solo attraverso i corpi intermedi tradizionali) con categorie diverse per convincerle con argomenti necessariamente diversificati, appare evidente. Ciò presupporrebbe un investimento importante per arrivare a costituire quella che Luca Jahier chiama una “Radio Londra” per l’Europa del XXI secolo: una struttura che inizi finalmente a contrastare l’egemonia delle narrazioni nazional-populiste in rete e su una parte dei media tradizionali.

     

3. Una Storia per l’Europa

Sono lontani i tempi nei quali i più grandi storici dell’epoca facevano a gara per essere i primi a redigere una storia d’Europa che non fosse solo un’opera accademica, ma l’ingrediente di un progetto di civiltà. Certo è vero che nel corso degli anni, diversi manuali di storia franco-tedesca hanno visto la luce e sono stati adottati nelle scuole e nelle università dei due paesi. Nel 2017 ha poi fatto la sua comparsa nelle librerie tedesche e francesi “Europa: notre histoire”, sorta di mastodonte editoriale che ha riunito in millequattrocento pagine e centocinquanta articoli i contributi di storici del mondo intero che si sono interrogati sull’esistenza di una memoria comune del continente. Sono passi incoraggianti, ma la sfida di scrivere una storia europea e popolare, che ponga le basi di una vera e propria “educazione europea”, rimane intatta . Anche in questo caso si tratta, beninteso, di un progetto destinato a sollevare opposizioni e infinite controversie, nel mondo accademico e ben al di là di esso. Non è questa però una ragione sufficiente per scoraggiarsi.

    

4. Dopo Erasmus, Odysseus

Alcuni anni fa, Umberto Eco invocava “un Erasmus per i tassisti, gli idraulici e gli operai”. Erasmus, in effetti, è stato uno dei pochissimi programmi comunitari capaci di produrre una vera trasformazione culturale, formando alcuni spezzoni di una vera generazione europea. Oggi esistono le condizioni per un salto di qualità che porti all’istituzione di un vero e proprio Servizio Civile Europeo, dedicato ai ragazzi dai 18 ai 25 anni, della durata dai 6 ai 12 mesi, che dia a tutti i giovani europei, non solo agli studenti e a chi è già attivo nel mondo del volontariato, la possibilità di un impegno diretto, per un periodo di tempo limitato, in campo ambientale, sociale o culturale, per migliorare il mondo in cui vivono e, nel contempo, affermare la propria presenza nella società. Il nome che potrebbe identificare questo progetto è Odysseus. Non si tratterebbe di una scelta particolarmente originale, ma impiegare un nome tanto impegnativo al posto del solito acronimo incomprensibile sarebbe la spia di un’ambizione. Così come Erasmus è partito alla fine degli anni ottanta, dalla figura di uno dei più grandi umanisti della storia europea, Odysseus fa riferimento al personaggio che, più di ogni altro, incarna la curiosità e l’avventura. Nella pratica, l’obiettivo non sarebbe più quello di coinvolgere i giovani sulla base di progetti presentati o di obiettivi concertati con associazioni come avviene oggi, bensì di introdurre un reale servizio civile europeo, di tipo volontario, tramite una vera e propria “chiamata” dei giovani europei a compiere un periodo di servizio. Pertanto la differenza tra Odysseus e gli altri programmi sarebbe chiara: superare tanto la mera cooperazione transnazionale basata su enti quanto quella bilaterale fondata su stati, aprendo definitivamente la stagione di un servizio all’intera comunità dell’Unione da parte dei giovani europei.

    

5. La Capitale

Bruxelles è una città che si può attraversare, da una parte all’altra, senza neppure accorgersi che è la capitale dell’Europa. Anche questo è un volto dell’Euronoia: in una città caleidoscopica, agglomerato multietnico di comunità diversissime tra loro, l’unico quartiere completamente privo di personalità è quello europeo. In parte, l’aspetto del quartiere europeo rispecchia il fatto che Bruxelles è diventata la capitale dell’Unione un po’ di nascosto, non è mai stata formalmente in quanto tale. Evidentemente, nel corso di questo ennesimo processo semiclandestino (non è un caso se, in termini più generali, Régis Debray ha potuto parlare di una “strategia furtiva” della costruzione europea ), tutto si voleva fuorché attirare l’attenzione reclutando grandi architetti e concependo progetti iconici. Il risultato è quello che ha sotto gli occhi qualsiasi visitatore del quartiere europeo: 85 isolati di uffici che rappresentano più o meno la trasposizione nel mondo reale delle banconote dell’euro, asetticamente prive di volti riconoscibili e di monumenti.

  

Non è questo, certo, il momento di concepire progetti architettonici faraonici per rimediare alla situazione, esistono però strumenti più soft, legati all’allestimento degli spazi pubblici e a grandi progetti di arte pubblica che sono in grado di trasformare il volto di un quartiere e di generare una forte carica simbolica. Un’Eurotopia, spazio di incontro, di riflessione e di discussione nell’ambito del quale l’architettura non crea ostacoli ma li abbatte: gli architetti del collettivo Traumnovelle hanno esposto alla Biennale di Venezia e al Bozar di Bruxelles le loro soluzioni per la reinvenzione del quartiere europeo della città. Ma molte altre idee sono possibili. Perché non lanciare un grande concorso internazionale che mobiliti i migliori architetti e artisti del continente intorno ad un obiettivo finalmente esplicito: dare un’anima alla capitale dell’Europa?

      


I caffè, diceva George Steiner, sono un altro dei fondamenti sui quali si basa la cultura europea: portiamoli nelle campagne   


    

6. Una rete di Europa-café

Il buco nero dell’Europa sono le sue campagne. Oggi è evidente che la capacità di riconquistare le campagne, per l’Europa dipende in primo luogo da politiche economiche e sociali che riducano la distanza tra centro e periferia. Nessuno pensa che iniziative di carattere culturale possano, da sole, invertire la tendenza alla polarizzazione in corso da decenni. Il che non impedisce però di pensare che la cultura abbia un ruolo da giocare.

Se i caffè, come diceva George Steiner, sono un altro dei fondamenti sui quali si basa la cultura europea, perché non riprendere su scala continentale l’iniziativa “1000 caffè per rivitalizzare le campagne” lanciata dalla Ong “S.O.S.” con il sostegno del governo francese? Come indica il suo nome, si tratta di un bando pubblico rivolto ai comuni di meno di 3.500 abitanti che permetterà l’apertura di mille caffè. Unica condizione per accedere al finanziamento: che il comune non disponga già di un caffè o che questo sia minacciato di chiusura.

Se un’iniziativa di questo genere fosse allargata su scala continentale, si potrebbe immaginare che la rete degli Europa café svolga anche un ruolo di catalizzatore culturale, diventando luoghi di aggregazione e di dibattito sulla base di formati predisposti ad hoc. Un modello su questo versante è quello dei Democracy Cafés creati dalla ong britannica My Life My Say che ha ripreso la tradizione delle cofféehouse inglesi del XVII secolo per coinvolgere migliaia di giovani in discussioni sul loro futuro in Gran Bretagna dopo la Brexit.

    

7. Un progetto Babele per la traduzione vocale

L’enorme apparato che assicura la traduzione in tutte le lingue dell’Unione dei lavori del Parlamento Europeo è spesso l’oggetto di battute e di polemiche. Si tratta, in effetti, di una struttura che mobilita risorse impressionanti, più di mille persone tra le quali oltre seicento traduttori, e produce, di tanto in tanto, effetti comici. Pochi sanno, in compenso, che da alcuni anni la base dati del Parlamento Europeo è diventata la fonte più importante per le aziende di intelligenza artificiale che lavorano sull’elaborazione di sistemi di traduzione vocale. Dove altro trovare un archivio di traduzioni simultanee in 24 lingue, accessibile pubblicamente e realizzato con i più elevati standard di professionalità?

  

Ancora una volta, si conferma la regola sulla base della quale accade che investimenti pubblici producano ricadute inattese in termini di innovazione del settore privato. A questo punto perché non fare un passo ulteriore puntando su un progetto di ricerca che, così come quello sul genoma che ha mobilitato scienziati di tutto il mondo, miri a produrre entro cinque anni strumenti portatili, sotto forma di un auricolare senza fili, di traduzione diretta e verbale che permetta a due locutori di lingue diverse di parlare ciascuno, e di sentire l’altro, nella propria lingua, in modo naturale? La Commissione, scrive Jean-Noël Tronc, ha proposto di destinare 5,5 miliardi di euro l’anno ad un “fondo di capacità” in materia di difesa comune; destiniamo 500 milioni di euro ad un progetto Babele il cui effetto politico sarebbe determinante per l’avventura europea, e i guadagni di produttività considerevoli in tutti i settori di attività dell’Unione.

  

Conclusioni

Come dice Paul David Henson, in arte Bono, il futuro dell’Europa dipenderà dalla sua capacità di trasformarsi da un’idea a un sentimento. Perché in politica i sentimenti tendono a prevalere sulle idee e lasciarli tutti dal lato delle nazioni e dei nazionalisti è un rischio che non possiamo permetterci di correre.

Perché l’Europa si trasformi in un sentimento, però, le scelte tecniche, per quanto rilevanti, non basteranno.

La noia ha fatto molto per l’Europa, ma oggi non basta più. Nel corso degli ultimi decenni, l’europeista è diventato un essere di prudenza e non di conquista, il che ha permesso ai suoi avversari di identificarsi con il cambiamento, pur propugnando un pericoloso ritorno al passato.

La crisi del Covid-19 ha segnato una battuta d’arresto per i movimenti sovranisti in tutta Europa. Ma sarebbe illusorio pensare che questa tendenza sia destinata a consolidarsi se la costruzione europea non saprà apportare risposte alle aspirazioni dei suoi cittadini. Sul piano materiale, certo. Ma anche su quello emotivo.

Solo gli ingenui sottovalutano il peso degli ideali e delle passioni. I realisti, al contrario, conoscono da sempre il loro potere e sanno che nessun cambiamento profondo è possibile in loro assenza.

 

Il paper completo si può leggere a questo link.

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