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L’estate della solidarietà

Paola Peduzzi e Micol Flammini

O ci salviamo insieme o non si salva nessuno: lo ripetono tutti da settimane, ora scopriremo se ci credono. Girotondo di opinioni e di idee sul vertice che può cambiare il futuro dell’Ue

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L’aria di questi giorni prima del vertice europeo sul Recovery fund è quella delle occasioni importanti: grande solennità, grande ambizione, nervi a fior di pelle. Mentre i leader dell’Unione europea preparano la valigia – quante camicie portare? Si inizia venerdì, ma quando si finisce? – e alcuni di loro continuano le visite forsennate che hanno scandito l’ultima settimana, è cominciato il totovertice: chi cede, chi alza la posta, chi non è disposto ad alcun compromesso, chi invece è orgoglioso di poter accettare compromessi promettenti, chi dice che entro domenica è fatta, chi invece pensa a un altro vertice pre vacanze, frettoloso e decisivo. L’attesa è grande, ma c’è anche la consapevolezza che questo è un momento cruciale per il futuro dell’Ue. Non solo per una questione economica molto evidente: c’è bisogno di aiuto e aiuti, di pianificazione e certezza, altrimenti la crisi da coronavirus non sarà superata. Ma anche perché per la prima volta l’Ue fa un test su uno dei temi che più le stanno a cuore – e che insegue e rifugge e reinsegue – che è quello della solidarietà. In passato molti tentativi fatti per costruire una solidarietà europea sono falliti e ha vinto l’istinto nazionale o il veto di qualcuno. Pensiamo alla questione migratoria, che doveva essere risolta da uno sforzo di solidarietà e che invece è stata rimandata, annacquata, ignorata. Ma l’assenza di solidarietà si registra in tanti altri casi – quando si discute di fondi e budget in particolare – e le fratture ideologico-geografiche ritornano spesso, e sempre uguali: l’est contro l’ovest, il nord contro il sud. Il vertice del 17-18 luglio non fa eccezione ma conserva una sua eccezionalità perché la proposta di cui si discute introduce un elemento rivoluzionario: la creazione di un debito comune europeo, se non ci salviamo tutti non si salva nessuno. L’Ue si vuole dotare di strumenti che possano rendere concreta la solidarietà e quindi l’integrazione, cosa che fino a poche settimane fa era impensabile e ora è invece il cuore del negoziato.

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L’aria di questi giorni prima del vertice europeo sul Recovery fund è quella delle occasioni importanti: grande solennità, grande ambizione, nervi a fior di pelle. Mentre i leader dell’Unione europea preparano la valigia – quante camicie portare? Si inizia venerdì, ma quando si finisce? – e alcuni di loro continuano le visite forsennate che hanno scandito l’ultima settimana, è cominciato il totovertice: chi cede, chi alza la posta, chi non è disposto ad alcun compromesso, chi invece è orgoglioso di poter accettare compromessi promettenti, chi dice che entro domenica è fatta, chi invece pensa a un altro vertice pre vacanze, frettoloso e decisivo. L’attesa è grande, ma c’è anche la consapevolezza che questo è un momento cruciale per il futuro dell’Ue. Non solo per una questione economica molto evidente: c’è bisogno di aiuto e aiuti, di pianificazione e certezza, altrimenti la crisi da coronavirus non sarà superata. Ma anche perché per la prima volta l’Ue fa un test su uno dei temi che più le stanno a cuore – e che insegue e rifugge e reinsegue – che è quello della solidarietà. In passato molti tentativi fatti per costruire una solidarietà europea sono falliti e ha vinto l’istinto nazionale o il veto di qualcuno. Pensiamo alla questione migratoria, che doveva essere risolta da uno sforzo di solidarietà e che invece è stata rimandata, annacquata, ignorata. Ma l’assenza di solidarietà si registra in tanti altri casi – quando si discute di fondi e budget in particolare – e le fratture ideologico-geografiche ritornano spesso, e sempre uguali: l’est contro l’ovest, il nord contro il sud. Il vertice del 17-18 luglio non fa eccezione ma conserva una sua eccezionalità perché la proposta di cui si discute introduce un elemento rivoluzionario: la creazione di un debito comune europeo, se non ci salviamo tutti non si salva nessuno. L’Ue si vuole dotare di strumenti che possano rendere concreta la solidarietà e quindi l’integrazione, cosa che fino a poche settimane fa era impensabile e ora è invece il cuore del negoziato.

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Il summit del 17-18 luglio (e forse oltre) deve approvare il Recovery fund. La mappa del negoziato e della posta in gioco

Abbiamo chiesto ad alcune voci europee di spiegare questo momento, di raccontarci la rivoluzione in corso e anche di dirci che cosa può succedere se poi il test della solidarietà fallisce. Ma prima di cominciare vogliamo invitarvi a una festa che è stata organizzata da The Europeans e Are We Europe, uno dei nostri podcast europei preferiti e uno dei magazine che cercano di raccontare gli europei, le loro vite e i loro sogno – il popolo europeo, insomma. La festa si chiama “Summer of Solidarity”, l’estate della solidarietà, e consiste nel condividere storie “che celebrano l’amore oltreconfine e la solidarietà tra europei”. Possiamo partecipare tutti, basta aver voglia di raccontare “come qualcosa di un altro paese europeo ha modificato la nostra vita, che sia un libro, una ricetta, una canzone o l’incontro inaspettato con uno sconosciuto”. Saranno scelte nove storie, le più divertenti e rappresentative, ma ci siamo fatte promettere da Katy Lee, una delle conduttrici di The Europeans Podcast, che ci farà la sua personale classifica delle storie che raccoglierà. Intanto le abbiamo chiesto la sua “storia d’amore con l’Europa” e ci ha detto: “Si svolge ad Aquisgrana, in Germania. The Europeans era stato nominato come candidato per un premio e mi sono ritrovata in mezzo a un gruppo di giovani provenienti da tutta Europa. I discorsi che precedevano la premiazione erano estremamente noiosi e così noi ci siamo tenuti svegli whatsappandoci immagini di persone nel pubblico che si addormentavano. Ci siamo divertiti tantissimo. E’ una cosa piccina, ma a un certo punto ho realizzato che stavo facendo una cosa che per i miei nonni non sarebbe stata possibile: mi stavo divertendo con nuovi amici provenienti da paesi contro cui eravamo abituati a fare la guerra. Quasi mi sono commossa. Poi no, non abbiamo vinto il premio”.

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Su cosa si discuterà

Sono almeno sette le questioni ancora aperte per arrivare all’accordo, e non c’entrano soltanto i soldi e i debiti

Il negoziato sarà molto delicato e complesso, e sono (almeno) sette le linee di divisione, come ci spiega David Carretta da Bruxelles. Uno: il volume complessivo del Recovery fund e del bilancio pluriennale 2021-27 (alcuni paesi vogliono ridurre i 750 miliardi del Next Generation e i 1.073 del quadro finanziario pluriennale). Due: il rapporto tra stanziamenti a fondo perduto (500 miliardi) e prestiti (250 miliardi) del Recovery fund (alcuni paesi sono a favore solo di prestiti e non di stanziamenti a fondo perduto. Un’ipotesi è di ricavare dal Recovery fund due “facility” per gli investimenti e la ricapitalizzazione delle imprese attraverso la Bei. Questa soluzione permetterebbe di non tagliare le quote destinate direttamente agli stati membri). Tre: governance e condizionalità (come previsto anche dal piano di negoziazione del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ci saranno una votazione a maggioranza qualificata del Consiglio sui piani nazionali di ripresa e sulla decisione di sborsare i fondi dopo l’adozione della riforma. L’Olanda chiede il diritto di veto con una decisione all’unanimità. “Sarà una delle cose più difficili da risolvere”, dice un diplomatico europeo). Quattro: condizionalità sullo stato di diritto (Ungheria e Polonia chiedono di escluderla. Altre hanno detto che è assolutamente necessaria). Cinque: gli sconti, o i rebate (tutti sono consapevoli che ci sarà un rebate per Germania, Paesi Bassi, Austria, Svezia, Danimarca e Finlandia, ma sull’ammontare e la durata di sette anni, c’è ancora discussione. Alcuni paesi chiedono rebate più alti). Sei: tra le nuove risorse proprie, solo la Plastic Tax non è controversa mentre su Digital Tax e Meccanismo di aggiustamento carbone alla frontiera (Carbon Tax) non ci sarà accordo al Consiglio europeo (sullo scambio delle emissioni ci sono molti problemi e resistenze da parte di diversi stati membri. La Germania aveva già contabilizzato questa risorsa nella sua programmazione di bilancio nazionale). Infine sul bilancio 2021-27 rimangono ancora problemi per l’ammontare delle risorse destinate a politica di coesione e politica agricola comune.

 

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Idee nuove e senza dogmi

Yannis Koutsomitis è un analista greco esperto di affari dell’Unione e se si vuole capire cosa succede nelle istituzioni europee e avere un piccolo scorcio su ciò che potrebbe succedere, è tra gli esperti da seguire, anche su Twitter. Non ha la sfera di cristallo, ma anni di esperienza e una propensione all’analisi lucida. “Negli ultimi mesi è diventato chiaro che da alcuni stati membri il progetto europeo non è considerato come una comunità di nazioni vincolate dal principio di solidarietà, ma soltanto come una zona di libero scambio. Sarebbe piuttosto controproducente in questa fase discutere su chi ricada la colpa di questo divario di interpretazione, ma i leader europei, che questa situazione più che crearla l’hanno ereditata, dovrebbero lavorare per colmarlo. Sin dalla creazione dell’Unione monetaria e del mercato unico, non siamo riusciti ad appianare le differenze, ci siamo soltanto accontentati e in breve le cose sono evolute così: il sud dell’Europa non faceva i compiti e accusava il nord per il divario commerciale e il nord puntava il dito contro il sud ‘pigro’ per creare deficit di bilancio e gonfiare il debito sovrano”. Le cose stanno così da molto tempo ma, dice Koutsomitis, è arrivato il momento di lasciarci alle spalle questo dibattito inutile e di concentrarci sulla situazione terribile che si è venuta a creare con la pandemia, come ha deciso di fare Angela Merkel. “La cancelliera tedesca e la stragrande maggioranza dei partiti politici tedeschi, e anche la società civile, hanno dimostrato la volontà politica e soprattutto un impegno vero per il progetto europeo e hanno lasciato cadere il dogma che aveva guidato la loro politica per anni: no ai trasferimenti di denaro e al debito comune. Ora spetta agli stati frugali abbandonare i propri dogmi e spostarsi dalle loro posizioni iniziali, e il sud dell’Europa deve accettare uno schema razionale di responsabilità vincolato all’allocazione dei fondi europei. E’ positivo che il dibattito adesso sia tutto incentrato sulle condizioni della ‘solidarietà’ e penso che alla fine l’Unione europea raggiungerà un consenso ed eviterà una crisi esistenziale”. Andrà tutto bene, ci dice l’analista greco: “La sfida di superare questa enorme crisi sta scuotendo le nostre idee e i dogmi di tutti e stiamo arrivando a renderci conto che siamo tutti interconnessi”.

  

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Quel che c’è in gioco, per davvero

“La grandezza della coalizione a favore dei piani di risanamento dovrebbe aiutare a spingere i quattro frugali ad accordarsi”

Per capire cosa aspettarci da questo fine settimana di struggimenti europei, abbiamo chiesto a Pepijn Bergsen, ricercatore di Chatham House, cosa ne pensa lui che, oltre ad aver lavorato all’Economist Intelligence Unit, è stato consulente economico del governo olandese. Secondo Bergsen, “la discussione durante il vertice non riguarderà soltanto il denaro, ma anche le opinioni divergenti sull’integrazione europea. I paesi frugali, il gruppo che comprende Paesi bassi, Svezia, Danimarca e Austria, intendono l’integrazione principalmente come un progetto economico e si sono sempre opposti a pagare di più per questo progetto”. E questa visione, lo sappiamo, non è iniziata con il coronavirus: “Già prima che scoppiasse questa crisi, chiedevano una riduzione del bilancio dell’Ue e cercavano di imporre tagli ai fondi di coesione e ai fondi agricoli. Tuttavia, la grandezza della coalizione a favore dei piani di risanamento dovrebbe aiutare a spingere i quattro frugali ad accordarsi sul budget e sul Recovery fund. Se non a questo vertice, sarà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi”. Secondo Bergsen si arriverà a un compromesso “in base al quale acconsentiranno a che gran parte del fondo venga erogata sotto forma di sussidi, anziché prestiti come stanno chiedendo, e in cambio otterranno gli sconti sui contributi al budget pluriennale e anche che i soldi vengano erogati soltanto se vincolati alle riforme strutturali delle economie del sud”. L’Ue potrebbe non fallire il suo test di solidarietà questa volta, “il sostegno tedesco al piano è indicativo dell’importanza, se non economica almeno politica, di mettere in atto questa solidarietà. La Germania in precedenza è stata tra i più forti oppositori di una più profonda integrazione fiscale nella zona euro, ma questa volta la cancelliera Merkel ha notato che l’impatto economico della pandemia ha colpito alcuni stati più duramente di altri e non per colpa loro, ed è preoccupata per le implicazioni future. Anche se è improbabile che il Recovery fund sia sufficiente, potrebbe contribuire a uniformare la ripresa economica”. E se il test fallisce ci sono rischi alti, soprattutto per la stabilità politica, “c’è il rischio che la delusione per la mancanza di solidarietà spinga gli elettorati degli stati del sud, e l’Italia in particolare, lontano dall’Ue. Ciò non porterebbe necessariamente a un’implosione immediata dell’Unione europea, ma alimenterebbe le forze euroscettiche, rendendo i progressi sull’integrazione quasi impossibili”.

L’èra glaciale no, per favore

 Teresa Coratella è analista allo European council for Foreign Relations, ha un occhio molto attento su quel che accade in Europa con una particolare attenzione per l’est e la Polonia. Secondo lei l’Ue è arrivata a un punto in cui la solidarietà è imprescindibile e questa volta la parola ha un significato tutto diverso. “Non è la prima volta che il termine solidarietà viene utilizzato in Europa, lo abbiamo sentito già durante la crisi finanziaria riferito alla Grecia, poi durante la crisi dei migranti riferito all’Italia e ancora una volta ad Atene, ma credo che siamo arrivati a una fase ulteriore nell’utilizzo della parola. Questa volta non riguarda più un singolo paese, ma è un concetto che investe tutta l’Ue. Quindi questa volta la solidarietà va intesa a 360 gradi, perché, seppur con forza diversa, la pandemia ha colpito tutti e ha colpito uno di quei diritti che davamo ormai per scontati: quello alla salute”. Siamo entrati in una fase diversa, dice Coratella e questa volta quando si parla di solidarietà è anche un modo per dire che è arrivato il momento di superare le divisioni. “Nord-sud, est-ovest, la solidarietà deve essere il pilastro attorno al quale rilanciare il progetto europeo. L’Ue ha superato diverse crisi, la bocciatura del referendum costituzionale o anche i progetti di allargamento, sono tutte difficoltà che hanno richiesto uno sforzo paneuropeo e il vertice del 17 e 18 luglio potrebbe essere un punto di svolta, quei giorni non si discute soltanto il Recovery fund, c’è in gioco molto di più”. Il primo incontro a Bruxelles dopo tanti mesi, il primo di persona, sarà una prova importante per tutti e ventisette e il fallimento è possibile, ma anche pericoloso. “Le criticità da gestire sono tante e se i paesi in difficoltà, soprattutto Italia, Francia e Spagna non saranno sostenuti attraverso un meccanismo di solidarietà dell’Europa intera potrebbe venir giù tutto il progetto e le conseguenze non saranno soltanto locali, ma anche internazionali. Se il test fallisce entreremo in un’èra glaciale per l’Ue e il disgelo sarà lungo. Inizierà uno stallo politico in cui la Germania, che è il motore economico, politico e anche morale in questo momento, si troverà in una situazione di estrema difficoltà alla guida del semestre europeo e i problemi saranno anche per le prossime presidenze. Francia e Germania hanno fatto di tutto per trainare gli altri 25 stati, ma c’è resistenza, la classe politica ancora non capisce la straordinarietà del momento e la necessità del compromesso”.

Visti per nomadi digitali

Due dei nostri media preferiti hanno lanciato un’iniziativa che sa di festa: è la Summer of Solidarity e sembra il ritratto del popolo europeo

Ognuno ha le sue risposte alla crisi economica, ma tra dati, richieste, previsioni e pretese, abbiamo deciso di seguire l’ispirazione dell’Estonia, un paese sul Baltico, che confina con la Russia e che è entrato nell’Ue nel 2004. L’Estonia ha il sogno di diventare un paradiso digitale, di evolversi a livello tecnologico più velocemente di chiunque altro, e il sogno della smaterializzazione del lavoro lo coltiva già da un bel po’, da quando nel 2014 ha avviato il programma e-residency che consente a persone di altri paesi di aprire un’attività in Estonia. Ma non occorre stare proprio in Estonia, si può fare da remoto. Come gli altri europei, anche gli estoni vanno incontro alla crisi economica, si sono già rialzati da quella del 2008 che li aveva colpiti duramente, e hanno intenzione di attirare quanta più gente possibile. Il principio è questo: ora che le aziende hanno capito che con lo smart working si può lavorare da lontano e lavorare bene, magari ci saranno più persone che potranno permettersi di andare a vivere altrove e allora perché non in Estonia? Il paese ha deciso di concedere dei visti per nomadi digitali ma ci vogliono dei requisiti per ottenerli: bisogna non essere europei e dimostrare di guadagnare più di 3.500 euro al mese. I nomadi con visto potranno rimanere in Estonia per dodici mesi e muoversi per la zona Schengen. E’ un progetto ambizioso, un po’ come quello di risvegliarsi tutti solidali per davvero, e magari con la voglia di raccontare la propria storia europea, d’amore ovviamente. Ed è proprio allo spirito della Summer of Solidarity che ci affidiamo in questi giorni di test. Abbiamo chiesto a Katy Lee di The Europeans se è ottimista o pessimista riguardo al test. Dice: “Penso nessuna delle due cose. Sono inglese io, ci piace stare seduti sulla staccionata”.

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